Voci della notte/Zia Severina
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Zia Severina
La zia Severina entrò nella sua camera, spingendo l’uscio col piede perchè tutte e due le mani erano occupate a reggere il candeliere e i doni avuti. Il fratello le aveva regalato un abito di lana color caffè e latte, facendolo seguire dal commento «tinta solida e seria, adattata alla tua età». La cognata un lumino da notte, e le bimbe, a scuola, le avevano lavorato un copripiedi. Tutto in occasione del suo compleanno.
Ma posando gli oggetti sul tavolino della sua camera, il volto della zia Severina non sembrava atteggiato a letizia, al contrario vi stava sopra un velo così denso di impenetrabilità, che giustificava in parte le parole pronunziate aspramente dalla cognata, quando ella era uscita dal salottino: «Per quanto si faccia, quella Severina non è mai contenta!».
Un biglietto le era scivolato dalle mani, ricevuto anche quello in occasione del suo compleanno. Veniva da un’amica d’infanzia, carissima, e recava su fondo di carta verdina una farfalla che volava in alto, col motto: Adhuc spero. A tergo, mille auguri di felicità.
Severina raccolse il biglietto e lo stette a guardare pensosa, al lume della candela. Quante cose le passarono per la mente! Venticinque anni prima, nella stessa circostanza, la stessa amica le aveva appuntato fra i capelli un mazzo di garofani rossi.... oh! non era adesso che le avrebbero messo dei fiori nei capelli; gli abiti caffè e latte erano buoni adesso e i lumini da notte; e poi anche i copripiedi, poichè soffriva di reumi nelle gambe; infine degli auguri — questi vanno sempre.
Severina non era affatto ingrata. Riconosceva i benefizi del fratello, amava la cognata e i nipotini; era affettuosa, era dolce più che poteva, non come voleva, perchè sentiva dentro di sè un torrente di tenerezza che non sarebbe uscito mai. Questo era appunto il suo male, il nemico chiuso in casa, il tarlo che le rodeva le ossa, il vulcano compresso che le mandava sul volto vampate terree e dense. Le sembrava qualche volta di essere idropica, di trascinare un peso nelle vene, come se ci avesse dell’acqua o del piombo, una cosa morta insomma.
Da bambina era stata molto vivace, da fanciulla molto fantastica; bella mai, nè corteggiata, ma quasi felice in un certo suo mondo ideale popolato di sogni. Figlia di un pittore, aveva conosciuto per tempo le seduzioni del colore e della linea. Pagana per istinto, si sentiva trascinata verso la bellezza, mentre i pensieri mistici e la poesia nebulosa la lasciavano fredda.
Amava drappeggiarsi nei pepli e nei veli che le modelle dimenticavano nello studio di suo padre. Scarmigliava i capelli, si metteva in testa una ghirlanda di foglie e faceva la baccante. Sdraiata sopra un mucchio di cuscini, con uno scialle attraverso i fianchi, le braccia nude, una collana di vetro al collo, un gran ventaglio in mano, imitava le odalische. In camicia, ventre a terra, con un grosso librone sotto i gomiti voleva riprodurre la Maddalena pentita del Correggio ma proprio allora si accorgeva che le mancavano i principali attributi del personaggio. Da quel punto un cruccio sottile come una lima sorda, incominciò a farle guerra.
Confrontandosi colle figure che i maggiori pittori avevano ideate e che i minori si ingegnavano di copiare, venne a conoscere perfettamente la imperfezione delle sue forme e per lei che sentiva così ardente desiderio del bello, il disinganno fu crudele.
Per vedere di combinar meglio la propria magrezza con un tipo artistico, rinunciò alle larghe creazioni Tizianesche e si pose a vagheggiare le donne esili di Canova, le Grazie, la Psiche. Quest’ultima la rapiva in una intima voluttà. Il sentimento dell’arte e quello dell’amore, la purezza virginale e l’ardore dei sensi, l’armonica, divina fusione di tutto ciò nel gruppo immortale, la trascinava irresistibilmente. Era così semplice la posa di Psiche, erano così parche le forme! Nella sua cameretta, non vista da alcuno, assente Amore ella volle tentare anche questa prova. Non era poi orribile, era giovane, capiva la grazia, intuiva la passione, adorava l’arte, perchè non riusciva? Perchè Severina, viva, davanti allo specchio, pareva un aborto in confronto alla marmorea dea?
Se solamente potessi ingrassare! — pensava Severina. Non è forse quistione che di qualche linea. Uno che avesse urtato nel braccio a Canova mentre scolpiva il busto di Psiche, non avrebbe fatto altro che spostare la linea, e non sarebbe stata più Psiche.
Quanto al volto, due occhi, un naso, una bocca, i denti li aveva, i capelli pure e un’anima sensibilissima vibrava in lei.
Forse — tornava a pensare — ci vuole del tempo. Non tutte le donne sono belle, come Psiche, a quindici anni. Psiche è la giovinezza verde, il bocciolo, la promessa; un frutto acerbo, dopotutto.
La guantaia, quella donna pericolosa che turbava la quiete in tutte le famiglie del quartiere, non aveva avuto un figliolo a quindici anni? E non confessava ella stessa che, a quell’età, non era stata che una bighellona allampanata? Chi sa se madama di Maintenon, sposando Scarron a vent’anni era bella come quando, a quaranta suonati, tirò nella rete la maestà del re di Francia?
Sentì dire anche, e lesse sui libri, che la bellezza alla donna viene dall’amore; ma siccome sentì dire e lesse parimente che la donna trova amore in virtù della propria bellezza, le due cose principiarono a confondersi nella sua mente. Certo ella non era di quelle femminuccie che coltivano l’avvenenza a scopo di vanità e di civetteria; non somigliava per nulla alle sue compagne; passava tra loro colla fama di un’originale.
Sempre invasa dagli ideali artistici, vestiva in modo bizzarro con strisce in testa, alla greca; con scialli rossi drappeggiati secondo le norme statuarie; e la sua bruttezza in questa cornice bizzarra, appariva doppia. Era poi curioso a vedere come, trasportata dalla fantasia dietro una immagine di bellezza sovrumana, trascurasse i minuti particolari, le cure della persona; dimenticava di tagliarsi le unghie, portava scarpe scalcagnate, guanti senza bottoni, nastri gualciti, calze rinfrinzellate. Non tutti i giorni si lavava la faccia.
Così, aspettando la bellezza e l’amore, era passata accanto alle realtà della vita senza avvertirle, sognando sempre. Sognava quando, al mattino, gettando indietro la coperta di filugello e balzando leggera sopra un rettangolino formato con pezzetti di panno cuciti insieme, ella pensava all’Aurora di Guido Reni, volante sopra le nubi nell’irradiamento del sol nascente; e cingeva sui magri fianchi la gonnella, con una visione di ninfe discinte davanti agli occhi.
In chiesa, perduta nella contemplazione di un bel torso di fanciulla ebrea, Ruth o Noemi, non si accorgeva di restare appesa colle scapole sulla spalliera della sedia, finchè un burlone gliele urtava, facendo lo gnorri, col pomo della mazza; ed ella allora arrossiva tutta per la vergogna e il dispetto.
Gli anni intanto passavano, la bellezza non veniva e l’amore nemmeno — quell’amore che aveva creato tanti capolavori; le madonne di Raffaello, alcuni ritratti di Van Dyck, il Bacio di Hayez — bellezza e amore, i sommi dei dell’Olimpo pagano, del suo proprio Olimpo.
In casa del fratello, che faceva l’agrimensore ed aveva venduto tutti gli attrezzi artistici del babbo, Severina non trovava più i pepli, nè si arrischiava colla cognata in casacca di flanella e grembiule impermeabile, a intrecciare ne’ suoi capelli le corone delle baccanti.
Presto poi i bimbi, attaccandosi alle sottane di zia Severina, si fecero imboccare la pappa, ritagliare gli omini di carta, pulire il naso, e in mezzo a queste faccenduole, domestiche sì, ma punto artistiche, la zitellona si inacerbiva, perdendo di vista i suoi ideali e inalberando quella faccia lunga, terrea, impenetrabile che provocava l’irosa esclamazione della cognata: Per quanto si faccia, Severina non è mai contenta!
Eppure fino a quel giorno Severina sperava ancora; finchè mancavano dodici ore, sei ore, un’ora, poteva succedere una rivoluzione, un cataclisma, un miracolo, chi lo sa cosa poteva succedere! Levandosi dal letto, alla mattina, aveva detto: «Quando tornerò a coricarmi avrò quarant’anni» — ma un folle barlume, una lusinga non ragionata, la tenevano sospesa come alla vigilia di misteriosi eventi.
Aveva anche pensato: «Queste ultime ore di giovinezza le voglio godere». Ma come! Che fare? Il sangue le ribolliva, il cervello fantasticava, una smania atroce di trattenere il tempo la rendeva quasi febbricitante. Le ore passavano ed ella le contava scorata. Non succedeva nulla.
La posta le recò due o tre lettere ch’ella aperse con mano tremante: Complimenti, voti, luoghi comuni. Finalmente le avevano regalato l’abito caffè e latte, il lumino, il copripiedi...
A mano a mano che il giorno finiva la faccia di zia Severina diventava sempre più impenetrabile. A tavola, dove c’erano stati i brindisi e una poesiuccia recitata dalle nipotine con tanti auguri di lunga vita, la zia era ammutolita affatto; due dita di marsala la resero funebre addirittura.
Finalmente potè ritirarsi nella sua camera, deporre i doni sul tavolino e sè stessa sulla sponda del lettuccio.
La fiamma oscillante della candela le danzava davanti agli occhi, dando noia ad una congiuntivite incipiente; alzò la mano, e così riparata si pose a riflettere, ma non erano, a rigor di termine, riflessioni le sue. Erano visioni, erano quei fuochi fatui della fantasia che si sprigionano dai corpi intorbiditi, guizzi fuggevoli, lampi del pensiero che si ostina a vivere e che scuote i nervi loro malgrado, come veltro sguinzagliato. Era una grande e profonda mestizia, lo sconforto di tutte le cose, che la pigliava sempre in quell’ora ultima della sera, terminando una giornata vuota, mettendo la parola fine sotto una pagina bianca.
E quella sera non trattavasi più di un giorno nè di una pagina; era tutta la sua giovinezza che finiva, che moriva, che bisognava sottoscrivere; cambiale rappresentante un valore ch’ella non aveva posseduto.
Proprio lì, nella solitudine dell’alcova, dove i felici contano le loro gioie e gli amanti le loro ebbrezze, quando nella sicurezza pudica della notte cadono tutti i veli e le maschere si strappano e i cuori posti a nudo non temono più l’oltraggio dell’ironia, zia Severina contava anch’essa le sue magre illusioni; ogni sera le aveva viste assottigliarsi, perdere forma e colore, vanire nel buio.
Un gran sospiro le sollevò il petto. Colle dita lunghe cercò i ganci dell’abito, senza guardarli, e li sbottonò lentamente, sentendo salire dal fondo delle viscere l’odio di sè stessa; perchè ella odiava quella brutta faccia che da quarant’anni la faceva soffrire, che era la sua sventura, il suo incubo.
Quale soddisfazione, la più naturale, la più vera, la più squisitamente femminile deve provare la donna che guardandosi, ammira in se stessa la più bella opera di Dio! Essere Venere un giorno solo — sfolgorare, amare, morire — basta. Ma nascere e morire appena, nascere e morire e nient’altro fra questi due estremi, nulla, se non la vecchiaia, è atroce destino.
Come dorme placido il mondo! Sarebbe la buffa idea, s’io aprissi la finestra e mi ponessi a gridare: Accorrete, accorrete, muore la più amata cosa ch’io m’abbia, la giovinezza mia!
Ma fuori faceva freddo, la notte era nera; la finestra ben chiusa, cogli scuri sui vetri. Severina, spogliato il vestito, lo appese all’attaccapanni e mosse verso il cassettone, in gonnella corta, col ventre lievemente sporgente, il petto depresso, la vita larga e piatta; dal dorso in giù, tagliata a picco.
Frugò per qualche istante nel cassettone, rimovendo pezzuole, aprendo scatolini. Prese un mazzo di spigo mezzo sciupato e lo fiutò — lo aveva comperato a una sagra di campagna, in un bel giorno d’autunno; era vestita di celeste allora, con un cappello che le stava bene, glielo avevano detto.... Toccò un ventaglio, una boccina vuota, un braccialetto che non metteva da gran tempo; questo lo volle provare, vi infilò dentro il braccio, ma lo tolse subito, scuotendo il capo. Tutta la sua vita stava chiusa là, nel cassettone, sciupata come il mazzo di spigo, vuota come la boccina che aveva contenuto degli odori e che ora non serbava nemmeno più il profumo.
Sopra un vecchio taccuino, scritto a lapis lesse:
Chi è giovane e bella deh! non sia punto acerba, |
e tosto le passò per la mente il gaio volto ridanciano di chi aveva scritti quei versi sul taccuino, dopo una cena di capodanno, a occhi lustri e cuor tenero; una serata allegra, dove
si era divertita anche lei nel tripudio ingenuamente sensuale della gioventù. Ma che ironia, adesso, quell’invito al piacere, e che inutile avvertimento sull’età che non si rinnovella! quasi fosse stata padrona lei del suo destino.
Un muratore, un falegname prendono i loro arnesi e vanno per il mondo a crearsi la fortuna; un povero tende la mano; un ammalato cerca il medico; un cane abbandonato sulla via trova qualcuno che lo porta con sè. L’amore solo non si crea dal nulla, non lo si dà per elemosina, non ha medicina, non ha ricovero — chi non ha amore è il vero mendico, è il vero ammalato... Oh gente che amate, ecco la gran miseria!
Si era fermata nel mezzo della camera, colle braccia penzoloni, l’occhio fisso e vitreo. Dalla camera attigua veniva il cinguettare delle bambine che si erano svegliate nel primo sonno: parlavano confusamente di bambole e di dolci. La voce della madre, umida e molle di sotto le coperte, mormorava: Zitte, dormite. Si sentivano i lettini scricchiolare sotto i piccoli corpi, e sotto il corpo placido della madre, che si voltava dall’altra parte, cedere docilmente il talamo.
Severina si voltò verso il suo letto sconsolato; trasse di sotto al guanciale, una reticella di cotone bianco e se la strinse intorno ai capelli: È finita! In questo letto entrerà ora una vecchia.
Ripetè vecchia, guardandosi attorno, meravigliata che nessuno protestasse.
Che squilibrio però, che ingiustizia! Ella non si sentiva vecchia. Se sapessero i giovani come è difficile uccidere i desideri.... Balzac diceva trent’anni — evidentemente per non scoraggiare troppo quelle di venti.
Tornò a guardare in giro per la camera, così fredda, così nuda, dove i mobili non avevano una voce, dove la tristezza delle cose rifletteva la continua tristezza della sua vita; il letto rigido, lo specchio trascurato, sul canterano un pettine inforcato nella spazzola; due ciabatte di pelle color cioccolata; un cencino di velo nero a cavalcioni di una sedia; nessun nastro, nessun fiore; una regolarità monastica, quell’ambiente grigio delle celle dove non si è mai in due.
Sciolse le sottane, fece saltare le molle del busto, restò in camicia. Ancora una volta girò lo sguardo sulle pareti, più in là delle pareti, fuori, nel mondo che dormiva, nel mondo che tripudiava, nel mondo che soffriva — vedeva una catena che allacciava tutti, lieti e dolenti — vedeva la pietà china sui giacigli, e invidiò gli ammalati, invidiò quelli che possono piangere, quelli che possono gridare — quelli che hanno una gamba cancrenosa e se la fanno portar via — tutti i dolori che si vedono, che si toccano, i soli a cui il mondo crede!
Alzò le braccia, stirandole con una contorsione penosa di tutto il suo essere, lasciando cadere un’occhiata obbliqua; poi, rapidamente come per fuggire a un estremo supplizio, si chinò a strappare le calze, buttandole in un canto, spense il lume, brancicò il letto e vi si gettò, anima persa, nel grande oblio delle tenebre.