Visioni sacre e morali/Visione VII

Visione VII

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VISIONE VII.




PEL TERREMOTO


DI


LISBONA.





Mentre il gran Disco, ove la luce alberga,
     3Trascorrea nel suo curvo obbliquo giro
     Gli astri, che allo Scorpion segnan le terga,
Sciolsi dal porto, contro cui s’uníro
     6Le Germane armi, e le Britanne prore,
     Che minacciose a ritentar s’offríro
L’ultime prove del Latin valore,
     9Per cui la Donna di Liguria invitta
     Risorger feo d’Italia il dubbio onore.
La fronte il cavo abete avea diritta
     12Là dove il passaggier al lido Ibero
     Su le salse di Gallia acque tragitta,
E i tesi lini a un aquilon leggiero
     15Spiegando, qual se avesse ai fianchi penne,
     Rade a col volo il liquido sentiero;
Quando a gonfiar l’onde improvviso venne
     18Turbin, e il mare fra contrarj venti
     Per dirotta fortuna alto divenne,

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Sì, che i nocchieri al lor periglio intenti
     21Salír pe’ gradi all’aspre corde intesti
     Le agitate a raccor tele stridenti
Fra i sibili del vortice funesti,
     24Cui resister mal puote Ercinia e Ardenna;
     Ma tal fe’ la procella impeto in questi,
Che duo di lor, in men che il dito accenna,
     27L’ampia vela aggruppando all’arbor carco,
     Divelti fúr dalla tremante antenna:
E come augei l’aure fendendo in arco
     30Dopo un languido oimè sparver assorti
     De’ golfi irati nel terribil varco.
Notte recando e verno erravan sórti
     33Nel tenebrato ciel nuvoli spessi
     Che ricoprían di nebbia i lidi e i porti,
Ed al crescer dell’ombre i flutti stessi
     36Parean del legno sormontar le sponde,
     Crescendo mole, e feritade in essi.
Venían pugnando insiem grossissim’onde,
     39Altre a proda, altre a poppa, e fean in parte
     Or monti erti, or voragini profonde;
E ognor del mare alla gonfiata parte
     42Levavasi la nave, e al sen più basso
     Avvallando rendea delusa ogni arte.
Noi pel terror immoti a par d’un sasso
     45Restammo in pria; ma la vicina morte
     I piè ci sciolse, ed affrettonne il passo
A librar, benchè invan, col pondo forte
     48De’ corpi il lato, in cui per l’urto esterno
     S’ergea troppo l’abete in dubbia sorte:
Ma pel gran moto ad ambo i lati alterno
     51Lassi cademmo, e il nostro inutil corso
     I tempestosi fiotti ebber a scherno.

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Privi di sol, di guida e di soccorso,
     54Stesi sul pian del legno combattuto,
     Squallidi per immenso mare scorso
Piagneam col timonier, che avea perduto
     57Fra le infinite acque e l’orror notturno
     Lena e consiglio, e temea smorto e muto
Gli ultimi abissi, ove un crudel vulturno
     60Traportator spignea la poppa errante;
     Ma il tardo apparve alfin lume díurno,
Per cui s’accorse per le nubi infrante,
     63Che il fiero soffio oltre i confin d’Alcide
     Tratti ne avea nell’Oceán d’Atlante.
Allor fortuna, che per poco arride
     66Agl’infelici, ravvivò il più grave
     Zefiro occidental su l’onde infide,
Che risospinse la sbattuta nave
     69Presso alle piagge Lusitane, e un raggio
     Di speme in noi sembrò destar soave,
Ma con tal velocissimo víaggio
     72Ci sforzò il nuovo raddoppiar del vento
     Nell’aurifero Tago a far passaggio,
Che il naviglio, cui d’uopo era più lento
     75Corso, ne’ scoglj entro la foce ascosi
     Urtò, s’aprì ingojato in un momento.
Sorte fosse, o voler del Cielo, io posi
     78La man sovra il timon svelto, e lo strinsi
     Nell’atto, in cui scesi fra i gorghi ondosi,
E col peso minor il leggier vinsi
     81Carco del fiume sì, che in facil nuoto
     Sul pinto d’erbe e fiori argin mi spinsi.
Pareanmi ancor le selve al guardo immoto
     84Barcollar tutte, tal negli occhi impresso
     Fu il continuo pe’ flutti orribil moto.

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Qui con speme, che a me fosse concesso
     87Fra’ i naufraghi sottrarne altri al periglio,
     La riviera esplorai lungi, e dappresso;
Ma poichè pe’ sommersi altro consiglio
     90La pietà non poteo darmi che il pianto,
     Fra i sospir rotti dal piover del ciglio
Seguii la strada al fiume infausto accanto
     93Verso le torri della regia sede,
     Da cui ne trae luce Olisippo, e vanto.
Il mesto aspetto, che fea piena fede
     96Del lacerato cor, presso me trasse
     Uom grave, che affrettando il tardo piede
Mi disse: E chi sei tu, che colle basse
     99Luci, e la fronte stretta in solchi tristi,
     Mostri qual duolo fier l’alma ti passe?
Tu sei naufrago, s’io guardo i crin misti
     102Di sabbia, e i panni, onde stillando scende
     L’alt’acqua ancor, da cui poc’anzi escisti.
Pur non so qual gentile aria, che splende
     105Nel tuo stesso dolor, vuol ch’ io m’affanni,
     Come se fosser mie le tue vicende.
Ma datti pace: io scemerò que’ danni,
     108Che ti recò fortuna, e a te fia dolce
     Rammentar forse in poi sì duri affanni.
La scambievol pietà, che tempra e molce
     111Ogni aspro lutto, in me svegliò quel grato
     Rinvigorir, che i disperati folce;
Tal, ch’io riconfortando il cor gelato
     114Da tema e duol, risposi: Oh tu dal Cielo
     Le altrui sventure ad alleviar serbato,
Tu qual ti sia m’accogli. Io non ti celo
     117Il misero furor, che omai m’irríta
     A sprigionar l’Alma dal fragil velo.

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Che se più tarda ai mali era l’aíta,
     120Oimè! forse m’avría la cruda doglia
     Spinto a dar fine all’infelice vita.
Or tu mi guida entro una sacra soglia,
     123Ove della prestata a me salute
     Alla divina Madre il voto io scioglia;
Chè ben gemina infuse a noi virtute:
     126A me il valor fra la procella orrenda;
     E a te il voler, che il mio naufragio ajute.
Là fia, che a Lei le man divote io stenda,
     129Perch’ella, di Pietà fonte, l’eguale
     A cotanta pietà mercè ti renda.
Tacqui; ed a lui tenero gaudio, e tale
     132Sul volto sfavillò, ch’io mai non vidi
     Sì lieto in benigne opre altro mortale;
Quindi con atti d’amistà più fidi
     135Mi gittò il manto su l’umide spalle
     Contra il vivo aere de’ marini lidi,
E mi fe’ scorta nell’ignoto calle
     138Con passi al Tempio sovra l’argin pronti,
     Da cui scendemmo poi dentro una valle
Tronca, e bagnata da perpetue fonti,
     141Col ragionar sceme rendendo assai
     Le ingrate cure in varcar prati e ponti.
Per sì lungo cammin qual fu narrai
     144Del sangue mio la varia sorte, e dove
     Fra i miei vagiti il primo Sol mirai,
Da quai spiagge affrontar l’infauste prove
     147Ardii de’ flutti, e donde il vento crebbe
     Più forte, e aggiunse furie al turbin nove;
E quanto mar la nave scorse, e bebbe
     150Senz’arte e stella; e come il gonfio Tago
     Sommersa alfin tra le voragin l’ebbe.

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Dopo tai detti il voto mio fei pago
     153Col penetrar nel Tempio, e pormi in atto
     Supplice innanzi alla celeste Immago.
Mentre a Lei rinnovando il sacro patto
     156Di serbar, finchè l’Alma il frale avvivi,
     Grata memoria del mirabil fatto,
Vidi, ahi che vidi! da quegli occhi divi
     159Scorrer per vie sovra natura ignote
     Doglioso umor in lagrimevol rivi.
Inorridii, gelai: tre volte immote
     162Le luci io tenni al pio volto, e tre volte
     Irrigò il pianto le verginee gote.
Pur volli al ver far velo, e per le folte
     165Mie tristi idee credei nel mio deluso
     Sguardo tali apparir lagrime sciolte.
Quindi, entro al sen cupo serbando e chiuso
     168Il gran portento, fuor del Tempio uscii,
     E fra i confusi miei pensier confuso
La Guida mia, che precorrea, seguii
     171Verso un albergo a verde poggio in cima,
     Ove il fatal peregrinar compii.
Benchè del loco anche l’immagin prima
     174Seggio m’offrisse fra delizie raro,
     Pur il cor mio roso da ignota lima
Ogni obbietto volgea dolce in amaro;
     177Tal che le labbra in lauto desco appena
     Lieve confortatrice esca gustáro.
Inquieta stanchezza, e indocil pena
     180Me trasser quindi su le molli piume
     Per recar pace agli egri spirti, e lena;
Ma l’anima scontenta oltre il costume
     183Le pupille mi tenne a lungo aperte,
     Come se urtate fosser da gran lume.

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Languíro alfin de’ nervi lassi incerte
     186Le forze, e il sonno tacito mi chiuse
     Le ciglia di papaveri coperte.
E forse il Sol le fiamme alto diffuse
     189Avrebbe pria che quel torpor disciolto
     Fosse, che nelle mie membra s’infuse;
Ma un sogno, in cui da tremiti sconvolto
     192Cader l’albergo, ov’io giacea, mi parve.
     Scosse, e m’aprì gli occhi smarriti in volto:
Ond’io pien dell’obbietto, che m’apparve,
     195M’alzai, corsi, m’aggiunsi alla mia Guida;
     E in raccontar le pria sognate larve
Svelai della divina Immagin fida
     198Il visto pianto, e dissi: Oimè! che questa
     È terra infausta, e a chi la piange infida.
Sospirando ei rispose: Oh manifesta
     201Per sì terribil segni ira di Dio,
     Tarda, ma più ne’ colpi suoi funesta!
Ben te naufrago il Ciel volle, perch’io
     204Da’ tuoi congiunti ai miei prodigj orrendi
     Scorga le preparate al Popol mio
Lagrime amare e stragi. Ah! se tu prendi
     207Tenera parte negli affanni altrui,
     Odi gran cose e a quel che narro, attendi.
Condottier nella ferma etade io fui
     210Di nave carca, e me dal mio disgiunsi
     Nido, spregiando il mar co’ sdegni sui.
Le Brasilidi piagge a premer giunsi
     213Con tal sorte, che a quel, che il sangue diemme
     In mio retaggio, ampio tesoro aggiunsi;
Ma non l’aurate verghe, e non le gemme,
     216Nè gli odorati aromi il mio fér lieto
     Desío, maggior dell’Indiche maremme;

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Anzi un pensier tristissimo, secreto,
     219Mentre l’avida man d’oro s’empiea,
     Più fería d’aspri morsi il cor non queto.
Questa crudel nei mesti moti idea
     222Mi fu nel riveder la patria terra
     Ognor compagna, ovunque il piè movea;
E tal mi raddoppiò continua guerra,
     225Ch’io nella mente disperata volsi
     La pace mia di ricercar sotterra;
E un momento fatale, ahi lasso! io colsi,
     228In cui del Tago mi gittai nell’acque,
     E fra i profondi vortici m’avvolsi.
Nel sommergermi un voto in cor mi nacque,
     231Che il vol spiegò verso la Vergin Diva,
     Cui raccorlo, benchè sì tardo, piacque.
Spinto, come nol so, da forza viva
     234Maggior di me, che il nuoto mio trasporta,
     Salvo balzai nella contraria riva,
In guisa d’uom, che penzola su torta
     237Canapa lenta, e la vibrata corda
     Da un lato all’altro del teatro il porta.
D’avare voglie allor l’Anima lorda
     240Vide e conobbe il suo reo stato, e scosse
     L’empia radice, e de’ suoi mali ingorda.
Le merci a vile io tenni, e qual più fosse
     243Nell’avid’arte industre modo e cura
     Posi a scopo alto, ove il pensier levosse:
Le spoglie odiai profane, e vestii pura
     246Sacerdotale insegna, e nova presi
     Via lieta in morte, benchè in viver dura.
Lasciai l’ampia Cittade, ove difesi
     249Mal fúro ognor dai dolci assalti e crudi
     I desir casti, e a divin segno intesi:

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Quindi in solingo albergo, e fra gl’ignudi
     252D’ogni periglio ameni poggi e boschi
     Vissi un lustro fra i sacri ozj e gli studi.
Or due volte la notte avvien che infoschi
     255L’alma luce, e funesti il mio riposo;
     Mentre del sonno fra i silenzj foschi
Offre il Profeta a me, che dall’ondoso
     258Cobarre fu pel crin su l’aure chiare
     Tratto di Sion nel santo colle ombroso,
Ov’ei mirò sul profanato Altare
     261L’eretto Idol del Zelo, e gli uomin fisi
     E chini al Sol nascente aureo del mare;
E le donzelle Ebree co’ smorti visi,
     264Che di lamenti empiean l’estinto Adone,
     Sciolte i capei d’infame pianto intrisi.
Egli, che ai Giudei Regni e alle Corone
     267Assire aprì il ferale ordin de’ fati,
     Con torvo ciglio a riguardar si pone
La misera Olisippo, e grida: Irati
     270Scorgerai gli elementi, ed al tuo scempio,
     Città infelice, orridamente armati.
Le pene avrà pel violato Tempio,
     273Qual già il mio Popol ebbe, il tuo, che adegua
     I prischi falli, ed il malnato esempio.
L’ultime amare par voci che segua
     276Un improvviso tremolar del suolo;
     Ed ei sfuma fra il bujo, e sì dilegua.
Or quali sciolser mai più infausto volo
     279Presagj a par di questi, e diér sì certi
     Concordi segni di futuro duolo?
Ma poichè a noi mirabilmente offerti
     282Fúr dall’alta Pietà, che i fonti eterni,
     Dell’avvenir volle mostrarne aperti,

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S’inchini umíl l’Alma ai destin superni,
     285E la pia nel rigor mano ami e adori,
     Benchè aspra sembri a noi, che ne governi.
E tu, che corta via divide fuori
     288Della terra ne’ troppi agi superba,
     Vieni, e mirala pria che negli orrori
Cada e nel danno di vendetta acerba,
     291Sì che fra sue ruine almen dir possa:
     Tal era; ora il suo nome è sabbia ed erba.
Fra questi detti a lui, che avea già mossa
     294La salma al confin noto, io dietro tenni;
     E in meditar la struggitrice scossa,
Ch’io vicina temea, muto divenni,
     297E dal mio labbro sol risposta breve
     Pel Duce mio, che men chiedeva, ottenni;
Svelando a lui qual nelle sue riceve
     300La vastissima terra atre caverne
     Zolfi, e pingui bitumi, e nitro lieve,
Fra cui piomba talor dalle superne
     303Volte spiccata selce, e un’altra batte,
     E ne risveglia le scintille interne,
Che rigogliose, e avidamente ratte
     306S’appiglian a que’ corpi; o pur le stesse
     Sulfuree masse a fermentarsi tratte
Ardori per le piriti aggiunte ad esse,
     309Cui lena dan le diradate parti
     D’aria e d’acqua in que’ chiusi antri compresse,
E come in mina fra le bellich’arti
     312La fatal polve tali addoppia l’ire,
     Ch’alza i muri, e gli svelle infranti e sparti;
Così in quell’ime avvien grotte che gire
     315Violento foco, e lo scoppiar conteso
     L’impeto accresca dell’aeree spire:

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Ma benchè il fiero ardor sotterra appreso
     318Di Natura opra sia, pur lo rinforza
     Lo sdegnato voler del Nume offeso.
Allor sì nera idea la fral mia scorza
     321Tanto agitò, ch’io terminai la via
     Tremando, e al piè ritroso aspra fei forza
Dietro ai vestigj della Guida mia,
     324Che fra le mura entr’un albergo ascese,
     Che il pian della Cittade ampio scopría.
Dal sommo loco il guardo mio si stese
     327Su mille alte nel suol moli pietrose,
     E maraviglia e duolo insiem ne prese,
Chè grande quinci scopo eran fastose
     330Volte di simulacri in cerchio onuste,
     E per vario scarpel torri scabrose
Ricche di globi d’or le cime anguste,
     333E tempj erti, e palagi, e fori, ed archi
     Gravi di sculte in marmi opre vetuste.
Quindi i flutti apparían del fiume carchi
     336D’innumerabil prore, e su l’altere
     Sponde i tesor di genti estranie scarchi,
Che l’Afre, Americane, Inde bandiere,
     339E Perse, ed Europee nell’aure molli
     Volteggiavan pieghevoli e leggiere.
Il popol ingombrando i patrj colli
     342Folto movea fra gli aggirati cocchi
     Dai destrier d’auro intesti i curvi colli.
Delizia e maestade, ovunque gli occhi
     345Io volgessi, splendeva, e in ogni loco
     Gli sguardi da piacer novo eran tocchi
O l’Oceán mirassero, che il roco
     348Fea rimbombar muggito, o i cinti stagni
     Di cedri e aranci del color di croco;

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Ma un rio pensier, che par che s’accompagni
     351A spettacol sì grato, ognor con triste
     Moto mi ripetea: Guardalo e piagni.
Mentr’io scernea le tante immagin miste,
     354Di forti penne udii stridere il suono,
     E vidi Angel con vel gemmato a liste,
Che salía là, dove divide il tuono
     357Le nubi presso al puro etere stanche,
     Recando a Dio gli umani incensi in dono.
Il turibol strignea colle man bianche,
     360E sparse avea di vario-pinti lumi
     Le doppie ali al bel volto, al tergo e all’anche.
Nel vol gridò: Monti ululate, e fiumi,
     363E terre, e mari; e degli eterei campi
     Segnò la via cogli odorosi fumi,
Finchè giunse a un altar folto di lampi,
     366Su cui sedea l’Agnel, che coll’atroce
     Sua morte fe’ che l’Uom l’eterna scampi.
Ascese appena, che s’udío tal voce:
     369Empi l’aureo incensier della grand’ira,
     Che la mia sveglia in me schernita Croce;
E la mercè, che l’onor mio t’ispira,
     372Rendi a chi porge a Dio prece sì amara,
     L’Angel con guardo allor, che strage spira
Mischiò nel vaso i lampi, onde ardea l’ara;
     375Poi rovesciollo sì, ch’ignea ne scorse
     Nel suolo striscia orribilmente chiara.
L’ore presso al meriggio eran già corse,
     378Quando muggíro i sotterranei fochi
     Per la nova, che il Cielo esca lor porse.
Ben della terra in pria languidi e fiochi
     381I moti fúr; ma il zolforoso nido
     Più ardendo scosse anche i più sodi lochi.

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Dirotto rimbombò quindi uno strido
     384Del popol tutto a Dio chiedendo pace,
     E altamente mugghiárne i colli e il lido.
Il pian divenne ai dubbj piè fallace
     387Nel raddoppiar le scosse, e co’ sonanti
     Bronzi non tocchi diér segno verace
Di ruina fatal le vacillanti
     390Testuggini de’ tempj, e le più ferme
     Torri nella serena aria ondeggianti.
Io ratto corsi ove credei vederme
     393Salvo dal suol, che incerto or s’erge, or cala,
     All’ima soglia, e alle mie membra inferme
Pel terror diè il terror più fervid’ala,
     396E della porta fra le arcate bande
     Fuggii saltando la tremante scala.
M’assordò allor mirabilmente grande
     399Precipitoso scroscio, e d’ogn’ intorno
     Scoppiò qual tuon, che mille tuoni spande.
Immenso polverío coperse il giorno,
     402E della luce desíata invece
     Mestissime apparíro ombre dattorno;
E in men che scorre una sei volte in diece
     405Divisa parte di volubil ora
     Squallido la Città cumol si fece
Di rotte pietre addentro miste e fuora
     408Fra spezzate finestre, archi, e colonne
     Mozze, altre stese, altre pendenti ancora.
L’eccidio fier, di cui non mai potronne
     411Vivi ritrarre i danni, e lo smarrito
     Sole, e l’alterno urlar d’Uomini e Donne,
E il volto della Guida impallidito,
     414Ch’io non so come aggiunta erasi meco,
     Mi rimembrár l’estremo dì compito

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Delle terrene cose; e per quel cieco
     417Aere temei su la fulminea nube
     L’eterno rimirar Giudice bieco,
E le Angeliche udir ultime tube;
     420Ma la Guida, che pria giacque pensosa,
     Qual coniglio, che in macchia ascoso cube,
Ripigliando vigor, disse: Già posa
     423Stabile il piano. I tetti mal sicuri
     Ha questa sede, e l’altra pur dubbiosa,
Che a fronte stassi, incerti serba i muri.
     426S’apre al fuggir la via. Vincer fa d’uopo
     Col senno e coll’ardir colpi sì duri:
Seguimi. Ei mosse; ed io guatandol, dopo
     429Un profondo sospir, ne seguii l’orme
     Ignaro della strada e dello scopo.
Stranamente il sentier s’ergea difforme,
     432Asprissimo e scosceso in rozzi mucchi
     Di pietre, e in massa inegualmente enorme
Di travi, e intorti ferri, e marmi, e stucchi,
     435E seggi, e letti, e deschi ancora tinti
     Di sparsi cibi e di pampinei succhi;
Pur da necessitate i piè sospinti
     438Battean quel calle, e s’arrestavan lassi
     Dal cammin spesso malagevol vinti.
Oh quante volte in alternar i passi
     441Caddi, e abbracciai caldo cadaver pesto
     Scoperto allor da sgretolati sassi!
E quante arrampicandomi al funesto
     444Monte di tetti o affatto svelti, o scemi
     Dal tetro fondo udii lo strider mesto
De’ semivivi, che ne’ casi estremi
     447Voce mettean fra que’ spiragli acuta,
     Sclamando: Oimè! perchè ne calchi, e premi?

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L’orrida via d’ogni conforto muta,
     450E di ruine, e di fiaccate, o rase
     Ossa, e di membra luride tessuta
Fiero obbietto m’offerse, onde rimase
     453Sì oppresso il cor, che il novo agli occhi assalto
     Superò quel delle pendevol case.
Marmorea fascia nel piombar dall’alto
     456Uom guasto avea, che da soggetta loggia
     Tentonne forse il disperato salto.
Sovra le intatte sponde in cruda foggia
     459Senza capo giacea l’informe tronco
     Lordo, e grondante di sanguigna pioggia.
L’un braccio e l’altro bruttamente monco
     462Per le strappate mani, e trite in mille
     Pezzi le canne fuor del collo tronco.
Il Duce mio sotto quell’atre stille
     465Varcò il sentier; ed io con lena stanca
     Ristetti e con attonite pupille;
Quand’ei mi disse: I passi tuoi rinfranca,
     468Chè siam presso al confìn. Vana e vil tema
     I piè t’annoda, ed a te il volto imbianca.
Il suo dir, e l’oprar destò l’estrema
     471Forza ne’ miei smarriti spirti, e feo
     L’anima del terrore inutil scema;
Tal ch’io vinsi passando il cammin reo,
     474E alla meta arrivai tinto del sangue,
     Che il palpitante ancor busto perdeo.
Qui nel mirar giovane Madre esangue,
     477Piansi; e ben tratte avría l’acerbo caso
     Lagrime da un’irata orsa, o da un angue.
Precipitato largo trave a caso,
     480Su l’imbrunite e stritolate cosce
     Dell’infelice Donna era rimaso.

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Non lungi in quella età, che non conosce
     483I proprj danni, un vago pargoletto
     Figlio accresceva a lei l’ultime angosce.
Sciogliendo ella con man smorta lo stretto
     486Vel su le poppe, benchè infranta e oppressa,
     Chiamaval dolce all’amoroso petto;
Ed ei carpone invan moveasi, ed essa
     489Sospirando, e guardandolo sembrava
     Dogliosa più di lui, che di sè stessa.
Noi con pronto vigor, che ne prestava
     492Di caritate il zel, trarla d’impaccio
     Tentammo, e dal gravoso arbor che stava
Su lei rappresa omai dal mortal ghiaccio:
     495Ma per quante scegliesse arti l’ingegno,
     Ahi! non fu pari al buon voler il braccio.
La Donna allor: Per sì bell’opra il degno
     498Guiderdon serbi a voi, disse, l’immensa
     Pietà, che in dar mercè varca ogni segno.
Me delle piaghe mie la doglia intensa,
     501E il terribile colpo a morte spinge,
     E già m’annebbia i rai caligin densa.
Or questo parto mio, che nel suo pinge
     504Volto l’aita, che per lui richieggo,
     Fugga il destin, che di perigli il cinge.
Per voi salvo egli viva: altro non chieggo;
     507E allor morte mi fia riposo e gioja.
     Ma dove è il figlio mio, ch’io più nol veggo?
Ah! date a me fra l’affannata noja
     510Dell’Alma e il palpitar de’ membri estremo,
     Che almen lo stringa al seno anzi ch’io moja.
Io coll’uffizio di pietà supremo
     513Il fanciul presi, e a quel languente il porsi
     Petto pieno d’amor, di forze scemo;

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Ed ella, che sentì l’amato porsi
     516Pegno nel grembo, di più forti armata
     Spirti ed affetti al cor materno accorsi,
L’annodò, lo baciò colla gelata
     519Bocca, sclamando: Il Ciel ti doni un padre.
     E tenera, e dolente, ed agitata
Le molli del bambin carni leggiadre
     522Troppo in morir compresse, ed in un punto
     Spirò l’Anima il figlio, e insiem la madre.
Da spettacol sì amaro ebbi compunto
     525Cotanto il sen, ch’io colla Guida sparsi
     Largo di pianti umor ai primi aggiunto.
Salimmo indi ambo ove parea levarsi
     528Il piano in facil colle, e per i folti
     Pini e cipressi ombrosamente ornarsi;
Ed ecco vacillar da strano colti
     531Tremore i colli, e in screpolosi fondi
     Spesso i corpi ingojar vivi sepolti.
Oh infausta e crudel terra, che fecondi
     534Modi d’acerbità varia produci,
     T’apri, e in te guasti, e stritolati ascondi
D’un popolo gli avanzi! Ah! le mie luci
     537L’aspetto fier più tollerar non ponno.
     Guidami tu, gridai, che mi conduci,
A men orribil loco, ov’io sia donno
     540In pace almen fra tanti affanni stanco
     Di chiuder gli occhi nel perpetuo sonno.
Ed ei rispose: Affrettati sul manco
     543Sentiero ad abbracciar robusta pianta,
     Che innanzi, o indreto il piè portar e il fianco
Ci vieta il terren fesso. Allor con quanta
     546Lena potei corsi, e del Duce sotto
     La scorta un pino strinsi; e appena a tanta

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Velocità bastevol fu il dirotto
     549Sì corto spazio, in cui novo, e diverso
     Tremito ammarginò del cammin rotto
I cupi abissi, ove poc’anzi asperso
     552Di sangue e polve un Uom fra sassi e arene
     Non lungi a me precipitò sommerso.
Cessò in breve la scossa, e nelle vene
     555Tornò al sangue il color, per cui del monte
     Poggiammo all’erta con men dubbia spene.
Ivi dappresso a una turbata fonte
     558Vidi all’Ispano Pier del Tempio sacro
     Diroccati ambo i lati, e l’ampia fronte,
E dell’acque sorgenti entro al lavacro
     561I traportati, e pel terren tumulto
     Confusi avanzi insiem del simulacro.
Sovra un marmo sedemmo ancor non sculto,
     564Scelto del fonte a intonacar la sponda:
     Ma, oimè! che acerbo a noi crebbe il singulto
Dal sommo in rimirar nella profonda
     567Sua foce enfiato il Tago, e l’Oceáno
     Scorso su i lidi altissimo coll’onda.
Divorò il flutto i fuggitivi invano
     570Dagli agitati colli uomini e belve,
     Scampo cercando su più fermo piano;
E col moto, onde avvien che il mar s’inselve
     573Gonfio, in secchie portò non mai solcate
     Le armate navi entro l’opache selve.
Volgemmo il mesto sguardo all’atterrate
     576Case, e di sotto alle ruine sparse
     Nubi scorgemmo d’atro fumo ombrate
In mille giri verso il ciel levarse,
     579Che orribile ne diér prova, che tutte
     Quell’estreme dovean spoglie esser arse.

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La Guida allor: Deh! chi fia mai che asciutte
     582Serbi, gridò, le luci? E chi daramme,
     Che sian le mie dal lagrimar distrutte?
Qual gente altra inghiottì l’ultime dramme
     585Dell’ira eterna, e insiem provò nemica
     L’aria, la terra, il mare, e poi le fiamme?
Or poichè il gran dolor, che l’Alma implica,
     588Nudron sì atroci obbietti, ah! si ritorni
     All’erma, ch’io lasciai, mia sede antica;
Chè men sarò infelice, ove non torni
     591Più sotto gli occhi miei vista sì cruda,
     E amari avrò, non disperati, i giorni.
Così spiegando quanto grave ei chiuda
     594Lutto nel sen, scese dal colle duro,
     E per l’erbosa via d’alberghi ignuda
Supero meco il rovesciato muro
     597Della Cittade oppressa, i piè volgendo
     Alla campagna, onde pria mossi fúro.
Sconnessa ivi dal doppio urto tremendo
     600Del suol s’offerse la magion, che meta
     Tranquilla fu del mio naufragio orrendo:
Onde, poichè timor saggio ne vieta
     603Sotto l’aperta e minacciosa volta
     Trar vita almen securamente queta,
Alzata fu d’inteste lane folta
     606Guerriera tenda, dentro cui la salma
     Stanca giacesse da’ rei dubbj sciolta;
Ma nè in quel loco pur conforto, o calma
     609Trovò la Guida mia, chè fra gli amari
     Colpi del duol, che trafiggeangli l’Alma,
Tratto tratto dicea: Noi fummo avari
     612Di pianto atto a impetrar da’ sommi chiostri
     Grazia e pace; or la pena è all’error pari.

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Oimè! Giustizia estrema avvien che mostri
     615Il colmo del rigor. Oimè! che lassa
     Pietà fu vinta alfin dai falli nostri.
Risposi allor: L’affanno idea sì bassa
     618Desta in te di Pietade, ed il suo immenso
     Valor, che pria lodasti, indietro or lassa,
Ma sgombro il vel di cecitate denso,
     621Che l’afflitta ragion turba ed appanna,
     Tu penserai, come col vero io penso,
Il peccar dolce, che col falso inganna
     624Piacer le umane menti, infiamma, e affretta
     L’ultrice ira, che l’opre empie condanna;
E ben pronta al fallir n’avría vendetta,
     627Se Dio da noi l’immortal Figlio offerto
     Non riguardasse, ostia a placarlo eletta.
Or questo scudo in sua virtù sì certo,
     630Che al fulmin sacro al balenar vicino
     Niun contra noi varco mai scopre aperto,
Schiude allo struggitor lampo il cammino,
     633Se profanato il Tempio mira, ov’egli
     Vittima cadde al Genitor divino;
Ed ahi! squallidi allora, e coi capegli
     636Di cener lordi invano i padri e gli avi
     Cercan chi il seme lor spento risvegli:
Ma pur fra il giusto scempio alzando gravi
     639Gli occhi di pianto al Ciel chieggon umíli
     Grazia e perdon, ch’ogni lor colpa lavi.
Or parran questi a te modi aspri e ostili
     642Della diva Pietà, che a sè richiama
     Con forte spron noi servi ingrati e vili?
Fora sommo rigor di lei, che n’ama,
     645Se appien lasciasse inverminir le piaghe,
     Che impresse in noi la scellerata brama,

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Sì che dell’Uom le iniquamente vaghe
     648Voglie giugnesser là dove d’estinta
     Fede l’Anime ree vantansi paghe.
Non fu scema Pietà dunque, nè vinta
     651Dalla Giustizia estrema; anzi essa illesa
     A combatter per noi mostrossi accinta.
Gli empj rapì, cui, se più a lungo stesa
     654La vita fosse, avría l’eterno lutto
     Maggior recata in maggior falli offesa;
E agl’innocenti il carcer lor distrutto,
     657Gli accolse amica in que’ beati liti,
     Ove ognor verde è di letizia il frutto,
E tal ne’ spirti fra le colpe arditi
     660Esempio ai vivi diè d’immagin fiera,
     Ch’altri non più l’altrui delitto imiti.
Sorse, mentr’io dicea, l’umida e nera
     663Notte, e col manto suo di stelle nudo
     Coperse il giorno di lugubre sera;
Giorno, cui par non nacque altro più crudo.

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ANNOTAZIONI

ALLA SETTIMA VISIONE.




Pag. 133. Offre il Profeta a me, che dall’ondoso
Cobarre fu pel crin su l’aure chiare ec.

Questi è il Profeta Ezechiele tratto in ispirito a vedere le sacrileghe abbominazioni, che commettevansi dagli Ebrei nel Tempio di Gerusalemme, per le quali egli predice a quel popolo sciaurato l’ultimo eccidio come si vede al Capo VIII della sua Profezia. Prende quindi l’argomento il nostro Autore di attribuire la desolatrice calamità occorsa a Lisbona per l’orribile terremoto da lei sofferto l’anno 1755 di attribuirla, dissi, al poco rispetto che hanno, o avevano i Portoghesi per le Chiese. Nè già di sua invenzione gli accagiona egli di questa colpa. Ecco quanto sopra ciò scrive il Padre Caimo Milanese nel tomo III delle sue Lettere stampate in Pittburgo l’anno 1764 col titolo: Lettere d’un vago Italiano ad un suo amico. Nell’ultima lettera del terzo tomo colla data di Lisbona al 19 giugno 1756, dice appunto così: ”Non sono meno intolllerabili certi altri abusi (de’ Portoghesi), come sono il ragionar nelle Chiese con piena libertà di differenti interessi: quel coprirsi che fanno le donne nell’atto di confessarsi col mantello che copre il Confessore; ed altre mancanze ignote in altri paesi, per cui la disciplina Ecclesiastica dovrebbe bene far sentire tutto il peso del suo rigore“. Così egli. Ma or sia per questo peccato, or sia per altri, gli è sempre vero il detto di Sant’Ambrogio, Sermone 85: Civitati, non nisi [p. 147 modifica]propter civium peccata infertur excidium. Per altro è assai nota la pietà Portoghese, e la fermezza sua nella Cattolica Religione, per non dovere da questo castigo scemare il credito e la stima di quell’inclita Nazione, che ha dati in ogni tempo i più illustri esempj dell’incontaminata sua Fede. Ma ben si sa, che in un popolo e in un regno, anche il più regolato e pio, troppo è facile per l’umana fiacchezza l’introdursi qualche vizio o disordine, cui Iddio vuole sterpare con punizione anche severa a correggimento de’ colpevoli, e a rendere costanti e più fervorosi nel bene i Giusti.

Pag. 136. Ascese appena, che s’udìo tal voce:
Empi l’aureo incensier della grand’ira,
Che la mia sveglia in me schernita Croce;

Il pensiero dell’Autore è tolto opportunamente dal testo dell’Apocalisse Capo VII: Accepit Angelus thuribulum, et implevit illud de igne altaris, et misit in terram; et facta sunt tonitrua, et voces, et fulgura, et terraemotus magnus.