Venti vite d'artisti/Giovambattista Gelli a Francesco di Sandro amico suo carissimo

Giovambattista Gelli a Francesco di Sandro amico suo carissimo

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Giovambattista Gelli a Francesco di Sandro amico suo carissimo
Proemio Cimabue da Firenze

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Giovambattista Gelli

a Francesco di Sandro amico suo carissimo.

Infra tutte le arti, Francesco mio honorando, che ànno ritrovate gli huomini così per necessità e per potere bene et agiatamente guidar la vita loro, come per cavarne qualche piacere e qualche delettazione, furono sempre in grandissimo pregio e molto stimate l’architettura la scultura e la pittura, l’una come al tutto necessaria e l’altre1 non solamente come delettevoli, ma come utili ancora, con ciò sia cosa che con le loro opere si rapresentino inanzi agli occhi de’ mortali le immagini di coloro che per le loro virtù sono stati onorati et avuti in grandissima venerazione, et di quegli similmente che per i loro vizii sono stati biasimati e avuti in dispregio; la qual memoria ai buoni et saggi è uno sprone pungentissimo che con lo amore de le virtudi gli spigne a alte et gloriose imprese, et agli stolti uno freno che con il timore della pena gli ritiene da il male operare. Queste arti furono da i Romani ne le loro maggiori felicità e grandezza molto aprezzate, nel quale tempo (secondo che fanno fede le riliquie de’ maravigliosi edificij che ancora oggi si veggono in Roma, e le statue, e [p. 10 modifica]le pitture che ne le grotte de’ monti si sono ritrovate) pare ancora che elle fussino nel supremo grado de la loro perfezione (nel quale mercè degli ingegni fiorentini pare che elle sieno ancora oggi ritrovate). Ma mancando dipoi (come fanno tutte l’altre cose del mondo che son poste ne le man de la fortuna) et scemando appoco a poco lo imperio romano, vennono ancora elleno a poco a poco a mancare. Et oltre a di questo passando dipoi in Italia molte genti barbare et rozze, et che ànno poco altro d’huomo che la fighura di fuori, come furono i Goti et gli Unni et Vandali et molte altre genti efferate e bestiali, le quali non solamente di simil cose non si dilettono, ma non avendo nè scienzie, nè cognizione alcuna di quelle, forse mossi da la invidia che suole molte volte in simili genti regnare, cominciorno queste arti et le opere fatte dai loro artefici e spegnere et levar via, stimando essere molto disonorevole che si avessi a ritrovare cose che sopravanzassino il sapere et lo ingegno loro. Et spargendosi queste così fatte genti per tutta la Italia cominciorno imparentandosi a mescolarsi con noi, per il che il nobile et gentil sangue italiano cominciò a ingrossare e divenire rozzo et grosso et a produrre i spiriti non più atti a fare gli ingegni acuti et sottili e conseguentemente non più vaghi di così belle et valorose imprese. Aggiunse non poco danno ancora a questo la stolta oppinione di alcuni pontefici, che furono in que’ tempi, che, guidati da una vana superstizione et non da il vero amore della cristiana religione come e’ si credevono, cercarono ancora eglino di levar via le statue et le altre opere dei gentili (che così chiamavano i Romani) come cose dannose alla cristiana professione, come se la natura non facesse bene spesso molto più begli huomini così maschi come femmine che non fa l’arte, et come se in quegli come in fatture di Dio con sua gloria et onore riguardando non si potessi senza peccato alcuno pigliar continuamente piacere et diletto; per le quali [p. 11 modifica]cagioni gli huomini in processo di tempo divennono di maniera grossi rozzi et ghoffi, e particularmente in queste arti, che non edificavono più cosa alcuna se non di quella maniera che si chiama oggi tedescha con certe colonne et viticci lunghe e sottili senza misura o proporzione alcuna, et con certi capitegli senza alcuna arte o grazia faciendo talvolta per reggimenti o per mensole certe fighure che avevono più aria di mostri che di huomini. Scolpivono ancora certe statue, benchè e’ vedessin de l’antiche, et ancor degli uomini stessi (i quali dovevon almen ritrarre, sapendo che altro non è arte che una immitatrice de la natura) che avevon più similitudine d’ogni altra cosa che di huomini, come può ben vedere ancora oggi chi ragghuarderà quelle fighure che sono sopra la porta principale della nostra chiesa di santo Pagholo, le quali certamente se non fussino loro parute belle non l’arebbon poste in quel luogho, essendo stata quella chiesa secondo che si legge in certe lettere poste sopra la cappella maggiore con tanto favore edificata et consagrata da san Zanobj vescovo di Firenze al tempo di Chonstantino inperadore. Non si vedevono ancora in que’ tempi altre pitture che certe fatte da alcuni Greci, le quali paion fatte tutte in sur una stampa co’piedi per lo lungho appiccati al muro et con le mani aperte e con certi visi stracicati e tondi con occhij aperti che parevono spiritati. Et così stettero smarrite queste arti per insino agl’anni, a circa agli anni del Signore milledugento settanta, nel qual tempo cominciò in Firenze a risucitare l’arte della pittura per le mani di Giovanni da Firenze cognominato Cimabue, come noj mostrerremo di sotto ne la sua vita, sotto la disciplina del quale cominciò dipoi Giotto e doppo lui molti altri a disegnare et a ritrarre gli edificij et le statue antiche e dipoi d’in mano in mano i corpi naturali di maniera che per insino a oggi sono tanto andati in là, che non sono solamente arrivati al termine degl’antichi, ma secondo alcuni gli ànno passati. Et di [p. 12 modifica]questo fa manifestamente fede il banbino fatto di mano di Michelagnolo Buonarroti cittadino fiorentino, il quale essendo ritrovato in un luogho dove era stato sotterrato fu venduto al cardinale di Ferrara, il quale dava molto opera di avere simili cose antiche et belle, per un prezzo grandissimo, il quale era tanto stimato da lui et tenuto in tanta riputazione, che quando e’ mostrava quelle sue antichità a nessuno mostrava utimamente quello per la più bella et più preziosa cosa che egli avessi. E di tutto questo come io vi ò accennato di sopra sono stati principalmente cagione gl’ingegni fiorentini primieramente ritrovando come si è detto la pittura di già perduta, et dipoi trapassando tutti gli altri et di numero di gran lungha e di eccellenza ancora che in simile arte si sono exercitati. La qual cosa non contradirà già mai alcuno che considerrà solamente che Michelagnolo Buonarroti è fiorentino, da il quale oggi non si verghogna alcuno di qual si voglia natione di imparare, anzi vanno oggi i ritratti et i modegli delle sue fighure et delle sue opere per tutto ’l mondo, et molto più sono aprezzati et rittratti et immitate le cose sue che non sono le antiche così nella scultura come nella pittura et nella architettura, nelle quali tre arti è egli passati tutti i moderni et equiparati gl’antichi, che così vo dir per reverenzia ancora che da nessuno di loro si trovi che sia stato in tutta tre eccellente come è egli. Et acciò che voi possiate tutto questo che io v’ò detto più chiaramente vedere, io ò brevemente raccolto la vita et alcune de le opere della maggior parte di quegli che si son in queste arti exercitati, i più de quali et migliori come vedrete sono stati fiorentini, sì che e’ non è maraviglia se oggi in Firenze si ritrovono più cose belle in ciascheduna di queste arti che in qual si voglia altra città del mondo, excetto però Roma, la quale per avere ne’ tempi de la sua grandezza spogliato tutto ’l mondo di cose belle, e per essere oggi più tosto un ricettacolo di [p. 13 modifica]forestieri che una città, i quai portono quivi ciò che egl’ànno di bello come a una fiera o un mercato pubrico sperando cavarne maggiori prezzi che in alcun altro luogho, et ò questa mia fatica, tal quale ell’è, voluto indirizzare a voi et per l’amicizia che è infra noi, et perchè io so che molto delle opere di simili arti vi dilettate. Accettatela adunque con quello animo che io ve la mando et amatemj come sino qui avete fatto sempre.



Volendo la natura circa agl’anni del Signore MCCCLX (2) risucitar in Italia l’arte de la pittura, la quale era di già stata perduta circa DC anni, imperò che se bene erono in Italia alcuni Greci che dipignevono, era la loro maniera più tosto un modo di coprire una tavola di colorj che di inmitare le cose naturali come debbe far l’arte, e erono le loro fighure quasi tutte in faccia, come si può ancora vedere in alcune cose che ci restono di loro, et sanza dintorni che somigliassino il vero et sanza rilievo alcuno, di maniera che più tosto parevano pelle d’uomini scorticati o parte di panni distesi in sur un muro, che huomini vestiti et con certi visi e occhii spalancati che parevano più tosto di mostri che di huomini. Ma perchè la natura osserva sempre questo ordine, che così come quando ella à lasciato condurre l’arti e le scienzie ne la loro perfezione mediante gl’ingegni degl’uomini, ella o per ghuerre o per morte d’huomini o per mescolanza di gente barbare e rozze le fa rovinare e quasi dimenticar del tutto, così ancora quando elle sono al tutto rovinate ella produce huomini [p. 14 modifica]che nuovamente le ritrovino e aiutino ritornare a la perfezzion loro, credo io per cagione che gli huomini non andassino tanto in là ne la perfezione ch’eglino non stimassino più non che altro gli idij. Havendo ella adunque lasciato rovinare l’arte de la pittura insieme con tutte l’altre così liberali come meccaniche, insieme con la destruzion de l’imperio romano per la passata de’ Ghoti e Vandali e di molt’altre genti barbare in Italia, et volendo come si è di sopra detto risucitarla elesse per luogho Toscana, dove pare che sieno molti elevati e sottili ingegni, e di Toscana la città di Firenze, la quale indubitatamente è il cuor di quella, onde fece nascere presso a Firenze in una villetta chiamata Vespignano un fanciulletto chiamato Giotto, il quale fu il primo, come si dice nella sua vita, che meritassi questo nome d’aver risucitato la pittura per le ragioni che allora si diranno, ma perchè egli fu levato da ghuardar le pecore quasi miracolosamente ordinando ciò la natura che voleva questo effetto da un cittadino fiorentino, ch’aveva nome Giovanni cognominato Cimabue, il quale egli ancora si dilettò di far simil arte. Tratteremo primieramente di questo Giovanni e de l’opere che egli fece, e di poi Giotto, il qual fu in verità suo discepolo se bene camminò per un’altra via, e delle cagioni perchè egli meritò questo nome d’aver risucitato l’arte del dipignere.

  1. Ms. altra.
  2. Data evidentemente errata dal copista.