Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Lezioni/XI. Il mondo intenzionale e la concezione dei «Promessi Sposi»

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XI. Il mondo intenzionale e la concezione dei «Promessi Sposi»

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XI. Il mondo intenzionale e la concezione dei «Promessi Sposi»
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Lezione XI

[IL MONDO INTENZIONALE
E LA CONCEZIONE DEI «PROMESSI SPOSI»]

Ecco dunque il mondo morale e religioso di Manzoni divenuto un mondo poetico. Non è ancora una forma, ma è già una concezione, la quale risponde a tutta la pienezza di quell’ideale.

In essa sono tre gruppi: uno che si potrebbe chiamar «positivo», il quale vi rappresenta quel mondo come esistente in questo o quel personaggio: Lucia, il padre Cristoforo, Federigo; un gruppo che si potrebbe chiamare «di opposizione», in cui quell’ideale è negato, contraddetto: don Rodrigo, il conte Attilio, Egidio, l’Innominato; e finalmente un gruppo «intermedio», in fondo buono, ma comico: don Abbondio, Perpetua, Agnese, don Ferrante.

L’autore avendo l’intenzione di creare non un mondo ideale, ma un mondo positivo e storico, questa concezione deve prendere una forma storica. Difatti, apriamo Manzoni e che troviamo? Comincia con un pezzo che dice cavato da una cronaca, scritta nello stile del secolo XVII, imitato con molta finezza, ciò che rivela l’uomo profondato non solo nella storia, ma anche nella forma letteraria di quel tempo. Vuol dare a credere ai lettori, cancellando ogni preoccupazione di un mondo artistico, che egli non intende far altro che raccontare una storia, tratta da un manoscritto e solo rammodemata. Se ciò fosse fatto come fa l’Ariosto, il Pulci, il Berni, il Boiardo, per seguire le antiche tradizioni, abbandonandosi insieme ai capricci

dell’immaginazione, non porterebbe conseguenza. [p. 246 modifica]
Ma no, il poeta concepisce questo seriamente, e vuole ispirare nel lettore non solo un interesse poetico, ma anche storico; vuole persuadergli che ciò che egli dice sia non solo possibile, verosimile, ma avvenuto. Questo è ciò che dico «mondo intenzionale» di Manzoni, corrispondente cioè alla intenzione o alle intenzioni dello scrittore; il mondo effettivo è quello che è uscito dal suo cervello, astraendo dalle intenzioni avute.

In che modo l’autore ha voluto ispirarci quel sentimento dell’avvenuto, del positivo, sí che il suo mondo ideale sia un semplice strumento per farci conoscere il secolo XVII?

Finora s’è servito di questo mezzo: ha preso un grande avvenimento storico, e l’ha rappresentato da storico, gettandovi dentro qualche episodio poetico. Così ha immaginato il Carmagnola e l’Adelchi. Ora ammaestrato dall’esperienza, tiene il metodo contrario: l’ideale che là è episodio, qui è divenuto concezione, cioè nodo, fondamento, centro. Dove dunque è il mondo positivo? L’autore ha forse immaginato episodii storici e mescolatili a quella concezione? Di questi episodii ve n’è appena qualcuno e legato intimamente con la concezione, sicché in luogo di chiamarsi episodio, è parte integrante della totalitá: per esempio la monacazione forzata di Gertrude. È un episodio, ma cosí strettamente connesso con l’azione principale, che Gertrude e il suo amante sono istrumento del rapimento di Lucia, e non già come l’Olindo e Sofronia del Tasso, un episodio staccato dalla concezione principale. Dunque non abbiamo qui per centro un grande avvenimento storico, né episodii storici.

Che cosa c’è? Con quali mezzi è ispirato il sentimento del positivo?

Vi sono degli avvenimenti impersonali e patetici. Sono grandi avvenimenti derivati da cause lontane, connessi per mezzo di personaggi importanti con la storia d’un secolo, ma di una influenza così generale, che vanno a toccare l’esistenza del più umile contadino. Quando questi avvenimenti me li fate centro di una storia, troverete le persone che li hanno prodotti: supponete la guerra franco-prussiana, e ci troverete Bismarck e Napoleone. Considerateli nelle influenze che hanno sulle più umili [p. 247 modifica]esistenze: viene il romanzo e vi presenta due fidanzati percossi dalla sventura di questa guerra, la quale ha importanza solo in quanto si collega con la sorte de’ personaggi del romanzo. Perciò ho detto «impersonali» siffatti avvenimenti, e tali sono una grande carestia, un terremoto, la peste, e anche le guerre, le rivoluzioni: avvenimenti che oltrepassano il giro de’ personaggi che ne son causa immediata, si diffondono su tutto il territorio di una nazione, modificano la vita anche del contadino.

Di questa specie sono quelli scelti da Manzoni: la peste, la guerra per la Successione, per cui i lanzichenecchi invasero il territorio ove dimoravano Renzo e Lucia, e così tutte le vicissitudini generali che hanno influenza su questo o quel periodo della storia.

Ho soggiunto «patetici», perché la vita ordinaria è in istato normale; ma quando uno di que’ grandi avvenimenti percote un popolo, esso ha forza di rompere il corso ordinario dell’esistenza, di far sorgere nuove passioni, di stimolare la vita interna più inattiva, e spanderla al di fuori, come una di quelle tempeste che increspano la calma superficie del mare e gettano sopra ciò che è al fondo degli abissi.

Manzoni, con quella sapienza di combinazioni che già conosciamo dall’esame del Carmagnola e dell’Adelchi, fin dal principio presenta un quadretto di genere, dove vediamo in miniatura quegli avvenimenti impersonali: è la prima voce del mondo che deve nascere. Intendete che parlo della famosa orgia di don Rodrigo, e là quando il vino scioglie lo scilinguagnolo agli invitati, l’autore trova occasione di dipingere il piccolo mondo di Lecco, non solo, ma in iscorcio tutto il mondo lombardo del secolo XVII, che deve entrare nella storia; vi si parla della carestia, della guerra di Successione, de’ tordibi possibili, vi comparisce il Conte-duca, insomma vi si travedono tutti gli avvenimenti impersonali e patetici.

Così ha fatto Manzoni per dare il colorito storico al suo mondo; ma la benedetta intenzione storica lo fa eccedere in un lato della rappresentazione di cui finora è stato maestro: nella [p. 248 modifica]proporzione e armonia delle parti; perché quegli avvenimenti sono guardati non già solo dirimpetto al fatto principale, ma in se stessi e nella loro importanza storica.

Alla prima pagina compariscono i bravi. Egli poteva dire in poche parole che cosa essi erano e perché avevan messo radice in Lombardia. Ma volendo persuadere che ciò che dice è storia, è cosa autentica, rompe il racconto e parla de’ bravi, del loro modo di vestire, dell’influenza che avevano, delle leggi o gride che li riguardavano: porta i testi, cita i legislatori, spende insomma due pagine, producendo una digressione. Se le digressioni fossero brevi come questa e rare, non ci sarebbe male; ma trascinato dal suo mondo intenzionale, spesso Manzoni dimentica di scrivere un romanzo, di avere innanzi un mondo ideale inventato, arresta il racconto e vi dà interi capitoli storici destinati a compiere il quadro del secolo XVII.

Quando entra in iscena Federigo Borromeo, gli è consacrato un capitolo; quando comparisce don Ferrante, c’è un capitolo intorno a’ costumi e alle forme letterarie di quel tempo. Tutto questo è bello a leggere, e se mi si domandasse: — Vorreste voi, per l’armonia delle parti, sopprimere quei capitoli? — , risponderei: — No, perché l’esposizione è così animata, è fatta con tanto spirito, sa così impadronirsi dell’animo del lettore, che voi, se per l’impazienza di seguire il racconto vorreste correre innanzi, calmata quella, in una seconda lettura ci trovate tale attrattiva, che non avreste il coraggio di dire all’autore: togliete questo capitolo — . Ma rispetto alle leggi dell’armonia e della proporzione nella concezione artistica, evidentemente questo è un difetto: ma meno grave qui che in altri poeti dominati parimenti da intenzioni estranee all’arte.

Citerò due grandi poeti italiani. Dante non solo voleva formare il mondo artistico dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso, ma gittarvi dentro tutta la sua teologia e filosofia. C’è un mondo intenzionale che penetra in quelle forme artistiche e spesso le vizia e guasta, per cui trovate nella parte interna la sentenza, il sillogismo, la forma scolastica che intralcia ed oscura l’arte; ed all’esterno un’altra maledizione, la forma simbolica [p. 249 modifica]che inviluppa l’immagine e fa pensare a sensi reconditi a cui l’immaginazione non può giungere. In Dante questa parte difettosa è maggiore che in Manzoni; là il mondo intenzionale penetra dappertutto, qui solo come appendici, e tagliando queste, il mondo artistico rimane salvo.

Un altro esempio. Ci fu un gran poeta che ebbe le stesse intenzioni di Manzoni e si trovò quasi nelle medesime condizioni. Torquato Tasso fu il poeta della reazione del Concilio di Trento dopo il gran movimento del Rinascimento, come Manzoni è il poeta della reazione del secolo XIX contro la Rivoluzione francese e il secolo XVIII. Entrambi hanno avuto come fondamento della poesia la restituzione del mondo cattolico nella sua integrità, han voluto tutti e due resistere al fantastico illimitato dei tempi precedenti con un mondo positivo. Dirimpetto allo sfrenato mondo ariostesco, pone Tasso un mondo storico, le Crociate; contro gli slanci politici di Alfieri e degli altri del secolo XVIII, pone Manzoni la serietà di un mondo positivo. Quale è la differenza?

Tasso, volendo creare un mondo positivo religioso dirimpetto al cavalleresco dell’Ariosto, produce un mondo cavalleresco e idillico. E quando vede la Gerusalemme Liberata ammirata dai contemporanei solo per la parte romanzesca e inventata, e gli eroi del popolo essere Armida, Erminia, Clorinda, si ribella contro il suo poema, ed ha l’anima di rifarlo non nella corteccia, ma nell’organismo, dandoci un nuovo poema ch’egli chiama la vera, e i posteri giudicano la falsa Gerusalemme, dove la parte artistica è uccisa per la sovrabbondanza della parte storica, e la prima e bella sua creazione è profanata.

Manzoni volea fare un mondo storico, e tirato dal sentimento dell’arte ne ha prodotto uno puramente artistico; ma non ha avuto l’animo di rifare la sua creatura. La ritocca nelle parti esterne, togliendo qualche lombardismo, aggiungendo qualche toscanismo, e facendo male, secondo me, perché questi lavori sovrapposti, aggiunti, guastano la primitiva creazione. Ma non rifà, e solamente col Discorso sul romanzo storico respinge da sé il suo figlio, il quale ancorché bello, non è quale lo volea il padre. [p. 250 modifica]
Perché l’autore non ha potuto raggiungere il suo intendimento? Per difetto di sentimento storico? Ma basta leggerlo! Ha studiato tre anni il secolo XVII; è giunto ad imitarne lo stile: non è la potenza storica che gli manca. Come dunque si spiega che non ha raggiunto il suo scopo, ma invece un altro? Egli dice che è impossibile riuscire, perché il problema è assurdo, l’arte e la storia devono prevalere l’una sull’altra, non possono tutte e due operare con la stessa forza sull’animo del lettore. No, il problema non è assurdo in se stesso: l’arte può far tutto, raggiungere un fine estraneo a sé, storico, filosofico, morale, anche geografico se volete. Prendete il Viaggio di Anacarsi, il viaggio di Platone in Italia del nostro Cuoco, le Lettere persiane di Montesquieu, i dialoghi di Fontenelle sulla pluralità dei mondi, e anche i versi di Portoreale, che nella mia fanciullezza mi han tormentato la mente e credo non sieno più in uso oggi. Che cosa è tutto questo? È l’arte messa al servizio di altri fini. Volendo rappresentare i costumi di Pompei senza adoperare una forma puramente didattica, seccante e grave, adoperate l’arte e fate un romanzo. Volete rappresentare i costumi dell’Oriente e dell’America? Viene Paolo Cook e scrive i suoi viaggi, forma artistica adoperata a render piacevole la rappresentazione de’ costumi e dei luoghi. L’arte dunque può riuscire nel problema di Manzoni, ma a patto che neghi se stessa e si contenti di essere una pura forma tecnica, accessoria, uno strumento per rendere meno noiosa qualche conoscenza storica o geografica.

Se Manzoni volea veramente raggiungere un fine storico, poteva immaginare un viaggio in Lombardia, dialoghi o lettere di uomini viventi del Seicento, e così dare la conoscenza di quel tempo. Ma egli è un artista, e in lui l’interesse storico è secondario; ed ha cominciato col creare una concezione altamente poetica che non ha che fare col secolo XVII, si può trovare in tutt’i i secoli per la generalità della sua dottrina: una concezione che è figlia della sua mente non solo, ma anche del suo cuore, corrispondente a tutte le fibre più riposte del suo animo. Messo questo sostrato, diciamo a Manzoni, messa questa [p. 251 modifica]concezione che fa battere il vostro cuore e produce profonda impressione sulla vostra anima di artista, potevate dire: — Voglio che il lettore non si occupi tanto di Renzo e Lucia, e solo di conoscere il secolo XVII — ?

Manzoni dunque deve dire che la colpa non è del genere, ma sua: felice colpa, perché nonostante tutte quelle appendici al romanzo, come Dante, Tasso e tutt’i grandi artisti, ha raggiunto uno scopo diverso da quello propostosi, e che deve piacere più che il ritrarre semplicemente un’epoca storica.

Ma credete che quel mondo intenzionale sia proprio inutile a Manzoni? Dante l’ha avuto, l’hanno avuto Tasso, Milton; c’è un mondo intenzionale nel Faust di Goethe, il quale si ficca dappertutto, specialmente nella seconda parte e la rende così pesante. Quel mondo uccide l’artista pedante e mediocre che finisce col magro, con l’arido. Il Rosini, eccellente uomo, ma privo del senso dell’arte, s’è innamorato della Gertrude di Manzoni, e ne ha fatto la Monaca di Monza. Tutti e due hanno le stesse intenzioni. Manzoni non è riuscito perché artista, Rosini è riuscito mediocremente a darci le opinioni, i costumi di quel tempo, perché non è artista e il suo libro non è né storia né arte.

Ma quando questo mondo intenzionale si affaccia all’artista, che cosa è, anche se si mette traverso l’arte e la guasta? Dietro l’artista c’è l’uomo, l’artista non è solo colui che produce delle forme, è un uomo compiuto, ha le sue opinioni politiche, morali, religiose, le sue passioni, come Dante; e tutto questo complesso, volere o non volere, deve penetrare nell’arte, e più si move, più si rivela l’artista. Sicché se il mondo intenzionale preso da Manzoni nella sua serietà ha prodotto qualche difetto ne’ Promessi Sposi, rallegriamoci pure. Che cosa è questo difetto dirimpetto alla grande utilità che Manzoni ricava da quegli studii, i quali hanno, non dico creato perché queste cose non si creano, ma perfezionato in lui il senso del reale, il senso dell’analisi la cui importanza è così grande, specialmente per uno scrittore moderno?

Uno scrittore del secolo XVIII donde partiva? Da certe [p. 252 modifica]idee. Manzoni donde parte? Da certi fatti: il suo punto di partenza da cui riceve l’ispirazione, non è la tale idea, ma il tale mondo storico. Per questa disposizione ha creato la lirica drammatica. In che differisce la sua dalla lirica di Monti e di Parini? In questi è astratta, in Manzoni nasce dai fatti. Questo senso del reale è stato sviluppato dagli studii profondi e coscienziosi sulla storia.

Ora lasciamo il mondo intenzionale e prendiamo la concezione. Abbiamo innanzi una concezione ideale; che rimane a vedere? Tutte queste prime linee architettoniche non sono che una semplice combinazione, bellissima, sapientissima, ma intellettuale, e noi vogliamo vederle forma vivente. L’essenza dell’arte non è nelle intenzioni storiche, politiche e nemmeno metafisiche ed estetiche: abbiamo il concepito, vogliamo il formato.

Il fenomeno della produzione non è eguale in tutt’i poeti, come la vita non è eguale in tutti gli uomini. Il tale produce un figlio con intelligenza sviluppata, con quel temperamento, con i sentimenti morali naturalmente gentili: un altro produce un diverso essere, per esempio, colle facoltà morali sviluppate più che le intellettuali. Da che proviene questa differenza? Da ciò che è il padre. Lo stesso è dei poeti.

Le forze produttive non sono eguali; e per vedere come diviene «forma» il mondo di Manzoni, dobbiamo domandargli: — Quali sono le vostre forze produttive? come sentite quell’ideale? — .

Manzoni lo sente in sé e per sé? Lo sente come filosofo, come teologo e moralista? Quando quel mondo gli si presenta, è egli il moralista acceso di zelo, che vuole propagare una dottrina? È l’uomo politico che si sente apostolo e crede che l’arte deve servile a spandere certi principii? Tutto questo è in lui; ma in presenza del suo ideale egli è come un pittore che prende il pennello e cerca dipingerlo. Sente innanzi tutto il bisogno della forma, si agita in lui la facoltà che dirò «plastica». Se gli si presenta un personaggio, egli non l’abbandona finché toccandolo e ritoccandolo non gli abbia dato tutta l’esistenza morale e [p. 253 modifica]materiale. Questa disposizione a formare il suo ideale in modo concreto, si chiama forza artistica, e tutti i critici riconoscono che Manzoni attraverso le sue intenzioni è principalmente un artista.

Come ei forma plasticamente i personaggi? Cioè, poiché sente quell’ideale come poeta ed artista, qual’è la sua posizione speciale dirimpetto ad esso, perché un artista è differente da ogni altro?

Quando per la prima volta l’ideale si affaccia in tutta la sua bellezza al poeta, questi è rapito da entusiasmo e suppone che tutti dovessero amarlo del pari. Allora egli lo sentirà come qualche cosa d’illimitato, che non ancora è sceso nella vita. E pigliando il pennello ne uscirà una forma astratta, nuda, magra, priva delle condizioni della vita. Voi vedete che parlo di Alfieri: l’ideale di lui, quando per la prima volta gli si presenta, è la libertà dopo tre secoli di dispotismo, sono le idee che più tardi faranno la Rivoluzione francese. Privo di esperienza, quell’Italia futura trova in lui molto entusiasmo, poca realtà e forma concreta. I suoi personaggi, malvagi e buoni, con che passione parlano tutti! e quelle forme sono scarne, vuote, senza le condizioni che rendono storico un personaggio.

Diamo un altro passo. Quell’ideale è calato nella storia, se n’è fatta l’applicazione, al primo urto con la realtà sorge contro di esso l’ignoranza delle plebi, l’ambizione dei cattivi, l’egoismo delle classi: cade nel fango e nel sangue. Si presenta a un altro poeta, e con qual forma! È il disinganno. Nel primo l’illusione, l’ideale fuori della vita; nel secondo il disinganno: ma questo disinganno è ancora la vita in cui è sceso l’ideale? No. Perché? che cosa è desso? — Io amava quell’ideale, credeva di averlo raggiunto e lo vedo ora profanato; e invece di domandarmi il perché di questo fatto, mi ribello contro la realtà che l’ha contaminato, la impreco, la maledico — ; ecco il disinganno, qual è rappresentato nelle lettere di Jacopo Ortis. L’ideale è illimitata illusione in Alfieri, illimitata disperazione in Foscolo.

Ed ora, qual’è la posizione di Manzoni come artista, dirimpetto al suo mondo ideale? È egli un fanatico, educato in un [p. 254 modifica]convento, che ne esca come un monsignor Dupanloup per maledire alla terra? No, perché egli porta con sé quel profondo sentimento del positivo che gli conosciamo; e capite l’utilità di questo positivo, il quale egli ha esagerato, ma è pure ciò che costituisce la sua fisonomia. Egli perciò comprende che la vita è diversa dall’ideale, e non se ne maraviglia più, non se ne indegna, anzi se qualcuno se ne indegna, egli ne sorride, come se gli dicesse: — Sei ancora fanciullo — . È come un uomo che ha veduto e sa come va il mondo, dirimpetto a un giovane che al primo entrarvi, si sdegna e freme, credente com’è nella virtù, vedendola negata e calpestata: un uomo insomma che si trova nella vita, la capisce e perciò la scusa.

Messo in tale situazione, ed abbozzata la sua concezione, quale sarà la forma che le darà? La sua forma è l’«ironia», forma propria delle creazioni moderne. E che cosa è l’ironia moderna, quella di Goethe, di Leopardi? È la caricatura che fa l’intelligente dirimpetto all’ignorante, l’uomo di esperienza dirimpetto a chi non ne ha punto; che la seconda impressione fa alla prima, l’avvenire al passato, la nuova generazione che si crede più progredita e più dotta, alla vecchia. Avuti questi contrapposti, messa l’intelligenza superiore dirimpetto ai pregiudizii e alle opinioni volgari, il dire: — Ti ho capito — , si traduce in un risolino.

Quale sarà ora il carattere di quell’ideale?

Quando un uomo, dopo aver creato colla sua potenza artistica un mondo, vien poi con quel risolino a dirgli: — Ti comprendo, quel che tu sei lo devi alle condizioni in cui ti ho posto io che ti ho creato — , il carattere di quell’ideale non sarà più l’illusione o il disinganno, ma la «misura». Il che vuol dire che misurato dall’esperienza della vita, l’ideale più puro riceve qualche cosa di terreno, come l’anima che scende dal cielo nel corpo e ne acquista il limite.

Quando uno scrittore considera un mondo come concetto — siccome il concetto non è sottoposto a leggi storiche, e per sua natura è illimitato — corre e corre coll’immaginazione senza curarsi delle limitazioni che dà la storia. Ma quando lo scrittore [p. 255 modifica]lo guarda come oggetto, cioè come mondo già realizzato, esso perde l’illimitato dell’ideale e acquista il limite delle condizioni storiche in cui è. Cosi ’ capite la differenza tra il poeta subbiettivo e l’obbiettivo, per dirla alla tedesca. Il primo vede 11 mondo come concetto della propria mente e giunge a farsene un trastullo, giunge sino all’umorismo. Il secondo lo considera come oggetto, e con rispetto, perché lo vede reale: allora viene la misura, l’ideale è compreso e realizzato. Poiché Manzoni ha un sentimento ironico del suo mondo, e l’attua perché ha la misura dell’ideale, il carattere della forma sarà la rappresentazione obbiettiva, cioè il mondo plastico veduto dal di fuori.

Così diciamo obbiettiva l’esposizione di Omero, perché ci è il mondo greco, fanciullo, tutto al di fuori. Virgilio comincia ad essere poeta subbiettivo, perché accanto al mondo di fuori spunta qualche altro sentimento, clic qua e là, in certe frasi, si rivela. Il più grande poeta obbiettivo dell’Italia è Ludovico Ariosto, il più grande della Germania è Goethe. Le forme di arte più perfette sono le obbiettive; più l’artista rimane nel limite, nelle prime impressioni, e più ci è freschezza.

Ma quella di Manzoni, rappresentazione obbiettiva, è poi quella di Omero e di Ariosto, è puramente l’oggetto, o vi si aggiunge qualche carattere speciale? Sì, Manzoni ha una seconda impressione, è in istato di riflessione; non si contenta di rappresentare i personaggi, li spiega, come fa per esempio di don Abbondio. È critico prima di essere artista, ed è perciò intrinsecamente poeta moderno. La rappresentazione obbiettiva del suo mondo è penetrata dall’intelligenza di esso; c’è una potenza straordinaria di analisi. Egli non prende un carattere che prima non l’abbia veduto come critico sotto tutte le sue facce, e la vivacità della rappresentazione viene dal profondo sguardo di analisi, tradotto plasticamente con gran potenza: analizzando egli crea.

Ricapitolando: Manzoni ha un sentimento ironico del suo mondo, che produce una misura del suo ideale, la quale ha per risultato una rappresentazione analitica e plastica.

        [Nel Pungolo, 3-4 maggio 1872].