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atto terzo 149
Adméto Io ’l fui; ma nulla omai piú son: la vista

dei giá miei figli emmi dolor: la tua,
piú assai che duol mi desta ira, o Feréo.
Feréo Cosí mi parli? e neppur piú mi appelli
col nome almen di padre?
Alces.   Oimè, quali odo
dalle labbra di Adméto snaturati
detti non suoi!
Adméto   Ben miei, ben giusti or sono
questi accenti, in cui m’è proromper forza.
Or, non sei tu, Feréo, nol sei tu solo,
l’empia cagion d’ogni mio orribil danno?
Tu, mal mio grado, a viva forza, in Delfo
mandavi per l’Oracolo; mentr’io,
presago quasi del funesto dono,
che mi farian gli Dei, vietando andava
che in guisa niuna il lor volere in luce
trar si dovesse. Io, vinto allor dal morbo,
al Destin rassegnatomi, diviso
per lo piú da me stesso, iva a gran passi
senza pure avvedermene alla tomba;
perché ritrarmen tu?...
Feréo   Dunque a delitto
or tu mi ascrivi l’amor mio paterno?
E in ciò ti offesi? Ah, figlio! e il potev’io,
in sul vigor degli anni tuoi vederti
perire, e non tentar io per salvarti
tutti e gli umani ed i celesti mezzi?
Adméto E mi hai tu salvo, col tuo oracol crudo?
Non mi morrò fors’io pur anco? e morte
ben altramente dispietata orrenda
la mia sará. Ma, il dí che pur giungea
la risposta fatal di Delfo, or dimmi,
in qual guisa, perché gli avidi orecchi
della mia Alceste anzi che i tuoi la udiro?
Perché, se pur dovuta ell’era all’Orco