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Zia Severina 55


fuochi fatui della fantasia che si sprigionano dai corpi intorbiditi, guizzi fuggevoli, lampi del pensiero che si ostina a vivere e che scuote i nervi loro malgrado, come veltro sguinzagliato. Era una grande e profonda mestizia, lo sconforto di tutte le cose, che la pigliava sempre in quell’ora ultima della sera, terminando una giornata vuota, mettendo la parola fine sotto una pagina bianca.

E quella sera non trattavasi più di un giorno nè di una pagina; era tutta la sua giovinezza che finiva, che moriva, che bisognava sottoscrivere; cambiale rappresentante un valore ch’ella non aveva posseduto.

Proprio lì, nella solitudine dell’alcova, dove i felici contano le loro gioie e gli amanti le loro ebbrezze, quando nella sicurezza pudica della notte cadono tutti i veli e le maschere si strappano e i cuori posti a nudo non temono più l’oltraggio dell’ironia, zia Severina contava anch’essa le sue magre illusioni; ogni sera le aveva viste assottigliarsi, perdere forma e colore, vanire nel buio.

Un gran sospiro le sollevò il petto. Colle dita lunghe cercò i ganci dell’abito, senza guardarli, e li sbottonò lentamente, sentendo salire dal fondo delle viscere l’odio di sè stessa; perchè ella odiava quella brutta faccia che da quarant’anni la faceva soffrire, che era la sua sventura, il suo incubo.

Quale soddisfazione, la più naturale, la più vera, la più squisitamente femminile deve provare la donna che guardandosi, ammira in se stessa la più bella opera di Dio! Essere Venere un giorno solo — sfolgorare, amare, morire — basta. Ma nascere e morire appena, nascere e