Viaggio di un povero letterato/V
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Capìtolo v.
BOLOGNA DI NOTTE.
Arrivo a Bologna da Verona; ore dodici e dieci minuti dopo la mezzanotte. L’Hôtel Moderne, o Hôtel Bologna, o Bologna meublé, o comunque si chiama, è tutto occupato.
— Aspetti bene una mezz’ora, — mi dice un personàggio tutto stilizzato, tutto esòtico, ma con un accento così bolognese che era impossìbile rèndere esòtico. — C’è un signore in partenza, e le faccio sùbito mèttere in òrdine la càmera.
— Merci, monsieur le concierge; e nel frattempo andremo a bere una birra.
Cara, vècchia Bologna, me ne congràtulo per te, e mi dispiace per me. Ti vai stilizzando troppo, e ogni anno di più, ogni anno più esòtica, più Milano; ed io non ti riconosco più. Sei volata via, vècchia Bologna? Vècchia torre degli Asinelli, se hai giudìzio, va là, cadi giù: e anche voi, vècchie torri, cosa ci state più a fare costassù ritte? Dolce San Michele in Bosco, e tu, colle dell’Osservanza! Odor di viole in marzo; in autunno, odor di gaggie. Voi, gente del pòpolo che dicevate: «Torsoà, servitor suus!»; e voi cittadina gente cortese che dicevate, al più lieve urto: «Ehi, ch’al scusa! scusi bene!», dove siete voi? Tagliatelle, che parèvano avere odore di carne dolce di donna, dove si mangiano più? Siete andate via, dolcezza della vita?... O sono andato via io?
Sei andata via tu, vècchia Bologna, o sono andato via io? Questo era il problema che io meditavo andando a bere la birra.
Ma il vècchio caffè dell’Arena del Sole c’era ancora come ai bei tempi. Probabilmente da allora ad oggi non si era mai chiuso, anche per la ragione che manca di porte. Anche l’abitùdine gaudiosa di mangiare tra l’una e le due dopo mezzanotte, era rimasta. Però la vècchia sàpida birra Ronzani non si vende più.
— Spiessbraü! — mi avvertì il cameriere, stilizzato anche lui.
— Quella acquosa amaritùdine tedesca, che si fàbbrica in quella città?... No, io non la berrò! Un gelato, allora! Ma sapeva di melassa, quel gelato.
Guardavo attorno. Giovanotti eleganti, uòmini grigi e bianchi, teste chiomate e crani pelati, frammisti a donnine galanti ed eleganti, sotto la luce bianca delle làmpade elèttriche, presso la gran distesa delle tàvole imbandite, sedèvano, si movèvano, conversàvano con amàbile tranquillità. Ma è notte! «Fàcere de nocte diem, far del giorno la notte — mi disse il dottor Balanzone — bononiense est, è cosa bolognese. E poi non vedi? È finito da poco lo spettàcolo, qui presso, all’Arena del Sole.»
Probabilmente sono andato via io.
«Non ti ricordi — dissi a me stesso — la gran passione che avevi anche tu pei drammi su la scena?»
Chiusi gli occhi e la rividi ancora la Arena del Sole, data agli spettàcoli diurni, in un pulvìscolo d’oro e di pòrpora. Tutte le gradinate gremite di donne in pepli bianchi. Intensi silenzi, grida per l’anfiteatro alla passione del dramma. Ma poi, calato il sipàrio, negli intervalli, era tutto un rosicchiar tranquillo di brustolini. Ma allora io non sentivo il cricchiare dei brustolini; e i pepli bianchi non èrano altro che i corpetti delle lavandàie. Allora io ero un fanciullo come è il pòpolo, il quale non sente il dramma se non lo vede su la scena.
Oh, mio stupore, allora, per l’attrice Teresina Mariani! Era ella un’adolescente bionda che recitava la parte di Ofèlia e Fuoco al Convento, con un’ingenuità deliziosa.
Ricordo che mi fermai una volta a rimirarla lì, ad una tàvola del vicino caffè, mentre mangiava. «Màngia! La pàllida Ofelia màngia!»
«Sì, idiota, le pàllide Ofèlie màngiano, e qualche volta mangiano anche gli uòmini vivi.»
Poi Teresina Mariani impinguò; faceva su la scena le parti spudorate di cocotte. Poi, morta!
E perchè, dopo Teresina Mariani, mi balenò davanti la testa chiomata di Quìrico Filopanti?
Perchè dietro il Caffè dell’Arena, c’è la Piazza dell’otto Agosto, dove nel 1849 furono scacciati gli austrìaci. Quìrico Filopanti ogni anno, arringava il pòpolo. Rivedo una folla di pòpolo e, sopra la folla, l’àbito nero e la tuba di Quìrico Filopanti. La sua misèria era spettrale: ma àbito nero e tuba. Doveva èssere ancora l’àbito che indossò quando fu deputato della Costituente della Repùblica Romana nel 1849. Ma non importa: àbito nero e tuba! «Pàtria, onore, eroi, repùblica clàssica,» èrano le sue parole. E poi «le stelle», perchè Quìrico Filopanti si occupava anche di Dio e delle stelle. Tutte cose che non ùsano più.
Sentii allora una grande compassione anche per Garibaldi. Perchè?
Perchè sopra quell’esposizione di tàvole imbandite all’aperto, si vedeva sòrgere il monumento a Garibaldi. Pòvero Garibaldi, costretto, nella sua immobilità di bronzo, su quel cavallo lungo da scuderia inglese, a guardare lì, tutte le notti, istrioni e cocottine, gaudenti e impenitenti.... Ti senti la vòglia di dar di sprone al tuo cavallo? Prima di te c’era lì il monumento di quell’altro pòvero eroe, col bràccio teso: Ugo Bassi. E poi hanno messo te, Garibaldi! Va là, va via, Garibaldi! Ah, triste sorte degli eroi! Triste sorte anche delle piante! Vògliono dormire e non pòssono. La luce elèttrica le acceca e le brùcia tutte, le pòvere piante....
Quante donnine van girellando per queste tàvole! Chi saranno?
Vècchie attrici che hanno navigato; artiste erranti che navigheranno; fanciulle senza famìglia, senza focolare, con un pìccolo bagàglio qua e là, un amante qua e là. Tutta un’amàbile promiscuità.
Qualcuna parla un po’ forte, e in realtà ha la voce flautata e profonda del palcoscènico. Qualche piccina discute in grande stile. Qualche bocca a cuore ride con perversa intelligenza. Un sospiro, un giudìzio d’arte teatrale, intercalato con il vocale badinage bolognese: «Mo che nervous tutt’incò! Offrìtemi una gita in automòbile». Ròmpono lo sbadìglio mutando tàvola; si accostano all’uno e all’altro; màngiano con gràzia pìccole cosine: un banano, un fritto dolce, taiadlein con l’odore caldo del ragù. Una, pàllida, immota, pare fissa nella punta della sua scarpetta. Mi manda il fumo oppiato di una sigaretta. Un giovinetto le deve aver detto: «t’amo», perchè colei risponde forte: «t’amo, t’adoro come la salsa di pomidoro». Riprende a fumare con le labbra sprezzantemente cascanti.