Viaggio sentimentale di Yorick (Laterza, 1920)/LVII-LVIII. Il frammento

LVII-LVIII. Il frammento

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Laurence Sterne - Viaggio sentimentale di Yorick (1768)
Traduzione dall'inglese di Ugo Foscolo (1813)
LVII-LVIII. Il frammento
LVI. Le dimanche LIX. Il frammento e il bouquet
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LVII

IL FRAMMENTO

PARIGI

E a me pure lasciava La Fleur, oltre ogni nostro patto e speranza, di che divertirmi per tutto quel giorno.

Recandomi a casa il burro sovra una foglia d’uvaspina in ora assai calda, e dovendo fare piú di tre passi, impetrò dal bottegaio un foglio di cartaccia da frammettere tra le foglie e la mano. Or come giunse, gli dissi che posasse ogni cosa a quel modo, da che si poteva far di meno del piatto; e ch’io me ne starei tutto il dí in casa: però mi facesse dal traiteur allestire da desinare, e se n’andasse con Dio, perch’io mi sarei a colazione servito da me. [p. 118 modifica]

Poich’ebbi finito, gittai la foglia dalla finestra, e avrei gittato anche quella cartaccia: se non che, correndo cogli occhi sul primo verso, m’invogliai del secondo e del terzo, e mi parve peccato a gittarla. Trassi una seggiola accanto alle invetriate, le chiusi, e mi assisi a leggere.

Era in istile francese di quel vecchio del tempo di Rabelais; e, se non temessi di dir male, direi che ne fu esso l’autore. Era inoltre in caratteri gotici, e sí sbiavati dall’umido e dall’età, che ebbi a penare a cavarne costrutto. E talora lasciai da parte quel foglio, e scrissi una lettera ad Eugenio; lo ripigliai, e tornai all’agonia dell’impazienza: ed io per guarirne, scrissi una lettera a Elisa, ma col pensiero vicino sempre a quel foglio, perché la difficoltà m’istigava a diciferarlo.

Desinai; e, poiché una bottiglia di prelibato vino di Borgogna mi ralluminò l’intelletto, mi ci misi piú di proposito: e, dopo tre ore di meditazione indefessa (Gruttero e Iacopo Spon1 non si stillarono forse tanto il cervello sopra una melensa iscrizione), parvemi d’avere una volta còlto nel segno. Ma, per accertarmene, giudicai di tradurlo in inglese, e star a vedere che n’escirebbe; e cosí a mio bell’agio, come chi si trastulla, tradussi or una sentenza, or un’altra: e poi me n’andava su e giú per la camera, e alle volte guardava da’ vetri chi andava e veniva: si che battevano le nove della sera, ed io non aveva per anche finito. E, quando a Dio piacque, rilessi come segue:

LVIII

FRAMMENTO

Sendo che la mogliera del notaio s’incagnasse ad misdire et contradiare al notaio, il notaio si gettò a piedt la perghamena et disse: — Harrei caro vi fussi uno altro notaio ad rogare et [p. 119 modifica] testimoniare ogni cosa. — Et la mogliera del notaio, sí come colei che era uno cotal turbinio di feminella aizzosa, disse al notaio:

— Et allhora che vorrestù fare, messere? — Disse il notaio: — Vorre’ n’andassimo a letto: — lo che disse, stimando con una parola buona si diradassi quel tempo nero. Disse la donna: — Va’, dormi col diavolo. — Advegna idio che, affuori uno, non fussino in casa il notaio altri letti: et le altre due camere etiandio, secondo la usanza di Parigi, non havessino masseritia; il notaio, al quale non tornava di giacersi allato a una donna che havealo che è che è dirottamente mandato ad casa il dimonio, si tolse lo cappello et la mazza, et recatasi indosso la cappa (Christo vi guardi di sí fatta notte piorna et ventosa) sí si parti; et, camminando ad disagio, capitò al Ponte nuovo. Il quale, di magnificentia et vaghezza et grandezza et elegantia et larghezza, oltre ad chentunque ponte che adgiunga terra a terra nel cerchio de la mole terracquea, è bellissimo2. Con ciò sia cosa che né anche i nostri theologhi et sancti doctori de la Sorbona possano apporgli reitade; salvo che a pena trahe sí poco alito di vento, che gran mercé che tu n’empia un beretto, il Sacredieu disquilla di bocca a christiani piú blastemmevolmente sopra decto ponte che in qual si voglia altra gola della città. Et come che dicano e’ predecti maestri rigidi et buoni, essere reitade pessima questa, dico: che il vento dà addosso ad ogni christiano, et non che gridi: — Bada ad te, — fistia alla impensata; attalché, se, di cotanti che da buon massai valicano il ponte in zucca, sessanta soli per paura d’assiderare si tenessino in testa lo cappello, si giocherebbono a zara soldi cinquanta de’ piccioli, ché tanto dee bborsare al dí d’hoggi chiunque harrà voglia di buon cappello. Laonde al notaio cattivello, che veniva rasente la sentinella liviritta, et sollevava, da naturale advedimento mosso, la mazza ad calcarsi lo cappel ne la nuca, incontrò che la ghiera de la mazza s’appicciò ne lo cappio de lo cappello di detta sentinella, lo quale, [p. 120 modifica] come havesse alie, volò, che il notaio non se n’avide, da le ferriate del ponte; bensi, come aliava su le acque de la Senna, avidesene un navicellaio dabbene, et sí lo raccolse dicendo: — Tristo è ’l vento che non reca che che sia a chi che sia. — Ma il soldato, che guascone era, s’arroncigliò di subito le basette, et impostò lo archibugio, salvo che non si trovò allato la miccia3; advegna che una vecchierella, a la quale a capo del ponte s’era spento uno suo lanternino, avesse accattata, tanto che potesse ralluminârlo, la miccia dal soldato; et il sangue di costui hebbe agio ad freddarsi, et dove imprima intendeva che il notaio desse de’ calci ad rovaio, s’advisò d’altra maniera ad lasciare ire il notaio, et fare tutta fiata suo pro. Imperò acchiappò di capo al notaio lo cappello, a legittimagione del bottino allegando lo dettato di esso navicellaio: — Tristo è ’l vento che non reca che che sia a chi che sia. — Lo sciaurato notaio valicò il ponte, et, come Io conducevano e’ piedi, passava per la via che in Parigi dicono de lo Delfino nel borgo di Sancto Germano; et, ne lo andare, rammaricavasi con esso seco, dicendo: — Oymei, oymè dolente, oymè tristo, oymè gramo, oymè nato per vivermi abburattato da le burrasche; et tempestato da la gragnuola de le male lingue, le quali per l’arte mia mi saettano in piazza et in casa et in chiesa; et constretto da li fulmini di sancta Chiesa a le sponsalitie con una bufera di femmina; et sfolgorato di casa mia da rovai domestici; et lasciato cosí in zucca da pontifici. Dove me n’anderò io pezzendo al buio, al sereno, al maltempo, et balestrato hor qua hor là dove con piú dura riotta mareggia fortuna? Dove ti adagierò io, o mia povera testa? Hay huomo malarrivato nel mondo! Ma a la croce d’Idio, né unque a Dio piacerà che sol uno, non fussi altro, da li trentatré punti de la bussola non mi spiri vento gratioso, sí come a tante altre creature? — Sí tapinandosi, s’advenne ad brancolare per entro uno cieco tortuglio; né sappiendo dov’e’ si fosse, gli venne udita una [p. 121 modifica] voce che chiamava la fante, perché corresse per lo piú vicino notaio. Onde che il notaio, con ciò sia cosa che vicinissimo si trovasse, senza altro aspettare, giudicò ben fatto di salire, come che a tentone, per l’uscio onde la voce veniva. Et la fante, menandolo attraverso una caminata, condusselo in una camera grande, la quale, oltre una alabarda, una lorica, un vecchio rugginito spadone et una tracolla, appiccati con pendagli ne le quattro pareti l’uno a rincontro de l’altro, altri addobbi allhoramai non havea. Et sopra il lettuccio giacea uno vecchione canuto, il quale fu et, se col tramonto de la fortuna non s’obscura etiandio la nobilità del sangue, era tuttavia gentilhuomo; et d’una mano si facea sostegno a la testa. Era accanto al lettuccio uno deschetto sul quale ardeva una lucernina, et quivi presso una scranna, su la quale il notaio senza far motto adagiatosi, et toltosi di cintola il pennaiuolo, acconciò innanzi a sé il calamaio et due fogli bianchi che si trovava bavere indosso; et come hebbe intinta la penna, si curvò col petto sul desco, stando in orecchi ad udire et scrivere le volontà extreme et il testamento del gentilhuomo. Il quale, sorreggendosi alquanto su l’origliere, parlò: — Lasso me! tu di certo, messer lo notaio, non sai com’io, non che possa far lasciti, mi veggio morire senza havere di che satisfarti del testamento. Ma quanto piú posso ti priegho che tu comporti questa fatica di scrivere la mia hystoria; per ciò che, come che ferventemente io desideri di andarne hoggimai dove a Dio piacerà, non chiuderò in pace questi occhi se non lascio per heredità al mondo la hystoria mia, la quale ha letta da ogni huomo che vive, cotanto è fiera et diversa; et ad te in mercede de la scrittura, tanto ch’io detto, lascierò per legato il guadagno che divulgandola ne trarrai; di che senza niun dubbio farai ricco te et casa tua. — Il notaio ritinse di botto la penna nel calamaio. Et quel canuto levando gli occhi pietosamente et stendendo al cielo le palme, adorò tacito alquanto, poi disse: — Onnipotente direttore di tutti i casi della vita mia, il quale vedi per che labyrinto lunghissimo di disastrosi sentieri et a che extremità et disperata desolatione m’hai di tua mano condotto, oh mio Dio, soccorri a la inferma [p. 122 modifica] memoria d’un vecchio moribondo et che ha il cuore dilaniato; diriggi la mia parola con lo spirito eterno de la tua verità, affinché questo forestiero non debbia scrivere sol una sillaba che non sia hoggimai notata nel libro de’ tuoi ricordi, per li quali — et in questo dire giunse le mani et con voce alta gridò — io sto per essere o condannato o assoluto. — Et il notaio sollevò la punta de la sua penna tra rocchio suo et la fiammella: al quale il vecchio, dopo alcun silentio, disse: — Messer lo notaio, tu scrivi una hystoria per la quale la natura agiterà le viscere de la misericordia ne gli huomini, et spezzerà i cuori pietosi, et obbligherà al pianto fin anche la crudeltà. — Il notaio infiammava, et gli parea mill’anni di scrivere, et ritinse un’altra fiata la penna: et il vecchio gentilhuomo, vòltosi con la persona al notaio, et la hystoria dettandogli, cominciò4  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

— E il rimanente? — diss’io — ov’è il rimanente, La Fleur? — Perché La Fleur per l’appunto tornava nella mia stanza.

Note

  1. Antiquari [F.].
  2. E’ pare da ciò che il frammento non sia di scrittore francese [A.].
  3. Agli archibugi d’allora bisognava la miccia a dar fuoco [F.].
  4. Yorick non tradusse questo frammento in inglese antiquato; ma io, Didimo, volendo pur dedicare a’ maestri miei alcun mio tenue lavoro, che, come frutto delle loro lezioni, riescisse di lor gradimento, colsi quest’occasione ed imitai le orazioni e le storie ch’essi all’età nostra vanno gemmando de’ piú riposti gioielli di fra Giuda e del Semintendi. Ma perché, da questo frammento in fuori, il libricciuolo è dedicato alle donne gentili, le quali al parroco Yorick e a me, suo chierico, insegnarono a sentire e quindi a parlate men rozzamente, io per gratitudine aggiungerò questo avviso per esse. La lingua italiana è un bel metallo, che bisogna ripulire della ruggine dell’antichità e depurare della falsa lega della moda; e poscia batterlo genuino, in guisa che ognuno possa riceverlo e spenderlo con fiducia; e dargli tal conto che paia nuovo, e nondimeno tutti sappiano ravvisarlo. Ma i poverelli, detti «letterati», non avendo conio proprio, lo accattano da fra Giuda, e mordono per invidia chi l’ha del suo; e i damerini, detti «scienziati», piangono ipocritamente, dicendovi che la povertà della lingua li stringe a provvederla di fuori. I primi non hanno mente, gli altri non hanno cuore; e non avranno mai stile [F.].