Alla scoperta dei letterati/Prolegomeni
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giornalisti politici, ora femine, ora preti cattolici. Appena due o tre sono colti e sinceri; ma le lor voci, per la permanente scissione etnica dell’ancor vano regno d’Italia, non sono intese oltre i termini della regione che è loro. Così generalmente avviene che gli altri pseudo-critici, non sapendo parlare, sputino su tutto e su tutti e, ora che i preti non sono più in onore, gridino — come quelli una volta solevano — il pulvis es sopra ogni opera nuova. Del resto, anche se migliori e più franchi ve ne fossero, dove scriverebbero essi? Sono i giornali politici barbariche rocche chiuse dove è difficile entrare per chi nobilmente in sua lingua scriva della patria arte e delle lettere patrie (troppo i politicanti sono nemici della grammatica e temono il paragone); sono le riviste rare e o giovani e ignote e passeggere, o vecchie e superstiziose e pedanti; sono i libri difficili a farsi perchè gli editori italiani non intendono che la critica storica e sono per lo più poveri e miopi. Dove scriverebbero i critici, se mai sapessero scrivere? Così avviene che, per mancanza di araldi, il letterato venga in fama solo dopo molte prove quando pure non giaccia fino dal primo armeggiare spaurito dalla solitudine ambiente; così avviene che il pubblico, pure lentamente abbandonando i libri di Francia per quelli d’Italia e anche i cattivi per i buoni, non veda tutto insieme il mutamento e séguiti anch’esso cui arretrare davanti a un libro italiano, e accordandosi al raglio dei prelodati critici, faccia la smorfia: — Ohibò!
E qui mi incoravo sperando così:
— Io andrò di città in città pazientemente, cercherò di quei venti o trenta scrittori che o per verace valore d’opera o per sola fama o per questa e per quella hanno ormai messo il capestro al calcitrante asinello chiamato pubblico, e loro domanderò quel che pensino su la odierna letteratura italiana; e se mi si dimostreranno ottimisti, loro domanderò le ragioni di quell’ottimismo e i sintomi del risorgimento sperato; e se mi si dichiareranno pessimisti, loro chiederò le cause di quel pessimismo cercando pur di intendere se essi sieno ciechi o se realmente il cielo sia tenebroso. Così troverò la verità alla sorgente, apprendendola cioè dalla bocca di quelli stessi che fan professione di scrivere. È quasi un principio di socialismo estetico: ponendo innanzi al pubblico tutti gli scrittori e le loro idee su l’arte, io sopprimo il critico intermedio e il pubblico saprà cui attenersi.
Il cómpito pareva chiaro, con un po’ di solerzia anzi di ostinazione, facile a fornirsi, moralmente lodevole e utile, e forse — per gli aneddoti, per i ritratti disegnati dal vero sopra uno sfondo vero — accetto anche a un lettore fastidiosamente profano alle disquisizioni estetiche.
E procedevo innanzi con molta fiducia.
⁂
E questa fiducia luminosa m’ha guidato per tutto il viaggio che ho compito in tre o quattro tempi. Da me stesso vi mostrerò i falli probabili del mio libro; i quali sono tre:
E il primo sta nel fatto che per quanto mi ci sia sforzato io non sono sempre riescito a mantenere l’oggettività di puro relatore; troppo spesso, in ispecie con gli antichi amici, l’interrogatorio diveniva piacevole discussione dove — sia che io convincessi altrui alla sentenza mia, sia che da altrui io fossi indotto a mutarla — la semplicità della ideale interview veniva a mancare. Io (e l’idea determinante del libro lo insegna a sufficienza) sono ottimista e sogno il sole anche dentro la foresta più salvaggia e tenebrosa e intricata; io ho in grande disdegno tutta l’arte puramente naturalista — sia fisiologica che psicologica — la quale ha confuso il mezzo con lo scopo e ha fatto romanzi con quella materia grezza ed informe donde l’artefice idealista estrarrà per sua maestria l’opera vera; io penso a un futuro romanzo che abbia a simiglianza del corpo umano per ogni minima parte vivificato dal sistema nerveo, un’Idea centrale che lo scaldi e lo illumini, un’Idea che non sia una tesi passeggera ma uno di quelli assiomi immanenti che guidano l’uomo e la società come sublimi stelle vigilanti, un’Idea donde il romanzo derivi la sua novella denominazione di Idealista; io vedo, più che non sappia, tutta la superiorità del nostro linguaggio, tutta la ricchezza del suo lessico, tutta la possibile varietà del suo periodo, tutta la musicalità suasiva delle sue forme estetiche; infine io giovane conosco molti giovani pronti e validi che, come me, queste cose belle credono e intendono di apertamente affermare in odio ai vecchi disdegnosi di noi. Potevo io, per quanta fosse la mia volontà, dimenticare anzi scordare queste ambizioni dei compagni miei e di me stesso, e adagiarmi continuamente in una oggettività pacifica?
E il secondo fallo è negli altri non in me. Io ho trovato, salvo uno o due, tutti gli scrittori pronti, anzi lieti di soggiacere al tormento dell’interrogatorio, ma anche pochissimo agili a rendere all’improvviso in poche e nitide e piacenti parole le loro idee. Non so: forse ciò avviene perchè l’interview non è da noi così diffusa come in Francia e in Inghilterra e in America dove in fondo essa non è più una rapida conversazione ma un vero articolo che l’interviewer domanda all’interviewed derubandolo di quelle trenta cinquanta anche cento lire che quell’articolo venduto varrebbe, tanto che ultimamente il marchese De Vogüé la definì celermente de la copie gratuite fournie à un confrère qui touche les droits d’auteur à notre place; forse anche ciò avviene perchè molti dei nostri più acclamati autori parlano un italiano anche più povero di quello che scrivono, un italiano che spesso è vero e proprio dialetto. Ma su ciò non è cortese che io insista qui a capo di un libro fatto per loro bontà.
Il terzo fallo e ultimo (forse non voglio vederne altri) non deriva né da me né dai miei interlocutori, deriva dalla mancanza di un centro che come in Francia, attiri a sé stabilmente i letterati e gli artisti. Un mio collega francese, Jules Huret, compì tre o quattro anni fa, con bel successo una Enquête sur l’Évolution littéraire in Francia e in Belgio, ma, meno una o due facili escursioni, egli potè svolgere la sua inchiesta dentro Parigi, e anche potè ai suoi letterati proporre domande fisse, quasi scolastiche, su la morte del naturalismo, il trionfo dello psicologismo, l’avvenire del simbolismo — domande qui da noi inani e forse incomprensibili. Io invece da Roma mi son dovuto, attraverso a Bologna e a Venezia, spingere fino a sotto il confine ad Arsiero nel Vicentino e a Campiglia Cervo nel Biellese, là per vedere Antonio Fogazzaro, qui per cercare di Edmondo de Amicis; e da Genova, ripassando per Roma, son dovuto scendere fino a Napoli e in Abruzzo. Bene a ragione i giornali umoristici della mia Roma nell’estate scorsa mi figuravano sperduto in ignote lande, abbigliato in fogge strane, discendendo il corso di ignoti fiumi, inerpicandomi su per intatte acutissime rupi, solo per amore dell’arte e dell’editore! E fossero stati solo i dirupi e i torrenti o amici di Bologna, che n’avete veduto crocefisso per giudicio e per mano del nostro Sommo Pontefice!
In ogni modo questo cercar vagando qua e là mi ha fatto perdere quattro colloquii; uno con la più nobile poetessa nostra, Alinda Bonacci-Brunamonti che ho veduta in settembre nella sua mistica Perugia e le cui parole, diligentemente annotate, sono andate sperdute per negligenza di posta; uno con Enrico Nencioni che, al mio passaggio per Firenze in quest’ultimo febbraio, era gravemente inferma; uno con Gerolamo Rovetta che si è schivato con parole assai cortesi e troppo modeste; uno infine col signor Rapisardi, per incuria tutta mia, che francamente, passare lo Stretto per vedermi poi in qualche ventura Atlantide vituperato mi piaceva pochissimo, — e del resto, ora che il Socialismo laggiù entra in azione il poeta ha creduto prudentissimo di divenire calvo e roco per non aver più criniere da squassare e ruggiti da vomitare.
Delle altre omissioni dico che sono state fatte tutte scientemente.
⁂
E adesso due parole di riassunto. I pessimisti in fine non adeguano per peso e per numero gli ottimisti, sebbene ciò sarebbe naturale, perchè a forza di udire ripetere che è notte, si addorme spesso anche chi è pronto alla luce e al risveglio.
Ventisei colloquii sono qui riuniti e di questi ventisei interlocutori sette si sono apertamente dichiarati pessimisti anche pel futuro: Giosuè Carducci, Cesare Cantù, Ruggero Bonghi, Paolo Lioy, Edmondo de Amicis, Giovanni Marradi, Arturo Graf; cioè tre che già celebri sono prossimi alla vecchiaia e per istinto aborrono dal nuovo e se ne difendono, e quattro socialisti. Undici si sono invece detti apertamente e sicuramente ottimisti circa l’avvenire della letteratura nostra se non in tutte le tre forme presenti (poesia romanzo teatro) almeno in una di esse che diventerebbe predominante e forse assorbirebbe le altre due. E questi sono: Gabriele d’Annunzio, Giuseppe Giacosa, Antonio Fogazzaro, Luigi Capuana, Camillo Antona-Traversi, Giovanni Verga, Domenico Oliva, Enrico A. Butti, Enrico Panzacchi, Roberto Bracco.
Altri sono incerti, e limitano le loro affermazioni o le loro negazioni con molti se condizionali. Tali sono: Matilde Serao che prima di un risorgimento artistico vuole tutto un rinnovamento morale; Edoardo Scarfoglio che nega l’esistenza di una letteratura italiana finché si scriva come si scrive generalmente adesso; Ferdinando Martini il cui scetticismo vi apparirà un po' preconcetto; Giacinto Gallina che, pure accusando la povertà del teatro nostro odierno, spera in un suo rinnovamento idealista; de Roberto che aspetta la nascita del vero linguaggio italiano; Arturo Colautti che sottomette lo sviluppo d’ogni arte ad una legge economica.
Del resto voi lettori, giudicherete separando il grano dal loglio; e, se troverete alcun pensiero che vi dispiaccia, accusatene pur me ma rileggete quelle parole che Jacopo Passavanti dice nel suo Specchio della Vera Penitenza, là dove tratta Della terza scienzia diabolica: «Una volta disse il diavolo a un santo uomo: — La gente spesse volte mi accagiona e incolpa a gran torto impognendo a me molti mali che si fanno eglino stessi...»
Da Roma, morendo l’aprile del 1895.
Ugo Ojetti.