Una vecchia amicizia troncata/IV
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Traduzione dal russo di Nicola Festa (1932)
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Capitolo IV
Di quello che avvenne innanzi alla pretura di Mirgorod.
Ma io sono d’avviso che non c’è una casa piú bella di quella in cui risiede la pretura. Se di quercia o di betulla, non mi curo di sapere, ma lí, egregi signori, ci sono otto finestrini! otto finestrini in fila, tutti sulla piazza e su quella distesa d’acqua di cui ho già parlato, e a cui il signor prefetto dà il nome di lago! Quella è l’unica casa colorata in granito; tutte le altre case di Mirgorod sono imbiancate. Essa ha il tetto tutto di legno, che sarebbe inoltre verniciato in rosso, se non fosse che gl’impiegati della cancelleria consumarono l’olio già preparato per dare il colore; lo consumarono dopo averlo condito con l’aglio, cosa che avvenne, come per deliberato proposito, in tempo di quaresima, e il tetto rimase senza colore. Sporge sulla piazza la scala, sulla quale corrono spesso dei polli, perché sulla scala quasi sempre sono sparsi dei chicchi o altra roba da beccare, cosa che non è fatta apposta, ma avviene solo per disattenzione da parte dei postulanti. La casa è divisa in due parti eguali: una per i detenuti, l’altra per la magistratura. In quella della magistratura si trovano due stanze nitide, imbiancate: una è l’anticamera per i postulanti, nell’altra c’è un tavolo, adorno di macchie d’inchiostro; sul tavolo c’è uno specchio; quattro sedie di legno di quercia con le spalliere alte; lungo le pareti sono delle casse cerchiate di ferro, in cui si conservavano a pacchi le carte delle liti giudiziarie. Sopra una di quelle casse si trovava allora uno stivale lustrato con la cera.
La seduta era già cominciata di buon mattino. Il giudice, un uomo piuttosto pingue, per quanto un po’ piú sottile di Ivan Nikiforovic, con una cera bonaria, con una zimarra bisunta, con la pipa e una tazza di tè, faceva conversazione col sostituto. Il giudice aveva le labbra attaccate immediatamente sotto il naso, e perciò il suo naso poteva fiutare il labbro superiore quanto gli piaceva. Quel labbro gli faceva anche da tabacchiera, perché il tabacco destinato al naso quasi sempre si depositava sul labbro. Cosí, il giudice conversava col sostituto. Una ragazza scalza teneva da un lato un vassoio con le tazze. All’estremità della tavola il segretario leggeva la sentenza di una causa, ma con una voce cosí monotona e piagnucolosa, che lo stesso accusato si sarebbe addormentato, se fosse stato a sentirlo. Il giudice, senza dubbio, si sarebbe addormentato prima di tutti, se frattanto non si fosse immerso in una conversazione interessante.
— Ho cercato, con impegno, di sapere — diceva il giudice, sorbendo il tè già raffreddato nella tazza — in che maniera succede che cantano bene. Io avevo un bel merlo, due anni fa. Ebbene? Da un momento all’altro mi si guastò tutto, cominciò a cantare Dio sa che; piú andava avanti, peggio, peggio, peggio! cominciò a stonare, a farsi roco... da far venir voglia di gettarlo via! Ma non era altro che un’inezia! Ecco da che cosa deriva questo fatto. Sotto la gola si forma un bubbone, piú piccolo di un pisellino. Quel bubboncino bisogna soltanto forarlo con un ago. Me lo insegnò Zachar Prokofjevic, e precisamente, se volete, vi racconterò in che maniera andò la cosa: io vado da lui...
— Comandate, Demjan Dervjanovic, che ne legga un’altra? — interruppe il segretario, che da qualche minuto aveva terminato la sua lettura.
— Che? avete già finito di leggere? Cospetto, come avete fatto presto! Non ho sentito niente! Ma dov’è la sentenza? Date qui, che io la firmi. E costí che cosa avete?
— La causa del cosacco Bokitok per la mucca rubata.
— Bene, leggete. Dunque, dicevo, io vado da lui!... Posso anche raccontarvi per filo e per segno come egli mi trattò a tavola. Alla vodka fu offerta una schiena di storione secco, unico! Oh, tutt’altro che lo storione nostro, quello che — a questo punto il giudice cavò fuori la lingua e sorrise, e in quell’atto il suo naso fiutò la tabacchiera perpetua — ...quello che ci regala la nostra salumeria di Mirgorod. Le aringhe io non le mangiai, perché, come sapete, mi producono acidità alla bocca dello stomaco; ma il caviale lo assaggiai: un magnifico caviale! Non c’è che dire, eccellente! Dopo, bevvi della vodka all’essenza di pesca, distillata alla centaurea. Ce n’era anche di quella allo zafferano; ma quella allo zafferano, come sapete, io non l’uso. Però, badate, è molto buona: a principio, come dicono, stuzzica l’appetito, e dopo chiude bene... To’! l’udito per udire e la vista per vedere... — esclamò a un tratto il giudice, vedendo entrare Ivan Ivanovic.
— Dio vi assista! Vi auguro buona salute! — disse Ivan Ivanovic inchinandosi a destra e a manca con l’amabilità tutta propria di lui solo. Dio mio, come sapeva incantare tutti col suo bel garbo! Non ho mai veduto tanta finezza. Egli conosceva molto bene il suo merito, e perciò considerava come dovuta la stima di tutti.
Il giudice in persona diede una sedia a Ivan Ivanovic, e il suo naso aspirò dal labbro superiore tutto il tabacco; ciò che in lui era sempre un indizio di grandissima sodisfazione.
— Che comandate di offrirvi, Ivan Ivanovic? — egli chiese — una tazza di tè?
— No, vi ringrazio molto — rispose Ivan Ivanovic. Fece un inchino e si mise a sedere.
— Una tazzina sola! — ripeté il giudice.
— No, grazie. Sono molto obbligato per la vostra cortesia! — rispose Ivan Ivanovic, fece un inchino e si mise a sedere.
— Una tazza sola! — ripeté il giudice.
— No, non vi disturbate, Demian Demjanovic! — Cosí dicendo, Ivan Ivanovic fece un inchino e si mise a sedere.
— Una tazzina?
— Ebbene, sia pure, magari una tazzina! — disse Ivan Ivanovic, e allungò la mano verso il vassoio.
— Signore Iddio! che inesauribile finezza ha quell’uomo! Non si può dire quale gradevole impressione producono tali gesti!
— Non comandate ancora una tazzina?
— Ringrazio umilmente — rispose Ivan Ivanovic, deponendo sul vassoio la tazza rovesciata e facendo un inchino.
— Fate il favore, Ivan Ivanovic!
— Non posso; molto obbligato. — Cosí dicendo, Ivan Ivanovic fece un inchino e si mise a sedere.
— Ivan Ivanovic! fate la cortesia, una sola tazzina!
— No, molto obbligato per la vostra gentilezza. — Detto questo, Ivan Ivanovic fece un inchino e si mise a sedere.
— Solo una tazza! Una tazzina e basta!
Ivan Ivanovic tese la mano al vassoio e prese una tazzina.
Eh, accidenti! Come può, come riesce un uomo a mantenere la sua dignità!
— Io, Demjan Demjanovic — disse Ivan Ivanovic, mandando giú l’ultimo sorso — io vengo da voi per un affare importantissimo: io presento una querela. — Cosí dicendo, Ivan Ivanovic depose la tazza e cavò fuori dalla tasca un foglio scritto in carta bollata. — Una querela contro un mio nemico, contro un nemico esecrato.
— Contro chi è?
— Contro Ivan Nikiforovic Dovgoc’chun.
A tali parole poco mancò che il giudice rotolasse giú dalla sedia.
— Che dite? — esclamò battendo le mani — Ivan Ivanovic, siete voi che lo dite?
— Lo vedete da voi che sono io.
— Che il Signore vi assista con tutti i santi! Come? Voi! Ivan Ivanovic! siete divenuto nemico d’Ivan Nikiforovic? Sono le vostre labbra a dire questo? Ripetetelo ancora! Non si nasconde per caso dietro a voi qualcuno e parla per voi?...
— Che c’è d’inverosimile? Io non lo posso vedere: egli mi ha recato un’offesa mortale, ha ferito il mio onore!
— Santissima Trinità! Come posso ora credere alla mia povera mamma? Lei, povera vecchia, ogni giorno, appena litighiamo io e mia sorella, dice: «Voi ragazzi, state tra voi come cane e gatto. Oh se prendeste esempio da Ivan Ivanovic e Ivan Nikiforovic! ecco due amici come si deve, due persone che si vogliono bene! due uomini di merito!». Ecco ora che amici! Raccontate, perché tutto questo? Come mai?
— È una faccenda delicata, Demjan Demjanovic! a voce non si può dire. Ordinate piuttosto che sia letta la mia istanza. Ecco, prendete da questa parte; di qui si prende meglio.
— Leggete, Taras Tichonovic! — disse il giudice, rivolto al segretario. Taras Tichonovic prese l’istanza e, soffiatosi il naso a quel modo come si soffiano il naso tutti i segretari di pretura, con l’aiuto di due dita, cominciò a leggere:
«Dal gentiluomo del circondario di Mirgorod e proprietario rurale Ivan figlio di Ivan Pererepenko, istanza in merito ai punti seguenti:
«1) L’uomo noto a tutti per la sua condotta sacrilega, spinta fino all’abbominio e alla criminalità e sorpassante ogni limite, il gentiluomo Ivan figlio di Niceforo Dovgoc’chun, in quest’anno 1810, addí 7 di luglio, mi recò un’offesa sanguinosa, sia riferentesi al mio onore personale, sia parimenti a vilipendio e vergogna del mio grado e del mio casato. Il detto gentiluomo, che per giunta egli stesso è di laida figura, ha un carattere litigioso e riboccante di ogni sorta di bestemmie e sconce parole...»
Qui il lettore si fermò un momento per soffiarsi il naso un’altra volta, e il giudice con compunzione giunse le mani e disse fra sé: «Che penna accorta! Signore Iddio! come scrive quest’uomo!».
Ivan Ivanovic pregò di leggere il seguito, e Taras Tichonovic continuò:
«Il detto gentiluomo Ivan figlio di Niceforo Dovgoc’chun, quando io mi recai da lui con amichevoli proposte, mi chiamò pubblicamente con un nome offensivo e lesivo del mio onore, e precisamente “paperone”, mentre, com’è noto a tutto il circondario di Mirgorod, io non ho in alcun modo preso il nome di quel sozzo animale, e non ho intenzione di prenderlo in avvenire. A testimonio, del resto, della mia origine di gentiluomo sta il fatto che nel registro parrocchiale che si conserva nella chiesa dei Tre Patriarchi è scritto tanto il giorno della mia nascita quanto parimenti il battesimo da me ricevuto. “Paperone” invece, com’è noto ad ognuno che abbia qualche nozione scientifica, non può essere scritto nel libro parrocchiale, perché il paperone non è un uomo, ma un uccello; la qual cosa è sicuramente nota ad ognuno anche se non sia mai stato al Seminario. Ma il detto maligno gentiluomo, pur essendo informato di tutto ciò, non per altro che per recarmi un’offesa sanguinosa per il mio grado e per la mia reputazione, m’investí con la suddetta sconcia parola.
«2) Il medesimo sconveniente e maleducato gentiluomo commise anche quest’altra impertinenza, che nella mia proprietà di famiglia, donata a me da mio padre, che apparteneva allo stato ecclesiastico, la beata memoria di Ivan figlio di Onisiev Pererepenko, osò contro tutte le leggi trasportare proprio dirimpetto alla mia scala la stalletta delle oche; il che fu fatto non con altro intento che di ripetere l’ingiuria a me arrecata; giacché quella stalletta fino allora era stata in un luogo tollerabile e inoltre era ancora abbastanza solida. Ma il ributtante proposito del surricordato gentiluomo consisteva unicamente in ciò, di rendermi testimonio e spettatore di poco decenti passaggi; poiché è noto che ogni uomo non si accosta alla stalletta, e tanto meno a una stalletta di oche, per una faccenda decente. Per siffatta azione illegale i due sostegni anteriori occuparono il mio terreno datomi ancora in vita da mio padre, la beata memoria di Ivan figlio di Onisiev Pererepenko, cominciando dal granaio e andando in linea retta fino al luogo in cui le fantesche lavano le pentole.
«3) Il suddescritto gentiluomo, di cui già soltanto il nome e cognome ispirano ogni sorta di disgusto, nutre nell’anima il criminoso proposito di farmi morire bruciato nella mia propria casa. Gl’infallibili indizi di ciò appaiono da quanto segue: in primo luogo il detto malnato gentiluomo ha cominciato a uscire spesso dalle sue camere, cosa che in passato, a motivo della sua pigrizia e della sconcia grassezza delle sue membra, non intraprendeva; in secondo luogo, nella sua stanza della servitú, aderente al recinto che chiude la mia proprietà datami dal defunto mio genitore, la beata memoria d’Ivan figlio di Onisiev Pererepenko, ogni giorno e per una durata insolita fa ardere il lume; il che già costituisce una prova del fatto; giacché finora, per la sua sordida avarizia, non solo la candela di sego ma anche la lucerna si teneva spenta.
«E perciò do querela al detto gentiluomo Ivan figlio di Niceforo Dovgoc’ chun, quale colpevole d’incendio doloso, di offesa al mio grado, nome, casato, e di brigantesca usurpazione di proprietà, ma soprattutto di volgare e offensiva aggiunta della parola “paperone” al mio casato, esigendo una punizione, con rifacimento di spese e danni, e che il suddetto quale violatore delle leggi, sia messo in ceppi, e dopo essere stato ammanettato sia menato in prigione, e che su questa mia querela sia pronunziata immediatamente e senza ritardo una sentenza. Scritto e composto dal gentiluomo proprietario di Mirgorod, Ivan figlio di Ivan Pererepenko.»
Finita la lettura della querela, il giudice si avvicinò ad Ivan Ivanovic, lo prese per un bottone e cominciò a parlargli in tal modo:
— Che fate mai, Ivan Ivanovic? Abbiate timore di Dio! Gettate via la querela, lasciatela andare in malora! Satana se la sogni! Piuttosto abbracciatevi con Ivan Nikiforovic e baciatevi; comprate del Santorino o del Nicopoli, o magari, semplicemente, preparate un poncino, e invitatemi! Berremo insieme e dimenticheremo tutto!
— No, Demjan Demjanovic! Non è tale la faccenda — disse Ivan Ivanovic con quella gravità che sempre gli si adattava — non è tale la faccenda, che sia possibile risolverla con una transazione amichevole. Arrivederci! Salute anche a voi, signori! — continuò con la stessa gravità rivolgendosi a tutti — Spero che la mia querela sarà trattata in modo soddisfacente. E andò via lasciando trasecolata tutta la magistratura.
Il giudice rimaneva a sedere senza dire una parola; il segretario fiutava il tabacco; gli uscieri fecero rovesciare il pezzo di bottiglia rotta che fungeva da calamaio, e il giudice stesso, distratto, spargeva col dito sul tavolo la pozza d’inchiostro.
— Che ne dite, Dorofei Trofimovic? — disse il giudice dopo un buon tratto di silenzio, rivolgendosi al sostituto.
— Io non dico niente — rispose il sostituto.
— Che razza di cose avvengono! — continuò il giudice. Non aveva ancora finito di dire queste parole, quando la porta si aprí scricchiolando, e la parte anteriore di Ivan Nikiforovic approdò nella stanza della magistratura, mentre la parte posteriore rimaneva nell’anticamera. L’apparizione di Ivan Nikiforovic, e per giunta in tribunale, parve un fatto cosí fuori dell’usato, che il giudice mandò un grido, il segretario interruppe la sua lettura, uno degli uscieri, vestito di una specie di mezzo frak di frisa, prese la penna tra le labbra, e l’altro inghiottí una mosca. Perfino l’invalido esercitante l’ufficio di corriere e di guardia, che fino allora stava sulla porta grattando nella sua sudicia camicia con una toppa su una spalla, perfino quell’invalido spalancò la bocca e pestò il piede a qualcuno.
— Per quale combinazione? Che c’è? Come state, Ivan Nikiforovic?
Ma Ivan Nikiforovic non era né vivo né morto, perché s’era incastrato nella porta e non poteva fare un passo né avanti né indietro. Indarno il giudice gridava verso l’anticamera, che qualcuno di quelli ch’erano lí spingesse di dietro Ivan Nikiforovic nella sala della magistratura. Nell’anticamera si trovava solo una vecchia postulante che, nonostante tutti gli sforzi delle sue braccia ossute, non poteva far niente.
Allora uno degli uscieri, dalle labbra grosse, dalle larghe spalle, dal naso grosso, dagli occhi che guardavano di sbieco e avvinazzati, dalle maniche lacere, s’accostò alla metà anteriore di Ivan Nikiforovic, gli mise le due braccia in croce come a un bambino, e fece l’occhiolino al vecchio invalido; questi col suo ginocchio puntò al ventre di Ivan Nikiforovic, e, nonostante i suoi pietosi lamenti, questi fu spremuto nell’anticamera. Quindi rimossero i paletti e aprirono l’altra metà della porta; nella quale operazione l’usciere e il suo aiutante, l’invalido, per i loro sforzi combinati, col fiato delle loro labbra diffusero un tanfo cosí forte, che la stanza della magistratura fu momentaneamente convertita in una taverna.
— Non vi siete scorticato, Ivan Nikiforovic? Lo dirò alla mamma; essa vi manderà delle tinture, con cui dovete solo strofinarvi la vita e la schiena, e tutto vi passerà.
Ma Ivan Nikiforovic si rotolò su una sedia, e all’infuori dei continui ohi! ohi! non poteva dire una parola. Alla fine con una voce appena percepibile, da quanto era sfinito, disse:
— Vi piace? — e tirato fuori dalla tasca il cornetto, aggiunse: — Gradite una presa, per favore!
— Sono molto contento di vedervi — rispose il giudice — ma proprio non so figurarmi che cosa vi abbia indotto ad assumere questa faccia e favorirci questa gradita sorpresa.
— Ho un’istanza... — poté appena proferire Ivan Nikiforovic.
— Un’istanza? quale?
— Di azione penale... (qui l’affanno cagionò una lunga pausa). Ohi!... una querela contro un brigante... Ivan figlio di Ivan Pererepenko.
— O Signore! Anche voi siete giunto a questo? due amici cosí rari! Una querela a un uomo tanto dabbene?
— Egli è Satana in persona! — disse con voce interrotta Ivan Nikiforovic.
Il giudice si fece il segno della croce.
— Prendete la domanda, leggete.
— Non c’è che fare, leggete forte, Taras Tichonovic — disse il giudice, rivolgendosi al segretario, con aspetto malcontento, e nel far ciò il suo naso fiutò involontariamente il labbro superiore, cosa che per lo innanzi egli faceva soltanto in segno di grande soddisfazione. Un tale atto arbitrario del naso produsse nel giudice anche maggiore malumore: tirò fuori il fazzoletto, e spazzò dal labbro superiore tutto il tabacco per castigare la sua impertinenza.
Il segretario, dopo aver compiuto il suo atto consueto, ch’egli usava ogni volta prima di cominciare la lettura, vale a dire senza il del fazzoletto da naso, cominciò con la sua voce abituale in tal modo:
«Supplica il gentiluomo del circondario di Mirgorod, Ivan figlio di Niceforo Dovgoc’chun, in conformità dei punti seguenti:
«1) Nella sua odiosa malizia e velenosa perversità il sedicente gentiluomo Ivan figlio di Ivan Pererepenko, mi fa ogni sorta di villanie, danni e altre azioni maligne da fare inorridire, e nella notte scorsa, dopo la mezzanotte, a guisa di masnadiero e ladro, armato di scuri, e seghe, scalpelli e altri arnesi da falegname, si recò tra le tenebre nel mio recinto e, accostatosi alla stalletta delle oche, di mia assoluta proprietà, con le proprie mani e in modo oltraggioso. la distrusse, mentre da mia parte non avevo dato la minima occasione ad un atto cosí colpevole e brigantesco.
«2) Il suddetto gentiluomo Pererepenko ha in animo un attentato addirittura alla mia vita, e il giorno 7 del mese scorso, serbando nel suo segreto tali suoi propositi, venne da me, e in modo amichevole ed astuto mi chiese un fucile che si trova nella mia camera, e mi propose di darmi in cambio, con quell’avarizia che è sua particolare, parecchi oggetti di nessun valore, come una scrofa bruna e due misure di avena. Ma io, prevedendo fin da allora i suoi delittuosi propositi, in tutti i modi cercai di distoglierlo dal suo desiderio; ma il suddetto malizioso e codardo Ivan figlio di Ivan Pererepenko mi aggredí con modi villani e nutre verso di me da quel giorno un odio implacabile. Oltre a ciò poi il suddetto, piú volte nominato, violento e impertinente gentiluomo Ivan figlio d’Ivan Pererepenko è di origine molto ignobile: una sua sorella era nota a tutto il mondo come girandolona e se ne andò con una brigata di cacciatori che dimorò cinque anni addietro in Mirgorod, e fece iscrivere tra i contadini il proprio marito; il padre e la madre di lui erano persone assai delinquenti e tutti e due ubbriaconi da non potersi immaginare. Il surricordato gentiluomo e furfante Pererepenko coi suoi atti bestiali e biasimevoli ha sorpassato tutta la sua razza, e sotto apparenze di religiosità, compie gli atti piú scandalosi; non osserva i digiuni, perché nella vigilia di S. Filippo quest’uomo sacrilego comprò un montone, e il giorno dopo lo fece sgozzare alla sua empia fantesca Gapka, dando ad intendere che gli occorreva subito del sego per i kaganzi1 e per le candele.
«Per la qual cosa fo istanza che il suddetto gentiluomo, quale brigante, sacrilego, furfante, già convinto di ladroneccio e di rapina, sia messo in catene e menato in una prigione o in un reclusorio governativo, e quivi, a discrezione, privato dei gradi e dei titoli nobiliari, conciato ben bene alla maniera dei barbari e al bisogno mandato ai lavori forzati in Siberia, e obbligato a pagare le spese e i danni; e si dia corso a questa mia querela.
«A questa supplica appose la firma il gentiluomo del circondario di Mirgorod, Ivan figlio di Niceforo Dovgoc’ chun.»
Appena il segretario ebbe finita la lettura, Ivan Nikiforovic prese il cappello, e fece un inchino con l’intenzione di andarsene.
— Dove andate, Ivan Nikiforovic? — gli disse andandogli dietro il giudice. — Sedete un momento! bevete una tazza di tè! Orisc’ko! che te ne stai costí, stupida ragazza, e fai l’occhietto agli uscieri? Via, porta del tè!
Ma Ivan Nikiforovic, dal terrore di essere andato cosí lontano da casa e aver passato una cosí pericolosa quarantena, s’era già affrettato a volare alla porta dicendo:
— Non v’incomodate, io con piacere... — e chiuse l’uscio dietro a sé, lasciando nello stupore tutta la magistratura.
Non c’era che fare. Le due querele furono accolte, e la causa si preparava ad assumere un interesse assai grave, quando una circostanza imprevista le comunicò un’importanza ancora piú grande. Quando il giudice usciva dalla stanza della magistratura, accompagnato dal sostituto e dal segretario, e gli uscieri cacciavano in un sacco i doni portati dai postulanti (polli, uova, cantucci di pane, pagnotte, pasticcini e altra roba), in quel frattempo una scrofa nera entrò nella stanza e afferrò, tra lo stupore dei presenti, non un pasticcino o una crosta di pane, ma la supplica di Ivan Nikiforovic, la quale supplica si trovava all’orlo del tavolo, coi fogli penzoloni. Afferrata la carta, la nera bestia fuggí via cosí lesta, che nessuno dei fattorini d’ufficio poté raggiungerla, nonostante che le tirassero dietro i righelli e i calamai.
Questo singolare avvenimento produsse una confusione spaventosa, perché, per giunta, non s’era ancora fatta una copia della querela. Il giudice, il segretario e il sostituto discussero a lungo su questa circostanza inaudita; da ultimo fu deciso di scrivere in proposito una relazione al prefetto, in quanto che l’inchiesta su questa faccenda spettava alla polizia della città. La relazione, col numero 389, fu spedita il giorno stesso, e sul fatto avvenne una spiegazione abbastanza curiosa, che i lettori potranno conoscere nel capitolo seguente.
Note
- ↑ Sorta di lucerna, consistente in un coccio riempito di grasso.