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102 | viàggio d’un pòvero letterato |
Quelle feminette lavoràvano in silènzio, immòbili, con ràpido muòvere delle mani. Non so perchè quelle mani pure, ma sùdice, mi fècero venire in mente le mani impure di quella cortigiana, laggiù al caffè dell’Arena.
Sì, ella levàndosi, mi aveva sussurrato, «Venite?», offrèndomi indifferentemente il resto della sua notte immonda.
Ed io la avrei anche seguita: ma era l’alba, l’ora delle cose pure, l’ora che i bimbi dòrmono ancora. E poi c’era quell’arrière-goût di fègato con cipolla.
L’ostessa aveva apparecchiato in una spècie di giardinetto con una grossa tovàglia spighettata, che sapea di fresco odor di lavanda, e vi avea posato un fiasco di vino bianco, che pel collo sottile aveva le graziose bollicine, che andàvano su e giù. Gran quiete e solitùdine. E allora pensai a quell’antica istituzione che èrano i conventi antichi: una specie di fortezza spirituale, dove i flutti mondani si venìvano a fràngere. Quivi oh, lievemente vìvere, trascòrrere caldi e geli! Ebbene, quando sarò a Pisa, domanderò in una biblioteca, il De òcio religiosorum, che non avevo mai letto.