Vita (Alfieri, 1804)/Epoca III./Cap. XI.
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passare dal Marchese Caraccioli, per informarlo d’ogni cosa. Ed egli pure, dal modo in cui avea saputo il fatto in confuso, mi tenea fermamente per ucciso, e che fossi rimasto nel parco, che verso la mezz’ora di notte suol chiudersi. Come risuscitato dunque mi accolse, ed abbracciò caldamente, ed in varj di scorsi si passarono ancora forse du’altre ore più della notte; talché arrivai a casa quasi al giorno» Corcatomi dopo tante e si strane peripezie d’un sol giorno, non ho dormito mai d’un sonno più tenace e più dolce.
CAPITOLO UNDECIMO.
Disinganno orribile.
Ecco intanto a puntino come erano veramente accadute le cose, del giorno dianzi. II fidato mio Elia, avendo veduto arrivare quel messaggiero col cavallo fradicio di sudore e trafelatissimo, e che tanto e poi tanto gli avea raccomandato di farmi avere immediatamente quella lettera, era subito uscito per rintracciarmi; e cercatomi prima dal Prirrir>e di Masserano dove mi credeva esser ito, poi dal
Caraccioli, che abitavano a piò miglia di distanza, 1771 avea così consumato piò ore; finalmente riaccostandosi verso casa mia che era in Suffolk Street, vicinissima Haymarket dov’è il teatro dell’Opera Italiana, gli venne in capo di veder se io ci fossi; benché non lo cre.desse, atteso che avea tuttora il braccio slogato fasciato al collo. Appena entrato egli al teatro, e chiesto di me a que’custodi dei palchi che benissimo mi conoscevano, gli fu detto che un dieci minuti prima era uscito con tal persona, che era venuta a cercarmi espressamente nel palco dov’io era. Elia sapeva benissimo (benché non lo ’ sapesse da me ) quel mio disperato amore; onde udito appena il nome della persona che mi era venuta cercare, e combinato la lettera di donde veniva, subito entrò in chiaro d’ogni cosa. Allora Elia, sapendo benissimo quanto mal destro spadaccino io mi fossi, ed inoltre vedendomi impedito il braccio sinistro, mi reputò anch’egli certamente per un uomo morto; e subito corse al Parco S. Giacomo, ina non essendosi rivolto verso il Green parck non ci rinvenne; intanto annottò; ed egli fu costretto di uscir del parco, come ogni altra persona. Non sapendo che si fare per venir in chiaro della mia sorte, si avviò verso
1771la casa del marito, credendo quivi poter raccapezzare qualcosa; e forse avendo egli azzeccato cavalli migliori al suo fiacre, che non erano stati quelli del marito; o che questi forse in quel frattempo fosse andato in qualch’altro luogo; fatto si è, che Elia si combinò di arrivar egli nel suo fiacre vicino alla porta del marito, nel punto istesso in cui esso marito era giunto a casa sua; e l’avea benissimo veduto ritornare colla spada, e slanciarsi in casa, e far chiuder la porta subito, ed in aspetto e modi molto turbati. Sempre più.si confermò Elia nel sospetto, ch’egli m’avesse ucciso, e non potendo più far altro, era corso dal Caraccioli, e gli avea dato conto di quanto sapeva, e di quel che temeva.
Io dunque, dopo una si penosa giornata, rinfrancato da molte ore di placidissimo sonno, rimedicate alla meglio le mie due ferite, di cui quella della spalla mi dolca più che mai, e l’altra sempre meno; subito corsi dalla mia donna, e vi passai tutto intero quel giornon. Per via dei servitori si andava sentendo quello che faceva il marito, la di cui casa, come dissi, era assai vicina di quella della cognata, dove abitava per allora la mia donna. E benché io riputassi in me stesso ogni nostro
guai terminato col prossimo divorzio; e ancorchè 1771 il padre di lei ( persona a me già notissima da piò anni) fosse venuto in quel giorno 4el Mercoledì a veder la figlia, e nella di lei disgrazia si congratulasse pur seco, che almeno ad uom degno (cosi volle dire) le toccasse di riunirsi in un secondo matrimonio; con tutto ciò io scorgeva una foltissima nube su la bellissima fronte della mia donna, che un qualche sinistro mi vi parea presagire. Ed ella, sempre piangente, e sempre protestandomi che mi amava piò d’ogni cosa; che lo scandalo dell’avvenimento suo e il disonore che glie ne ridondava nella di lei patria,le venivano largamente compensati s’ella potea pur vivere per sempre con me; ma ch’ella era piò che certa che io non l’avrei mai presa per moglie mia. Questa sua perseverante e stranissima asserzione mi disperava veramente; e sapendo io benissimo ch’ella non mi reputava nè mentitore nè simulato, non poteva assolutamente intendere questa sua diffidenza di me. In queste funeste perplessità, che pur troppo turbavano ed annichilavano ogni mia soddisfazione del ve derla liberamente dalla mattina alla sera; ed inoltre fra le angustie d’un processo già intavolato, ed assai spiacente per chiunque abbia
1771 onore e pudore; così si passarono i tre giorni
dal Mercoledì a tutto il Venerdì, finché il Venerdì sera insistendo io fortemente per estrarre dalla mia donna una qualche più luce nell’orrido enimma dei di lei discorsi, delle sue malinconie, e dilfidenze; finalmente con grave e lungo stento, previo un doloroso proemio interrotto da sospiri e singhiozzi amarissimi, ella mi veniva dicendo che sapea pur troppo non poter essere in conto nessuno ornai degna di me; e che io non la dovea né poteva né vorrei sposar mai perché già prima.... di amar me.... ella avea amato...__ E chi mai? Soggiungeva io interrompendo con impeto.— Un Iokei (cioè un Palafreniere)... che stava— in casa— di mio maritoCi stava? e quando? Oh Dio, mi sento morire! Ma perchè dirmi tal cosa? crudel donna; meglio era uccidermi. — Qui m’interrompe ancor essa; e a poco a poco alla per fine esce l’intera confessione sozzissima di quel brutto suo amore; di cui sentendo io le dolorose incredibili particolarità, gelido, immobile, insensato mi rimango qual pietra. Quel mio degnissimo rivai precursore stava tuttavia in casa del marito in quel punto in cui si parlava; egli era stato quello che avea primo spiato gli andamenti della amante padrona; egli avea scoperto la 1771 mia prima gita in villa, e il cavallo lasciato tutta notte nell’albergo di campagna; ed egli, con altri di casa, mi avea poi visto e conosciuto nella seconda gita fatta in villa la Domenica sera. Egli finalmente, udito il duello del marito con me, e la disperazione di esso di dover far divorzio con una donna ch’egli mostrava amar tanto, si. era indotto nel giorno del Giovedì a farsi introdurre presso al padrone, e per disingannar lui, vendicar se stesso, e punire la infida donna e il nuovo rivale, quell’amante palafreniere avea spiattellatamente confessato e individuato tutta la storia de’suoi triennali amori con la padrona, ed esortato avea caldamente il padrone a non si disperar più a lungo per aver perduta una, tal moglie, il che si dovea anzi recare a ventura. Queste orribili e crudeli particolarità, le seppi poi dopo; da essa non seppi altro che il fatto, e menomato quanto più si potea.
Il mio dolore e furore, le diverse mie risoluzioni, e tutte false e tutte funeste e tutte vanissime ch’io andai quella sera facendo e disfacendo, e bestemmiando, e gemendo, e, ruggendo, ed in mezzo a tant’ira e dolore amando pur sempre perdutamente un così
1771 indegno oggetto; non si possono tutti questi affetti ritrarre con parole: ed ancora vent’anni dopo mi sento ribollire il sangue pensandovi.
La lasciai quella sera, dicendole: ch’ella troppo bene mi conosceva nell’avermi detto e replicato si spesso che io non l’avrei fatta mai mia moglie: e che se io mai fossi venuto in chiaro di tale infamia dopo averla sposata, l’avrei certamente uccisa di mia mano, e me stesso forse sovr’essa, se pure l’avessi ancor tanto amata in quel punto, quanto pur troppo in questo l’amava. Aggiunsi; che io pure la dispregiava un po’ meno, per l’aver essa avuta la lealtà e il coraggio di confessarmi spontaneamente tal cosa; che non l’abbandonerei mai come amico, e che in qualunque ignorata parte d’Europa o d’America io era pronto ad andare con essa e conviverci, purch’essa non mi fosse nè paresse mai d’esser moglie.
Cosi lasciatala il Venerdì sera, agitato da mille Furie alzatomi all’alba del Sabato, e vistomi sul tavolino uno di quei tanti foglloni pubblici che usano in Londra, vi slancio cosi a caso i miei occhi, e la prima cosa che mi vi capita sotto è il mio nome. Gli spalanco, leggo un ben lunghetto articolo, in cui tutto il mio accidente è narrato, individuato
minutamente e con verità, e vi imparo di più le funeste 1771 e risibili particolarità del rivale palafreniere, di cui leggo il nome, l’età, la figura, e l’ampissima confessione da lui stesso fatta al padrone. Io ebbi a cader morto ad una tal lettura;, ed allora soltanto riacquistando la luce della mente, mi avvidi e toccai con mano, che la perfida donna mi avea spontaneamente confessato ogni cosa dopo che il gazzettiere, in data del Venerdì mattina, Tavea confessata egli al pubblico. Perdei allora ogni freno e misura, corsi a casa sua, dove dopo averla invettivata con tutte le più amare furibonde e spregiami espressioni, miste sembre di amore, di dolor mortalissimo, e di disperati partiti, ebbi pure la vii debolezza di ritornarvi qual- che ore dopo averle giurato ch’ella non mi rivedrebbe mai più. E tornatovi, mi vi trattenni tutto quel giorno; e vi tornai il susseguente, e più altri,finche risolvendosi essa di uscir d’Inghilterra, dove eli’era divenuta la favola di tutti, e di andare in Francia a porsi per alcun tempo in un monasteró, io l’accompagnai, e si errò intanto per varie provincie dell’Inghilterra per prolungare di stare insieme, fremendo io e bestemmiando dell’esservi, e non me ne potendo pure a niun conto separare. Colto
1771 finalmente un istante in cui potè più la vergogna e lo sdegno che l’amore, la lasciai in Rochester, di dove essa con quella di lei cognata si avviò per Douvres in Francia, ed io me ne tornai a Londra.
Giungendovi seppi che il marito avea proseguito il processo divorziale in mio nome, e che in ciò mi avea accordata la preferenza sul nostro triumviro terzo, il proprio palafreniere; che anzi gli stava ancora in servizio; tanto è veramente generosa ed evangelica la gelosia degli Inglesi. Ma ed io pure mi debbo non poco lodare del procedere di quell’offeso marito. Non mi volle uccidere, potendolo verisimilmente fare: nè mi volle multare in danari, come portano le leggi di quel paese, dove ogni offesa ha la sua tariffa, e le corna ve l’hanno altissima; a segno che s’egli in vece di farmi cacciare la spada mi avesse voluto far cacciar la borsa, mi avrebbe impoverito o dissestato di molto; perchè tassandosi l’indennità in proporzione del danno, egli l’avea ricevuto èì grave, atteso l’amore sviscerato ch’egli portava alla moglie, ed atteso anche l’aggiunta del danno recatogli dal palafreniere, che per essere nullatenente non glie l’avrebbe potuto ristorare, ch’io tengo
per fermo che a recarla a zecchini io non ne 1771 sarei potuto uscir netto a meno tli dieci o dodici mila zecchini, e forse anche più. Quel bennato e moderato giovine si comportò dunque meco in questo sgradevole affare assai meglio ch’io non avea meritato. E proseguitos’in mio nome il processo, la cosa essendo troppo palpabile dai molti testiinonj, e dalle confessioni dei diversi personaggi, senza neppure il mio intervento, nè il menomo impedimento alla mia partenza dall’Inghilterra, seppi poi dopo ch’era stato ratificato il totale divorzio.
Indiscretamente forse, ma pure a bell’apposta ho voluto sminuzzare in tutti i suoi araminìcoli quto straordinario e per pie importante accidente, si perchè se ne fece gran rumore in quel tempo, si perchè essendo stata questa una delle principali occasioni in cui mi è venuto fatto di ben conoscere e porre alla prova diversamente me stesso, mi è sembrato che analizzandolo con verità e minutezza verrei anche a dar luogo a chi volesse più intimamente conoscermi, di ritrovarne in questo fatto un ampissimo mezzo.