Una vecchia amicizia troncata/V
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Traduzione dal russo di Nicola Festa (1932)
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Capitolo V
Quanto piú velocemente il prefetto metteva in azione la sua fanteria, tanto meno essa procedeva in avanti, e perciò, intanto che il prefetto s’accostava alla tettoia, Ivan Ivanovic ebbe tutto il tempo di perdersi in congetture sul motivo per cui il prefetto dimenava cosí in fretta le braccia. Tanto piú la cosa gli parve interessante, in quanto pareva si trattasse di una faccenda piuttosto grave, perché il prefetto aveva perfino una spada nuova.
— Salute a voi, Pietro Fedorovic! — gridò Ivan Ivanovic, il quale, come s’è detto, era molto curioso, e non poteva in alcun modo frenare la sua impazienza al vedere come il prefetto prendeva d’assalto la scala, ma non levava ancora in su lo sguardo e brontolava contro la sua fanteria che non c’era verso riuscisse a superare un gradino con un sol passo.
— Auguro il buongiorno al caro amico e benefattore Ivan Ivanovic! — rispose il prefetto.
— Per carità! mettetevi a sedere. A quel che vedo, voi siete stanco, perché la vostra gamba ferita dà fastidio...
— La mia gamba! — gridò il prefetto gettando su Ivan Ivanovic uno di quegli sguardi che può gettare un gigante su un pigmeo, un dotto pedante su un maestro di ballo.
Intanto egli distese la gamba e batté il piede a terra. Questa prodezza, a dire il vero, gli costò cara, perché tutto il suo corpo traballò e il suo naso picchiò nella balaustra; ma il saggio sorvegliante dell’ordine, per non farsi scorgere in alcun modo, subito si raddrizzò e si cacciò una mano in tasca, con l’atto di cercare la tabacchiera.
— Io vi riferirò di me, caro amico e benefattore Ivan Ivanovic, che io ho compiuto in vita mia ben altro che tali spedizioni! Sí, sul serio, ne ho fatte! Per esempio, durante la campagna del 1807... Ah; vi racconterò in che modo io mi cacciai attraverso una siepe per raggiungere una tedesca belloccia. — Nel dir cosí il prefetto strizzò un occhio e fece un sorriso furbo e diabolico.
— Dove siete stato oggi? — domandò Ivan Ivanovic, desiderando interrompere il prefetto e al piú presto condurlo al motivo della sua visita; egli aveva una gran voglia di domandare che cosa mai il prefetto si proponesse di spiegargli; ma la sua fine conoscenza del mondo gli presentava tutta la sconvenienza di una tale domanda, e Ivan Ivanovic dovette rassegnarsi e attendere la soluzione dell’enigma, intanto che il cuore gli batteva con una forza straordinaria.
— Ah, permettete, vi dirò dove sono stato rispose il prefetto. — In primo luogo, vi riferirò che oggi il tempo è magnifico...
A queste parole, Ivan Ivanovic poco mancò non morisse.
— Ma permettete — continuò il prefetto — sono venuto oggi da voi per un affare importante.
Allora il volto del prefetto e il suo contegno assunsero quella stessa posa preoccupata con cui egli aveva presa d’assalto la scala. Ivan Ivanovic riprese fiato e tremava come se avesse la febbre, senza indugiare a fare, secondo il suo solito, la domanda:
— Che affare è? È importante? È proprio importante?
— Ecco, vi prego di considerare: prima di tutto ardisco farvi presente, caro amico e benefattore Ivan Ivanovic, che voi... per parte mia, vi prego di considerare, io non c’entro, ma le vedute del governo, le vedute del governo lo esigono: voi avete violato le regole dell’ordine pubblico!
— Che cosa dite, Pietro Fedorovic? Non capisco niente.
— Di grazia, Ivan Ivanovic! Come non capite niente? Una bestia di vostra proprietà portò via una carta legale molto importante, e voi ancora dite, dopo questo, che non capite niente?
— Quale bestia?
— Parlando con licenza, la scrofa nera di vostra proprietà.
— E io che colpa ci ho? La guardia del tribunale perché tiene la porta aperta?
— Ma, Ivan Ivanovic, una bestia di vostra proprietà; per conseguenza, la colpa è vostra.
— Umilmente vi ringrazio, perché mi pareggiate alla scrofa.
— Eh, via! Codesto io non l’ho detto, Ivan Ivanovic! Com’è vero Dio, non l’ho detto! Vogliate giudicare voi stesso con pura coscienza. Voi, senz’alcun dubbio, sapete che, d’accordo con le vedute del governo, è proibito in città, e tanto piú nelle strade principali delle città, che vadano a zonzo animali impuri. Convenite voi stesso che questa è cosa proibita.
— Dio sa che cosa volete dire. Gran cosa importante che una scrofa uscí sulla strada!
— Permettete di farvi presente, permettete, permettete, Ivan Ivanovic, questo è assolutamente impossibile. Che farci? Il governo lo vuole, noi dobbiamo obbedire. Non voglio contendere: qualche volta correranno sulla via e magari sulla piazza, dei polli delle oche; notate bene, polli e oche; ma scrofe e becchi io già dall’anno passato diedi l’ordinanza di non lasciarli entrare nella pubblica piazza; e quell’ordinanza io disposi che fosse letta ad alta voce nell’assemblea alla presenza di tutto il popolo.
— No, Pietro Fedorovic, io qui non ci vedo niente, salvo questo, che voi in tutti i modi cercate di offendermi.
— Oh, no; codesto non lo potete dire, caro amico e benefattore, che io abbia cercato di offendervi. Ricordate voi stesso: io non vi dissi neppure una parola l’anno scorso, quando voi costruiste il tetto un’arscina piú alto della misura stabilita. Al contrario, feci vista di non essermene accorto affatto. Credete, caro amico, che anche adesso io addirittura, come dire?... ma il mio dovere, in una parola, l’obbligo mio esige che io sorvegli la decenza. Giudicate voi stesso, se a un tratto in una strada principale...
— Eh, sí: belle le vostre strade principali! Ogni donnaccola ci va a buttare quello di cui non sa che farsi.
— Permettete di farvi osservare, Ivan Ivanovic, che siete voi ad offendere me! È vero, succede qualche volta, ma per lo piú sotto a un recinto, presso ai magazzini e ai granai; ma che nella strada principale, sulla piazza, spunti una scrofa pregna, questa è una tale faccenda...
— Ma che c’è di male, Pietro Fedorovic?
Si sa che una scrofa è una creatura del Signore!
— D’accordo. Questo è noto al mondo intero, che voi siete un uomo istruito, conoscete le scienze e diversi altri argomenti. Certo, io non mi sono affatto dedicato alle scienze: a scrivere in corsivo cominciai a imparare a trent’anni della mia vita. Si sa, io, come a voi è noto, vengo dalla gavetta.
— Hm! — disse Ivan Ivanovic.
— Sí — continuò il prefetto: — nel 1801 mi trovavo nel 42mo reggimento di cacciatori, nella 4ª compagnia come luogotenente. Avevamo come comandante della compagnia, se lo volete sapere, il capitano Eremjeev. — Ciò dicendo, il prefetto cacciò le dita nella tabacchiera che Ivan Ivanovic teneva aperta, e rimestò il tabacco.
Ivan Ivanovic rispose:
— Hm.
— Ma il mio dovere — continuò il prefetto — è di obbedire alle esigenze del governo. Sapete voi, Ivan Ivanovic che chi fa portar via una carta legale nel tribunale va soggetto, come per un altro delitto qualunque, a un giudizio criminale?
— Tanto lo so, che, se volete, posso insegnarlo a voi. Questo si dice parlando di persone; per esempio, se voi aveste sottratto il documento; ma una scrofa... è un animale, una creatura di Dio.
— Tutto sta bene, ma la legge dice: «Il colpevole nella sottrazione...». Vi prego di stare a sentire con piú attenzione: «Il colpevole!». Qui non è indicato né natura, né sesso, né condizione; per conseguenza, anche un animale può essere colpevole. Pensate come vi piace, ma la bestia, prima che sia pronunziata la sentenza penale, dev’essere presentata alla polizia come violatrice dell’ordine.
— No, Pietro Fedorovic — disse con molto sangue freddo Ivan Ivanovic — codesto non sarà!
— Come volete, salvo che io debbo seguire le istruzioni del governo.
— Che state a minacciarmi? Forse avete in mente di mandarla a prendere dal soldato monco? Io darò ordine alla fantesca di casa di corrergli appresso con l’attizzatoio; di rompergli l’ultimo braccio che gli resta.
— Io non ardisco discutere con voi. In tal caso, se voi non intendete presentarla alla polizia, allora fatene quell’uso che piú vi accomoda; uccidetela quando volete, per Natale e fatene dei prosciutti, o se no, mangiatela cosí. Solamente vi prego, se dovete farne delle salsicce, di mandarmene una coppietta, di quelle che vi fa cosí abilmente Gapka con sangue di maiale e grasso. La mia Agrafena Trofimovna ne va matta.
— Di salsicce, se ne gradite, ve ne manderò una coppietta.
— Ve ne sarò molto grato, mio caro amico e benefattore. Adesso permettete ch’io vi dica ancora una parola. Io ho l’incarico dal giudice, parimenti che da tutti i nostri conoscenti, per cosí dire, di rappaciarvi col vostro amico Ivan Nikiforovic.
— Come? con quel villanzone? Che io faccia la pace con quello zoticone! Mai e poi mai! Non sarà codesto, non sarà! — Ivan Ivanovic si mostrò molto risoluto.
— Come vi piace — rispose il prefetto intanto che regalava tabacco a tutte e due le narici. — Io non ardisco darvi consigli; tuttavia permettete che vi faccia osservare: ecco, ora voi siete in lite, ma, appena avrete fatto la pace...
Ma Ivan Ivanovic cominciò a parlare della caccia alle quaglie, ciò che normalmente avveniva quando egli voleva troncare un discorso.
E cosí, il prefetto, senza aver ottenuto alcun successo, dovette riprendere la via di casa.
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