Alla scoperta dei letterati/Ferdinando Martini
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Roma, settembre del ’94.
— La letteratura italiana odierna? E quale? Ma io appena appena credo a una letteratura italiana passata, se per letteratura ella intende non solo le opere somme e sole, ma una sequela di opere maggiori e minori, legate da un vincolo di evoluzione visibile.
Lo studiolo era basso, semplice, fresco in quel caldissimo giorno di settembre; per le imposte socchiuse entrava il romore continuo delle vetture e dei tramways dal corso Vittorio Emanuele. Ferdinando Martini, seduto presso la finestra, al lato della scrivania, aveva il suo abituale sorriso arguto, quasi a dare a quella demolizione preliminare un valore paradossale. E ancor giovine ed elegante; e il colorito smorto cui s’accordano i piccoli baffi castagni e i capelli appena brizzolati, dà al suo volto una espressione di scetticismo galante che il sorriso e la pronuncia toscana acuiscono. Egli che ha diviso i suoi migliori anni tra le lettere e la politica, ha un aspetto di diplomatico fine e pur di artista geniale. Infatti il linguaggio accurato e la dialettica sottile e vivace, essendo e pel politico e per l’artista massimi mezzi al buon successo, sono le sue qualità precipue.
— Ella si meraviglierà a vedermi così pessimista. Io credo che in questo mio pessimismo sia qualche cosa di instintivo. Ma anche a volerci ragionar su, non riesco a mutarlo. Io non so, non vedo le cause di questa presente decadenza: constato gli effetti, senza altro. Siamo sopra una china assai sdrucciola, e tutto rotola giù; non percepisco le cause prime del moto, ma solo il moto. E non parlo dell’Italia soltanto. Si guardi alla Francia che per tanto tempo è stata la maestra eccellente. Dopo la generazione del ’30, dopo Balzac, Hugo, Renan, Dumas, Flaubert chi è venuto? Zola? Bourget? Ma essi e gli altri scrittori geniali dell’oggi, che varrebbero senza il sostegno validissimo dei predecessori? Non intendo mica che l’arte morirà. No: l’arte è sospesa, ma essa è una funzione sociale necessaria e non può morire. Di soste simili se ne incontrano nella storia dell’arte d’ogni paese.
— Ma qualche sfumatura apparirà in tutto questo nero che ella vede. Delle tre forme nelle quali massimamente apparisce l’opera d’arte oggi (intendo la poesia, il romanzo e il teatro), quale è più disperata?
— Il teatro. Già noi non abbiamo avuto mai un teatro: Goldoni, Goldoni e sempre Goldoni. Prima di lui esistevano due commedie sole, La Mandragola e La Calandra. Le ripeto: io al teatro italiano non ci credo. Veniamo alla prova d’oggi. Il teatro deve — a parer mio — ritrarre i costumi e dare creature vive. Ora quali costumi veri sono riprodotti sul nostro teatro? Quelli di Gherardi del Testa? Eh via, nessuno li ha visti mai nel mondo in cui viviamo noi. E quali creature vive e vitali sono nate sul nostro palcoscenico? Il signor Travetti? Ma la Francia da Corneille a Dumas figlio ce ne ha date mille. Rabagas paga tutti i nostri neonati rachitici.
— E allora, di grazia, perchè ella scrive pel teatro?
— Già, è molto tempo che taccio. Ma se sapesse quanto fa bene sperare e tentare per quella speranza! A giorni darò a Torino La vipera in un atto.1 Vedremo. E ho dentro a questo cassetto La moglie dell’ambasciatore e La donna d’altri e altri abbozzi e altri progetti. Li rappresenterò?
— Ella deve rappresentarli. Io scendo adesso da Milano e tutti gli scrittori drammatici concordano nel chiedere a lei di rappresentare qualche cosa. All’opera sua si riattacca, se non altro, una grande speranza: quella di vedere in atto la lingua italiana teatrale. Tutti ne dubitano.
— E hanno ragione d’essere dubbiosi. Raramente io ascolto una sola scena scritta in nostra lingua.
— Essi dicono che la lingua manca al teatro, o almeno è in via di formazione e ancora non è così letteraria da potere, pur restando spontanea e libera, essere degna veste a un’opera duratura.
— Manca il linguaggio? Oh, in grazia, e noi che lingua parliamo? Che io mi sappia, ella ora mi parla in lingua italiana e io le rispondo in lingua italiana. E anche fuori della conversazione calma, anche nei momenti di passione, le persone cólte finiscono proprio per parlare in dialetto? Eh via! Anche queste persone cólte passano sotto turbini di passione altrettanto violenti che quelli ripetuti sulla scena. Bisogna che questi signori colleghi studino la lingua, parola per parola, diligentemente, e poi controllino i loro studi con l’uso reale. Quel che manca è un buon vocabolario della lingua parlata. Tutti quelli che ci sono accolgono parole disusate e viete. Io sto tentandone uno. La lingua nostra corrente, spontanea, vera è ricca quanto e più d’ogni altra lingua. Mi rammento un aneddoto di parecchi anni fa. Eravamo in parecchi una sera all’antico Aragno; era allora uscito l’Au bonheur des dames di Emilio Zola, e il direttore d’un giornale romano allora molto diffuso disse che lo avrebbe voluto pubblicare in appendice al suo periodico, ma che sarebbe stato impossibile tradurlo esattamente per la copia di vocaboli sopratutto di arredi donneschi. Io gli proposi di tradurlo parola per parola; tutti giudicarono la prova difficile, e il direttore accettò la scommessa. E io tradussi puntualmente il romanzo tanto temuto, e vinsi la scommessa, e onestamente credo di averlo tradotto bene.
— Pure nella prosa, dal Carducci al d’Annunzio, la lingua letteraria è stata bene rinvigorita.
— Perchè dice lingua letteraria? Dica lingua italiana, perchè l’errore è appunto in quella distinzione. Adesso quando uno scrittore italiano vuol fare (e raramente lo può) della buona prosa, si veste con gli abiti di festa, bene agghindati, e comincia a scegliere tra due parole, una d’uso comune e l’altra d’uso raro, quest’ultima. Perchè? E anche nella forma del periodo egli prosegue la scelta con lo stesso criterio. Vero è che noi, avendo un’ottima lingua poetica perchè abbiamo un’ottima tradizione lirica, non abbiamo una prosa che sia classica e insieme facilmente leggibile. Un francese, può leggersi piacevolmente Rabelais o Montaigne. E noi? Ottimi i classici per noi letterati; ma i profani, quando dal Cellini o dal Galilei vogliono passare agli altri, hanno tutto il diritto d’aver sonno.
— E pel romanzo non spera nulla?
— Nel romanzo non oso essere così francamente pessimista, perchè non ho la prova storica che ho pel teatro. Il romanzo è sorto da poco, e in Italia abbiamo già un romanzo: I promessi sposi. E pochino uno solo, ma intanto c’è. Poi abbiamo tentativi confortanti, da Gabriele d’Annunzio a Matilde Serao. Vedremo: riservo il mio giudizio, ossia.... la mia condanna.
— E del contenuto dei romanzi nostri ella che pensa?
— Intende la scuola? Poco importa, stia certo. Purché l’opera d’arte nasca, i posteri che la manterranno sul trono non si cureranno se sia naturalista, realista, medanista, psicologica e via dicendo. Certo questi diversi metodi che hanno acuito tante discussioni inutili hanno un difetto comune: tolgono al romanzo il pensiero. Badi bene, io odio la tesi in arte, odio Ibsen e — per dire tutto insieme — non sono socialista. Ma pure l’arte deve pensare e indurre a pensare. Deve mostrare, se non dimostrare.
— Un esempio.
— Guerra e pace; quel libro che però ha altri difetti, in questo senso è ottimo: esso mostra ma non dimostra nulla.
— Se ella ammette che il pensiero debba ben vivificare il romanzo, che pensa del misticismo e più dei neo-mistici?
— Il misticismo ha ora un fondamento sociale. Tutti hanno paura di quel che verrà, perché si presenta una qualche novità immensa, e, al solito, la paura del reale genera l’aspirazione al sopranaturale.
Il misticismo poi in letteratura ha un’altra ragione tutta estrinseca: l’abuso di certe cose, dette verità, che il naturalismo puro ha recentemente fatto.
— Ella poco più su ha detto che noi abbiamo una buona tradizione lirica.
— È vero. La lingua e l’inspirazione ci sono, e da noi molti dei luminari stranieri hanno preso la fiamma. In questo unico lato il nero del mio pessimismo si rischiara.
E qui lasciai Ferdinando Martini, che alla sera partiva per la sua diletta villa di Monsummano.
- ↑ La Vipera nell’autunno ’94 e nell’inverno ’95 è stata rappresentata ottenendo dal pubblico molti applausi, dalla critica un «successo di stima».