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atto terzo 147
la sublime costanza: a lor ti arrendi.

Vieni; acquetati; assistimi; sollievo
dolce e primiero a quest’ultimo passo,
cui mi appresso, tu fammiti qual dei:
ma non mi dar in sí funesto punto
martóro tu, via peggior della morte.
Vieni, o fido, accompagnami.
Coro   Oh, qual possa
ne’ detti suoi! d’Adméto il furor cade,
al dolce incanto dei celesti accenti
della morente donna.
Alces.   Omai non regge
contro agli strali di ragion verace.
Donne, or si torni a lenti passi dove
il mio strato mi aspetta.
Coro   E tu pur vieni,
Adméto, al di lei fianco. Intanto, forse
chi ’l sa, s’ora non vogliono gli Dei
soltanto in voi porre in tal guisa a prova
e il coraggio e l’amore e la pietade?
No, noi del tutto non teniam per anco
morta ogni speme.
Alces.   Adméto, io ben ti leggo
scolpito in volto quel parlar, che il fero
tuo singhiozzar profondo al labro niega.
Ed anch’io, parlo a stento; ma gli estremi
miei sensi, è forza che tu in cor li porti
fino alla tomba impressi. Odili; pregni
di conjugale e di materno amore,
dogliosi fienti, ma vitali a un tempo.
Non che coi detti, col pensier neppure,
non io l’oltraggio a te farò giammai,
di temer che tu porgere di sposo
possa tua destra ad altra donna un giorno.
No, mai, tu Adméto, a questi nostri amati
comuni figli sovrappor potresti