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Capitolo secondo. 27


Una delle mancanze che più si facevano sentire era quella di una tavola, per cui avendone vedute due in una piazza andammo in cerca del rispettivo proprietario per noleggiarle, ma per buona fortuna fummo avvertiti ancora in tempo che erano di uso pubblico, cioè si trasportavano a domicilio quando ne era il caso, per stendervi e lavarvi i morti: tanta è l’abbondanza di mobiglia in queste case.

Le giornate erano abbastanza monotone per cui combinai con Ferrari una gita di caccia all’estremità sud della baia: noleggiata, una filuka (barca del paese), vi portiamo le nostre provviste di acqua dolce, pane, burro, sale, pepe, confidando molto pel resto nei nostri fucili, e spiegata la vela volgiamo la prua a mezzogiorno: cosa sia la nostra imbarcazione di disordine e di costruzione, non si può farsene un’idea nemmeno prendendo a tipo le peggiori barche dei nostri pescatori. Abbiamo un reis o capo arabo che con tutta maestria ci guida nella giusta rotta serpeggiando fra cento secche, e quattro ragazzotti che hanno tutta l’aria d’essere scolpiti in un bel pezzo di ebano. Oltrepassando l’isolotto di Scek-Said la nostra ciurma intuona una preghiera, specie di rosario di cui il reis dà l’intonazione, a suffragio dei morti che vi stanno sepolti e ad invocazione di felice viaggio: il vento rinforza, la barca piega su un lato, qualche ondata ci innaffia, il mio buon Ferrari guardando terra pretende sarebbe meglio percorrere a piedi la costa, ma felicemente in un paio d’ore siamo a buon porto, e quando credevamo di essere in pochi minuti a terra, vediamo tutto d’un tratto calar la vela e ci troviamo arenati: la marea è bassa e il fondo ancora più basso, quindi è forza ultimare il nostro tragitto alquanto umoristicamente trasportati per qualche centinajo di metri sulle spalle dei nostri marinari, trascinando i piedi penzoloni nell’acqua.

Avevamo allo sfondo un’alta montagna, quella che ci fu