Vecchie storie d'amore/II/La salvazione di fra' Gerunzio
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LA SALVAZIONE
di
FRA’ GERUNZIO
Da una cella nel monastero di Pentula frate Gerunzio guardava in basso, lontano, sotto un chiaro lembo di cielo la massa scura di Gerico, né poteva pregar bene Iddio; e interrompeva piú volte le preci rituali con preci sue, angoscioso e lamentevole.
— Signore, che restituisti il vedere a Bertimeo, perché lasci cieca l’anima mia? Perché tu, che risuscitasti Lazzaro e il figliolo della vedova, non risusciti a te l’anima mia? Perché dai miei occhi non sgorgano lagrime degne di grazia come le lagrime del ladro e dell’adultera e io perdo, senza che tu m’aiuti, l’anima mia? Non mi abbandonare, Signore! Fa, Signore, ch’io oda la tua voce, la stessa mia voce nelle mie orazioni; fa che io le senta, che io senta nell’anima le mie colpe come tu su la fronte le spine de’ Farisei! —
Da una torre di Gerico la città degli amori e delle rose una schiera di colombi levò il volo e delineò nell’alto il giro della città; ma alla veduta di quella tenue candida fila nel cielo azzurro e di quel cielo azzurro il monaco Gerunzio rimase intimidito quasi a un ammonimento muto quasi a una minaccia divina; e chinò gli occhi a terra.
Allora, di súbito lí innanzi a lui, stesa a giacere, vide una femmina nuda. Come lucide le chiome nere! Come freschi i fiori del seno turgido! Vezzi di vergine, riso di peccatrice, beltà d’una dea: era piena di grazia e rideva, tutta nuda.
Tale da piú tempo il tormento di frate Gerunzio. La notte, nelle lunghe tenebre e nei brevi sonni, aveva torbidi sogni di laidezza, turpi, nefandi, e al risvegliarsi provava un senso di stanchezza, di nausea, di esecrazione per quella sua carne che in guerra collo spirito riusciva a vincere finché alla prima luce e serenità mattutina, quando sembra che la divinità si ridesti in cuore agli uomini; egli non pregasse e si dolesse e appassionasse; ma quando il sole diffondeva il calore e la vita nel mondo, ecco apparirgli altre, ben altre visioni, limpide, affascinanti, gioiose; ecco ben altre allucinazioni: lusinghiere giovinette nella prima coscienza ed esperienza delle impudicizie maschili; audaci etère sapienti d’ogni voluttà carnale; indulgenti matrone nella piena bellezza del corpo e nella urgente pienezza dei sensi e delle voglie. E ridevano. Di notte era certo lo spirito della concupiscenza che opprimeva la sua volontà sorprendendola nel sonno e nella stanchezza; ma di giorno, allorché volonteroso di bene cercava star tutto intento a sé stesso, quale era la strana forza a cui l’arbitrio suo non poteva resistere? Forse era il rigoglio della virilità, la gagliardia dei muscoli, la potenza imaginativa del cervello, l’istinto che l’impugnava e trionfava; e perciò pregava Iddio così affannosamente e sinceramente. Invano. E una volta, in disperazione, la testa fra le mani, si mise a ragionare in questo modo:
— Ero ricco, e dispersi le ricchezze dei miei padri in elemosine e convertii le pietre preziose in pane per i poveretti: campi e palazzi, cavalli meravigliosi e vesti di seta che movevano ad invidia i poveri e a gelosia i compagni, tutto vendetti a soccorso di orfani e vedove, di piagati e di feriti; e coi miei vini spumanti rimisi vigoria e salute in estenuati ed infermi; e perché mi dicevano bello, digiunai e imbruttii. A tutto feci rinuncia, e adesso vorrei distormi da questa mia carne, che non contengono flagellazioni e disagi, e rendere il mio spirito a Dio. Dio, accogli il mio spirito che si riposi in te! —
Tacque, e poi con viso e con voce di uomo fatto perverso — Non vuole? — disse — . E sia così! — Uscì dal cenobio; si spogliò della tonaca; indossò vesti e pelli, e con l’apparenza di un onesto pastore si diresse alla volta di Gerico.
Difficile via, un sentiero sopra e tra monti scoscesi; ma nessuna fatica, anche piú grande fatica, avrebbe mortificate le membra di frate Gerunzio; niuna violenza di fede e di rimorso avrebbe potuto oramai frenarne il passo il pensiero lo sguardo, ed egli affrettava alla volta di Gerico. I suoi occhi vagavano lungi, ove il Giordano pareva il mare e il Carit argento limpido sotto il sole, o, se il sentiero piegava dietro il dorso delle montagne, si contenevano a vista minore, non brillando meno di gioia, perché da tutto, da un granito e da un salgemma che scintillasse coi colori dell’iride; da un fiore rosso che rompesse il verde cupo delle ginestre; da un uccello di varie tinte che levasse il volo frusciando, i suoi occhi ricevevano e recavano all’anima avvivata e accesa il senso della natura e della vita. E il suo pensiero, già buio nella tribolazione dell’intima battaglia e breve e pauroso nelle racchiuse dee del chiostro, si schiariva a poco a poco in quell’ampia e lieta libertà del mondo, e si estendeva e rafforzava: nell’attività dei nervi e dello spirito il monaco dianzi emaciato dai digiuni e dalle vigilie, affaticato dal misticismo e dalle preghiere e roso dalla bramosia vana della propria dissoluzione, sembrava d’un tratto rifiorire, ritemprarsi di nuovo sangue e inebbriarsi d’aria e di luce come di un vitale liquore. Nell’aperta considerazione delle cose sparivano i terrori della sua mente; s’era svestito del cilicio, ma anche si svestiva del sogno ascetico che gli aveva turbata e traviata la fantasia; ubbidiva allo stimolo dei sensi, ma presentiva il benessere che verrebbe a tutto lui stesso, spirito e corpo, dalla colpa, necessaria e umana colpa, la quale andava a commettere.
Scendeva — le montagne digradando a diventare ubertose colline vestite di palma e dura e tamarigi e pomi di Sodoma — , e come il sole tramontante divampava dietro le vette piú alte, il colle Galgala rimaneva nell’ombra: Gerunzio vi ristette e guardò con tutta l’anima nello sguardo. Ecco Gerico! Ah che il sole stendeva ancora fasci di luce sulla campagna di Gerico, e la città pareva adagiarsi, luminosa, splendida, in un letto d’erba e d’anemoni, rose, viole e narcisi!
Gloria ad Adriano! Torri e templi s’ergevano, meravigliosi giganti, su le rovine di Tito, e la cupola di San Giovanni Battista pareva uno specchio convesso temprato d’oro. La città di Erode, distrutta due volte e due volte risorta, obliava Erode e Jele, e scherniva Giosuè profeta: “Maledetto nel cospetto del Signore l’uomo il quale imprenderà di riedificare questa città di Jerico! Egli la fonderà sopra il suo fígliuol maggiore e poserà le porte di essa sopra il suo fígliuol minore!„
Gerunzio ricordò la imprecazione di Giosué. Ma Rahab, per cui il profeta ebbe sua la città idolatra, non era essa una meretrice? Ed egli entrò allegro in Gerico.
Dietro le antiche terme di Erode, in un freddo e nero angiporto, stavano le meretrici: una su la soglia, poggiata allo stipite e ritta sulla gamba sinistra e con la destra piegata su la sinistra, perché se ne indovinasse la grossa forma; dentro, tre altre, assise su guanciali in procace attitudine e intese a bere un chiaro liquore, ond’erano ebbre, rubiconde e loquaci; un’ultima traeva note da un arpicordo e cantava con voce sommessa. Il monaco Gerunzio, oltrepassando pallido e palpitante, gettò uno sguardo al sito infame e come udí chiamarsi — vieni! — osservò innanzi a sé: nessuno. Si rivolse e, avesse pure avuta dinanzi, per la suburra, tutta una moltitudine, non avrebbe piú scorto alcuno perché scorgeva la femmina che l’aveva chiamato: Vieni!
Colei che stava su la porta si ritrasse quasi per dar luogo a un pezzente, ma l’altra, che era briaca, rise, e lisciando la barba prolissa dell’uomo: — vero — disse —, o pastore, che tu hai buona moneta?
Gerunzio la seguí alla celletta, avido di peccare. Dal basso giungeva come un lamento lontano la voce della cantatrice, e dalla cella vicina un ridere osceno.
Il monaco tese le braccia.
Quando Iddio percuote della lebbra il peccatore, a questo s’impiaga d’improvviso la pelle sí che resta visibile la carne viva, e i peli s’imbiancano su la piaga: corre per le ossa del peccatore un sudor freddo, un lungo brivido, uno spasimo lungo; poi la pelle dove non è la piaga si raggrinza e vi si formano delle tacche bianche verminose e delle croste gialle e fetide. Perciò la vista del lebbroso è orrenda come il tormento di lui, e nel Levitico si legge ch’ei deve avere le vesti sdruscite e il capo scoperto e il labbro di sopra velato, e che deve gridare: — l’immondo! l’immondo! —; perciò il Signore commise a Mosé che disfacesse la casa dell’infetto e riducesse in polvere fino le pietre e lo smalto di esse: chi guarda un lebbroso prova un ineffabile schifo e trema di spavento, perché vede il segno dell’ira divina.
Il monaco tese le braccia; ed ecco che sentí germogliarsi su la pelle, súbito, dalla pianta dei piedi alla sommità del capo, la lebbra maligna: si vide; e la meretrice urlò: — L’immondo! l’immondo! — Ma allora Gerunzio non ebbe piú innanzi a sé una donna nuda; innanzi a sé e in sé finalmente, ebbe e comprese la luce celeste che gli scioglieva la caligine dell’anima, gl’illuminava il cuore e il pensiero colla verità oltremondana lo infocava di fede, lo santificava; e allora cadde ginocchioni e sorridendo e levando gli occhi e le mani tranquillo, sereno, sublime, disse a voce alta:
— Questo castigo, Dio, è la mia salvazione!