Abissinia/Capitolo II

Capitolo II

../Capitolo I ../Capitolo III IncludiIntestazione 5 novembre 2024 100% Da definire

Capitolo I Capitolo III

[p. 17 modifica]

CAPITOLO II.

Massaua. — In cerca di abitazione. — Conoscenza della famiglia Naretti. — Notizie dell’interno e consigli pel nostro viaggio. — Descrizione di Massaua. — Un sistema di cura. — Un forno assai semplice. — Gite di caccia. — Il pranzo di Natale. — Invasione di locuste.


Massaua si presenta presso a poco come Suakin, piantata sopra un banco di madrepore e tutta circondata dal mare; si protende come lunga lingua ad est, ove sta un forte e la missione cattolica colla propria chiesuola; segue uno spazio deserto in cui è sparsa qualche capanna, poi viene la cittadina di carattere arabo, seguita dal nucleo maggiore di rozze abitazioni di indigeni; la unisce una diga ad altra isola maggiore su cui sta il palazzo del Governo, abbastanza elegante, che subito risalta all’occhio di chi entra in queste acque.

Avvicinati dalla sanità che con tutta formalità ricevette la nostra patente con lunghe molle in ferro e le espose al fumo di abbondanti profumi, in pochi momenti ci fu concessa libertà di pratica. Il signor Habib Sciavi, delegato sanitario e agente postale, adempie al suo ufficio con vera intelligenza e vero scrupolo; venne a bordo; avevo per lui una raccomandazione che subito ci fece diventare buoni amici; mi piace nominarlo, perchè per lui ho molta riconoscenza, e fu per noi una vera risorsa durante il nostro soggiorno in questa città.

Prima nostra cura fu di recarci dal governatore che ci [p. 18 modifica] accolse assai cordialmente; ma ad onta di tutte le nostre buone commendatizie ci disse: telegraferemo a Gordon pacha che siete qui giunti; diremo quanti siete, quante casse e quante armi avete, dove siete diretti, poi dalla risposta decideremo sul da farsi. Non ci restò che far portare a terra tutto il nostro bagaglio e depositarlo nei magazzeni di dogana, poi andarcene in cerca di una casa da affittare, che di alberghi qui non se ne ha idea. Fummo fortunati di trovarne una abbastanza vasta, con un piano superiore e un cortile chiuso; lo stile, arabo; le camere hanno molte aperture, e i vetri sono ignoti; le pareti bianche od almeno lo furono; il soffitto a travicelle, che sono rozzi tronchi non lavorati con sovrappostovi un assito o delle stuoie che portano un grosso strato di terra che forma tetto e serve da terrazza; il pavimento è pure di terra fina e pulverolenta; in complesso presso a poco e forse peggio delle case dei nostri contadini.

Per mobiglia troviamo in una camera un paio di angareb o divani formati da un telaio in legno col sedile di paglia o liste di cuoio intrecciate.

Una delle prime conoscenze fu la famiglia di Giacomo Naretti da Ivrea, che da parecchi anni vive in Abissinia, dove colla sua onestà, col suo grande senno pratico e colla rettitudine e disinteresse nei suoi intendimenti, seppe accaparrarsi la stima e l’affetto del Re che lo tiene come vero amico e pregiato consigliere. Reduce da una gita in Egitto, se ne stava già da parecchi mesi in Massaua aspettando di poter penetrare in Abissinia quando fosse completamente cessato un terribile tifo che decimava la popolazione del Tigré, e sedata una rivoluzione che da tre anni teneva agitata la provincia del Hamasen.

Quantunque si sapesse che il primo andava decrescendo e che per la seconda s’erano intavolate trattative di pace, pure queste notizie non ci giunsero troppo gradite, prevedendo che, per quanto [p. - modifica]MASSAUA [p. 19 modifica] si confidasse che il diavolo potesse essere meno brutto di quello che ce lo dipingevano, bisognava pure rassegnarsi a perdere un tempo che avremmo meglio impiegato nell’avanzare o nello studiare l’interno. Fummo subito consigliati di spedire una lettera al Re Giovanni Kassa per annunciargli il nostro desiderio di recarci a visitarlo, fargli palesi i nostri progetti tutt’affatto commerciali, e domandare la sovrana permissione di entrare nei suoi Stati.

Questa specie di supplica era già stata preparata al Cairo, dietro suggerimento avutone, e scritta su pergamena in caratteri amarici da un sacerdote cofto. Accompagnata da una lettera di raccomandazione di Naretti, fu subito spedita per mezzo di apposito corriere al campo reale.

Fra il 15° e il 16° lat. nord, è situata Massaua, che come dissi, sorge sopra un isolotto di madrepore che si estende per circa 900 metri da est ad ovest e per 250 da sud a nord elevandosi non più di 6 metri sul livello del mare; un canale di circa 600 metri di larghezza la divide da un altro isolotto di maggiori dimensioni detto Tau-el-hud, ed a questo si accede per mezzo di una diga, come pure per mezzo di altra diga, della lunghezza di 1200 metri, si passa poi dal lato di ponente alla terra ferma. Tutto quello che si vede è aridità assoluta, e solo lungo la spiaggia attecchisce qualche arbusto che può vivere sorbendo acqua marina; non è che durante la stagione delle pioggie che la superficie si copre di uno smalto verde, e nel resto dell’anno, se l’occhio vuol riposarsi, non può che volgersi al sud della città dove un isolotto detto Scek-Said da un santone che vi fu sepolto, è tutto coperto da vegetazione. Geograficamente Massaua dovrebbe appartenere all’Abissinia, ma è occupata dagli Egiziani a cui fu ceduta mediante trattati dalla sublime Porta nel 1865.

Per dare un’idea del suo interno e dei suoi abitanti la [p. 20 modifica] percorreremo partendo dall’estrema punta dell’isola a levante, dove si innalza un piccolo forte con caserma, da un lato, e la Missione cattolica tenuta da sacerdoti francesi, dall’altro: si attraversa in seguito uno spazio occupato da grandi cisterne scavate, dove si raccoglie l’acqua delle piogge, e da qualche tomba di mussulmani: a sinistra lasciamo qualche meschino gruppo di capanne per vedere sulla destra alcune abitazioni in pietra di carattere arabo, una moschea, l’ufficio di sanità e di posta, il palazzo del governatore, una catapecchia che fu demolita durante il nostro soggiorno e forse or si starà ricostruendo, i magazzini di dogana, un gran palazzone appartenente ad un ricco commerciante arabo: tutto questo forma la fronte che guarda l’ancoraggio dei bastimenti: all’interno qualche altra casa in pietra e moltissime capanne. Partendo dalla spianata che è il pubblico sbarco innanzi la dogana, dove abbiamo ammirato qualche filuka, barca originale del paese, che colla lunga vela tagliata ad ala d’uccello ritorna dalle quotidiane escursioni alle isole vicine, qualche vispo moretto che con piroghe scavate in un sol tronco guadagna di che vivere trasportando le mercanzie da terra a bordo, o qualche pescatore che seduto su due semplici tronchi uniti a zattera, colle gambe pendenti nell’acqua, getta e ritira continuamente l’amo cui spessissimo è appigliato qualche pesce, e dopo aver passati in rivista centinaia di sacchi di stuoia pieni di grano e di caffè, pelli essicate, otri colme di burro liquido, casse imballate in Europa, denti di elefante involti in cuoio, grossi corni di bue pieni di zibetto, mercanzie tutte che mosse dalla forza di robusti biscerini aspettano di pagare il loro scotto per entrare od uscire dal paese, sortiamo da questa specie di recinto, e salutati da una sentinella che guarda un portone, passiamo al primo bazar o via fiancheggiata da casine ad un sol piano, coperta da logore stuoie che dovrebbero riparare dal sole. Qui esercitano il commercio di tessuti e filati importati dal[p. 21 modifica] l’Europa, i baniani, tipi indiani che in tutto il Mar Rosso hanno quasi il privilegio di questo genere di commercio. Sono generalmente grassi, giallognoli, l’occhio tagliato alla chinese, portano per tutto abito un drappo bianco girato alle spalle o alla cintura, attorno la quale spesso tengono pure un bellissimo monile in argento; le unghie e i denti hanno coloriti in rosso, la testa originalmente rasa lasciando solo sparsa qualche ciocca di capelli, grossi bottoni d’oro od argento con pietre preziose infissi nelle orecchie e molto profumo sparso sulla pelle. Sono tipi effeminati, poco simpatici: vivono senza mai toccar carni temendo trovare nell’animale immolato l’anima di qualche congiunto od amico, e morti si fanno bruciare e sepellire con tutte le loro gioie, che sono la maggiore loro ambizione: sono del resto abitanti tranquillissimi che godono fama di onesti non solo, ma di commercianti discreti.

Parallelo a questo abbiamo il bazar proprio del paese, ancora più originale. È qui dove si incontrano i mille tipi diversi: l’arabo che ti fa i sandali, il piccolo negoziante che ti vende grano, riso, datteri attorno ai quali svolazzano nubi di mosche, l’altro che t’offre su un gran bacile qualcosa che somiglia a caramelle, la donna che vende latte acido, burro, pallottole di tamarindi. Un odore nauseante ci annuncia che siamo vicini al friggitore che prepara continuamente frittelle e pesci e tien pronta una gran pignatta piena di riso cotto. E mentre passiamo questa rivista, un ragazzetto verrà ad offrirci un mazzolino di insalata raccolta nella mattina, od una ragazzina dai modi semplici ma garbati, avvolta solo in un lurido cencio, ma ornata di braccialetti alle mani e ai piedi, di grossi anelli d’argento alle dita e alle orecchie, di qualche collana di conterie o di conterie intrecciate ai capelli, e col naso forato da uno stecchetto, insisterà perchè da lei comperiamo qualche limone, cercando collo sguardo penetrante di farci capire che non è solo quello che [p. 22 modifica] intende offrirci. Avanziamo di pochi passi, ed avremo il macellajo, che non ha bottega, ma ammazza in pubblico il suo bue, leva la pelle che distesa al suolo diventa tavola, e su questa, colle mani, le braccia, e quella poca camicia tutte rosse di sangue, divide in pezzi la sua vittima a seconda delle richieste, misurandone le parti su una bilancia delle più primitive, che fra l’altre cose i pesi son pietre: rimpetto abbiamo un arabo che vende focacce, e a pochi passi una di quelle botteghe come alle volte si vedono alle nostre fiere, che non hanno nulla di intatto, tutto vi è scompagnato e rotto; non vi si vede oggetto che sembri possa servire, ma pure trovano i loro amatori. Qui vedete qualche panierino colla sostanza che serve a tingere in rosso le unghie, o la galena per tingere l’occhio, qualche droga, poi un’infinità di cianciafruscole cui non si sa adattare nè un uso nè un nome. Siamo sbalorditi da tutta questa novità e dal baccano che rammenta certe viuzze di Napoli; ci ritiriamo per evitare un somaro carico di pelli piene d’acqua e ci sentiamo nella schiena qualcosa di tenero, è un otre colmo di burro fuso portato da una vecchierella, accompagnata da qualche ragazzetto in costume prettamente adamitico, che ci rivolge lo sguardo intelligente che dinota timore o sorpresa: vorremmo accarezzarlo se fosse un po’ meno sucido, non possiamo però trattenerci dal mettergli nelle manine qualche piastra.

Usciti da questi bazar ci troviamo in una piazza dove è il caffè, logora tettoia di paglia sotto la quale si radunano le poche persone trattabili che qui abitano, e vi passano delle ore intiere sorbendo caffè alla turca è fumando sigarette o narghillè: da qui proseguendo, abbiamo qualche abitazione ancora in pietra ove stanno alcuni greci che nelle loro botteghe tengono di tutto, dalle sardine alle scarpe; il vice-consolato di Francia che occupa una delle più belle case, e una massa di capanne rettangolari ove abitano gli indigeni sempre poveri, ed una massa di [p. - modifica]Una via a Massaua [p. 23 modifica] donne abissinesi che superbe della loro bellezza vengono qui a sciuparla facendone vilissimo mercato.

Abbiamo così attraversata l’isola nella sua lunghezza; proseguiamo sulla diga, e appena messo piede in Tau-el-hud vedremo la palazzina del governatore generale, l’ufficio telegrafico, una moschea, il pozzo dove giunge l’acqua portatavi con canali dalla montagna, e attorno al quale formicolano centinaia di ragazzi e ragazze che empiono le loro otri o le loro pelli, se le caricano sulla testa, sul dorso o sui somarelli, e per pochi quattrini le trasportano in città: qualche baraccone in cui dormono i soldati, un forte degno dei suoi difensori, poi l’altra diga che ci porta a terra ferma nella direzione di Omcullo, dove passeremo facendo qualche altra escursione.

A questa originalità dell’ambiente aggiungiamo la novità in tutto, persino nell’atmosfera, la varietà dei tipi, il carattere simpatico di questa gente primitiva, e respiriamo i profumi delicati che spesso escono dai negozii, in cui i proprietarii accovacciati a contare i chicchi del rosario aspettando gli avventori, cercano adescarli facendo evaporare del muschio o bruciando dell’incenso sulla soglia della loro porta.

AI tramonto tutto muore, che gran parte della popolazione si reca ad un villaggio circa un’ora dalla città per passarvi la notte che si pretende meno calda, ed allora nei bazar sono disposte sentinelle ad ogni trenta o quaranta passi perchè possano farsi la guardia fra loro; che se qualche volta vi fu rubato, lo fu con tutta sicurezza, perchè il ladro non temeva chi doveva scoprirlo. Questi soldati che montano la guardia hanno veramente l’aspetto di pezzenti, e se ne stanno in fazione fumando tranquillamente, portando seco un vaso d’acqua per bere, e alle volte persino un angareb per sdraiarvisi comodamente o farvi sedere chi vuole alleviare le noie della solitudine. La sola cosa che hanno di pulito è il fucile che tengono però sempre avvolto in cenci dove lo impugnano per non arrugginirlo. [p. 24 modifica]

Massaua è l’antica Sebastrium-os, e fu molto fiorente, concorrendovi i prodotti dell’India e dell’Etiopia che qui si riunivano per scambiarsi, e per riprendere poi vie diverse.

Ora non conta più di 6000 abitanti, e vi si fa poco commercio, chè l’Etiopia è ben lungi dall’essere quella d’una volta; d’altra parte il Governo egiziano cerca con ogni modo di impedire lo sviluppo dell’interno, essendo geloso e nemico dell’Abissinia. Si importa qualche poco di tessuti, filati, commestibili, e si esportano pelli, cera, avorio, zibetto, poco grano, burro, madreperla, gomma, caffè, prodotti tutti che provengono con carovane dall’altipiano etiopico, e bene spesso molto dall’interno.

Il commercio di esportazione deve subire un notevole aumento in questo porto, ora che re Giovanni, per obbligare i commercianti a percorrere maggior cammino nei suoi territorii, e nella speranza forse che Massaua per conquista o per cessione diventi parte del suo Stato, ha proibito alle carovane che partono dal Goggiam e dal Gondar di prendere la via del Galabat e Suakim, molto più conveniente, perchè piana e battuta da camelli, di gran lunga preferibili ai muli.

Fra i mille gridi che continuamente facevano vibrare l’atmosfera, uno fortissimo e continuato, misto di voci e suoni, ci deliziò tutta una giornata, gran parte della notte e riprese con maggiore intensità il giorno appresso: ce ne facemmo guida, ma ci fu impedito entrare nel tugurio da dove usciva; ma mentre ce ne stavamo ritornando soffocando il nostro sentimento di curiosità, per mezzo di un nostro servo abissinese potremmo esservi ammessi. Entrammo in una capanna costrutta con una intelaiatura di pali ricoperti da sdruscite stuoie; le pareti verticali, il tetto curvo: in un angolo due angareb con sedutevi otto donne nere, giovani avvolte in una specie di manto di tela bianca con braccialetti in argento e conterie, collane, anelli al naso, [p. 25 modifica] agli orecchi e alle dita, tali da coprirle quasi fino all’unghia tinta in rosso. Accovacciata per terra stava una povera giovane malata, pure avvolta in panni bianchi, col volto mesto e sofferente: ai suoi lati due giovani battevano su rozzi tamburi mentre tutte le donne sedute cantavano a squarciagola una cantilena cadenzata, interrotta di quando in quando da un acutissimo trillo, e il pubblico composto d’una ventina d’altre persone accompagnava con un regolare batter di mani: di tempo in tempo si versavano olii profumati sul fronte della paziente o su un braciere che le stava dinanzi e con una tela si faceva baldacchino perchè i fumi profumati che ne esalavano non si perdessero nell’ambiente, ma si conservassero ad involgere l’ammalata: la semi-oscurità dava maggior carattere a questa scena originale e selvaggia, che si faceva per spaventare e cacciare il diavolo della malattia che aveva invaso quella povera disgraziata, che non so come resistesse a tanto fracasso infernale. Ci dissero poi che se l’ammalata si illude di star meglio, tutto d’un tratto s’alza e principia a ballare freneticamente: si corre allora in cerca di un montone e si festeggia la guarigione con un festino generale. Il segreto, invero, di questi miracoli sta in ciò che anche quelle donne sono capricciose come le nostre signore, e la malattia è spesso un desiderio non soddisfatto dal consorte, e lo star meglio comincia quando l’amore della pace in famiglia fa che questi porta o manda la promessa di soddisfare i capricci della moglie.

Mariam, la ragazzina del guardiano della nostra casa è occupata tutta la giornata a far farina triturando grani di dura fra due pietre: ne forma poi una pasta che cuoce in un forno alquanto originale. Un otre rotto al fondo è sepolto col labbro a fil di terra: a poca distanza un foro praticato obliquamente nel suolo comunica col basso del vaso, formando così una gran pipa, che dà luogo alla corrente d’aria necessaria a ravvivare il fuoco [p. 26 modifica] acceso nell’otre: quando questo è così riscaldato se ne levano le brage e Mariam appiccica alle pareti le manate di pasta che possono quasi dirsi focacce: turato il foro nel suolo e applicato il coperchio all’otre e ben chiuso all’ingiro con pezzole bagnate, non riapre che quando la pratica le insegna che deve esser cotto questo pane che, con qualche cipolla od un po’ di pesce, molto abbondante qui, forma il nutrimento di tutta la famiglia.

Siamo nella stagione invernale; e ad onta di questo la temperatura varia fra 28° e 30°: è questo forse il punto più caldo nel Mar Rosso che passa per essere una delle località più infuocate nel mondo: sono qualcosa di terribile le descrizioni che ci fanno dei mesi in cui non si può aver respiro nè giorno nè notte, sempre oppressi da un’afa soffocante e accesa.

Gordon pacha ha telegrafato gentilmente che si lasci passare tutto il nostro bagaglio, per cui lo trasportammo a palazzo e le nostre camere hanno assunto un aspetto ancora più originale: casse e cassette in ogni angolo, fucili e armi d’ogni genere appesi alle pareti, corde tese con abiti e biancherie, in mancanza di armadii, angareb, brande e amache che funzionano da letto, casse disposte a tavolo od a sedile, un vero disordine pittoresco. Fra noi, chi scrive, chi legge, chi prepara armi e munizioni per una prossima caccia, chi fa un po’ da servo alla propria roba, chi, e forse il più benemerito fra tutti, lavora a preparare il pranzo: compagni non ne mancano, che è un continuo andirivieni di gente che col solo movente della curiosità vengono a trovarci colla scusa di offrirci qualcosa od offrire loro stessi in qualità di servi per accompagnarci nel nostro viaggio: tutti dovrebbero essere pieni di meriti e conoscere appuntino tutta quanta l’Africa: abbiamo poi coinquilini dei piccioni coi loro nidi, nidi in fango di grosse vespe, pipistrelli, lucertole, topi, e degli altri è forse meglio tacere... [p. 27 modifica]

Una delle mancanze che più si facevano sentire era quella di una tavola, per cui avendone vedute due in una piazza andammo in cerca del rispettivo proprietario per noleggiarle, ma per buona fortuna fummo avvertiti ancora in tempo che erano di uso pubblico, cioè si trasportavano a domicilio quando ne era il caso, per stendervi e lavarvi i morti: tanta è l’abbondanza di mobiglia in queste case.

Le giornate erano abbastanza monotone per cui combinai con Ferrari una gita di caccia all’estremità sud della baia: noleggiata, una filuka (barca del paese), vi portiamo le nostre provviste di acqua dolce, pane, burro, sale, pepe, confidando molto pel resto nei nostri fucili, e spiegata la vela volgiamo la prua a mezzogiorno: cosa sia la nostra imbarcazione di disordine e di costruzione, non si può farsene un’idea nemmeno prendendo a tipo le peggiori barche dei nostri pescatori. Abbiamo un reis o capo arabo che con tutta maestria ci guida nella giusta rotta serpeggiando fra cento secche, e quattro ragazzotti che hanno tutta l’aria d’essere scolpiti in un bel pezzo di ebano. Oltrepassando l’isolotto di Scek-Said la nostra ciurma intuona una preghiera, specie di rosario di cui il reis dà l’intonazione, a suffragio dei morti che vi stanno sepolti e ad invocazione di felice viaggio: il vento rinforza, la barca piega su un lato, qualche ondata ci innaffia, il mio buon Ferrari guardando terra pretende sarebbe meglio percorrere a piedi la costa, ma felicemente in un paio d’ore siamo a buon porto, e quando credevamo di essere in pochi minuti a terra, vediamo tutto d’un tratto calar la vela e ci troviamo arenati: la marea è bassa e il fondo ancora più basso, quindi è forza ultimare il nostro tragitto alquanto umoristicamente trasportati per qualche centinajo di metri sulle spalle dei nostri marinari, trascinando i piedi penzoloni nell’acqua.

Avevamo allo sfondo un’alta montagna, quella che ci fu [p. 28 modifica] guida nella traversata, avanti a questa una catena di colline che venivano man mano abbassandosi fino a dileguarsi in un piano inclinato che si protende al mare: qui dovevamo fare le nostre prove di caccia, e nel breve tempo che ancora restava al tramonto riportammo qualche lepre che ci fornì un eccellente pranzo: le molli arene ci offrirono un soffice giaciglio per la notte. Il giorno dopo eravamo alzati ben prima del sole e percorremmo tutto il piano e le prime alture: il suolo è tutta arena, sparso di detriti di quarzo e di tufi: poca erba vi alligna, molti cactus, acacie a foglia verde o grigiastra, qualche cuforbia, parecchi cespugli tutti spinosi: in complesso la vegetazione è piuttosto meschina per la grande siccità che vi dura parecchi mesi dell’anno, e solo in qualche punto basso si scorgono folte macchie verdi circondate da sterili praterie in cui trovano appena di che vivere poche capre o camelli. Otteniamo dai pastori del latte, che ci viene presentato entro vasi fatti con scorze di alberi intrecciate, quindi internamente intonacati con sterco vaccino, certo non a perfezionamento del gusto del contenuto, nè a gran soddisfazione di chi lo beve. La caccia vi è per altro piuttosto abbondante ed oltre moltissime lepri, pernici, faraone, trovi gazzelle, antilopi, cignali, jene e l’inseparabile sciacallo.

Il giorno di Natale si avvicinava e ne prendemmo occasione per mostrare la nostra riconoscenza ai Naretti e ad altri che ci andavano usando delle continue gentilezze, invitandoli a passare con noi quelle ore che s’usa in questo giorno riunirsi in famiglia attorno ad una tavola. L’invito è accettato; a noi dunque a disimpegnarci; chè per pranzare, sia bene sia male, ci vogliono fatti e non parole. Ci demmo dunque a girare dalle conoscenze mettendole a contributo per avere piatti, posate, bicchieri, casseruole, tavoli, sedie e tutto quanto l’occorrente. Si decorò una delle nostre camere dipingendone le pareti, a carbone e mattone pesto, cogli stemmi delle nostre principali [p. 29 modifica] città e decorandole con trofei delle nostre armi e componendo di facciata all’entrata un artistico gruppo di due ritratti del nostro Re e della nostra Regina circondati da una bandiera tricolore. Alle finestre si appesero dei lampioncini e al centro un lampadario che la nostra immaginazione ci ajutò a comporre con traverse di legno che sostenevano delle bottiglie vuote destinate a portare le candele. Unimmo tre tavole che resero presso a poco di eguale grandezza alcuni pezzi di nostre casse aggiuntivi; coprimmo il tutto con due lenzuola di bucato, preparammo i coperti con posate che la ruggine faceva parere passabilmente uguali: nel centro una piramide di amaretti di Saronno, ai lati due ceste di banane giunte la mattina da Hodeida; sui davanzali delle finestre dei gruppi di eleganti bottiglie di liquori che qualche amico di buon cuore o qualche fabbricante illuso ci avevano date a compagne: sulla scala qualche altro lampioncino: nell’insieme un apparato fantastico e sfarzoso pel paese in cui siamo.

Due o tre giorni lavorarono fantasia e braccia per comporre il menu e prepararlo coi pochi mezzi che si avevano, dove non si può trovare che pura carne e qualche pesce; ma l’abilità del capo-cuoco, il Filippini, seppe disimpegnarsi discretamente.

All’imbrunire del giorno fissato arriva la processione degli invitati che si ricevono in corte, mentre si corre a dar fuoco alle candele, poi si dà il segnale perchè la comitiva salga. Nella prima camera il Tagliabue aveva disegnato a carbone un medaglione con un immaginario re Giovanni, riconoscibile dall’iscrizione, che diede origine ai primi atti di stupore, che furono poi innumerevoli, quando sollevate le cortine si presentò la gran scena della sala del banchetto. L’arte culinaria del nostro compagno fu molto lodata, e i fatti constatarono che lo fu sinceramente e non per puro complimento: i vini d’Italia trovati [p. 30 modifica] squisiti, talchè il pranzo fu molto allegro e i brindisi assai numerosi.

Era certo la prima volta che in Massaua si trovavano tanti Italiani riuniti, e la festa era tale che fece a parecchi dimenticare i bicchieri già vuotati, cui aggiunta la proprietà del Sassella e dell’Inferno di scaldare le orecchie e paralizzare le gambe, si ebbe una chiusura molto chiassosa e non scevra di incidenti abbastanza comici. Il servizio fu fatto piuttosto regolarmente alternando noi con un po’ di disinvoltura la parte dell’anfitrione con quella del cameriere, non senza ritirare qualche volta un piatto sporco da destra per rimetterlo a sinistra, se non ve ne erano pronti di ricambio. In complesso gli invitati furono contenti e noi nella nostra modestia abbastanza soddisfatti, tanto più che, la mattina dopo, parecchi avevano le idee piuttosto confuse e una ricordanza un po’ svanita di quanto avvenne da metà pranzo in avanti.

Dopo qualche ora di sonno, con Ferrari partimmo in filuka per portarci ad una partita di caccia ad Arkiko, grosso villaggio lungo la spiaggia a mezzogiorno di Massaua. Vi trovammo il mudir (capo) cordialissimo, giovane dall’aspetto aperto, sorridente, simpatico, che ci destinò un’ampia capanna circondata da un cortile limitato da pali e stuoie: ci fece subito portare due argareb, del caffè, e chiamò una schiava perchè sbarazzasse quanto ingombrava. Un breve giro nei dintorni ci fornì il pranzo che noi stessi cucinammo, pensando, ma senza invidia, ai nostri amicî d’Italia che alla stessa ora stavano mettendo il frak per l’apertura del teatro. Anche noi avemmo però il nostro spettacolo di canto, chè poco dopo si sentirono le grida dello sciacallo e della jena che ululavano appena fuori dalla capanna, agognando alle interiora del nostro lepre. La mattina, quando partimmo, queste erano infatti scomparse. Seguiti a distanza da un somarello che ci portava l’acqua dolce, girammo tutto il giorno in terreni sabbiosi, dove trovammo cignali, gazzelle, lepri, faraone, ma [p. 31 modifica] dobbiamo accusare circostanze eccezionali, per salvare la nostra fama di cacciatori, se il risultato non fu troppo soddisfacente.

Verso le tre si addensarono neri nuvoloni nelle vallate circostanti e in pochi minuti fummo raggiunti da una pioggia torrenziale: non una capanna, non un albero, non una roccia che ne potesse riparare: fu forza prendercela con disinvoltura e lasciarla penetrare fin nel midollo delle ossa, mentre ce ne tornavamo al villaggio, dove collo scolo delle vicine alture si forma presso la capanna un torrente che minaccia di portarla al mare, e quindi noi con essa: anche questa poco a poco si allaga: dal tetto cominciano a filtrare alcune goccie che diventano poi altrettanti rigagnoli: sull’angareb è una vera cascata continua e non si può scendere per smuoverlo, chè al suolo c’è acqua da andarvi în barca, per cui si passa la notte in un vero bagno, ridendo dell’avventura e confidando nel sole dell’indomani, che infatti non mancò.

Tornati a Massaua trovammo che anche nel nostro palazzo l’acqua s’era fatta strada attraverso al tetto per entrare nelle camere, non nelle proporzioni però con cui aveva invasa la capanna.

Il giorno 6 gennaio correva la festa del Natale pei Greci e per gli Abissinesi, per cui fin dal mattino l’aria echeggiava di canti, suoni di tamburo e grida selvagge: entrammo in qualche tugurio per vedere il ballo delle donne abissinesi: alcune battono colle mani su un rozzo tamburo, ed altre disposte a circolo accompagnano con una cantilena cadenzata interrotta dal solito trillo acuto, ballando, saltellando, accovacciandosi, poi rimettendosi ritte, girando alternatamente da destra a sinistra o viceversa: le più distinte di quando in quando passano al centro per fare apprezzare le loro movenze lascive accompagnate da sussulti dei muscoli. Spettacolo in cui, per vero dire, la troppa trivialità è alquanto corretta dall’eleganza delle forme di [p. 32 modifica]queste brave ragazze, e da una certa grazia che è in loro naturale.

Vedemmo una mattina il cielo sparso di macchie nerastre che poco a poco si andarono avvicinando prendendo quasi forma di nubi: erano miriadi di grosse locuste divise in diversi gruppi. Alcune stettero qualche tempo sopra Massaua, poi se ne andarono verso l’interno in cerca di terreni meglio adatti al loro istinto divoratore.