Una vecchia amicizia troncata/III
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Traduzione dal russo di Nicola Festa (1932)
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Capitolo III
Che successe dopo il litigio di Ivan Ivanovic e Ivan Nikiforovic?
Ivan Nikiforovic dal canto suo, dava anche lui i piú commoventi segni di amicizia, e dovunque si trovasse, sempre tendeva a Ivan Ivanovic la mano col cornetto del tabacco dicendo: «Favorite». E che bella casa ben provvista aveva ciascuno dei due!... E questi due amici... Quando seppi la cosa, fu come se un fulmine mi avesse colpito! Per un pezzo non ci volli credere. Giusto Dio! Ivan Ivanovic adirato con Ivan Nikiforovic! Due persone cosí degne! Che c’è, dunque, di durevole in questo mondo?
Ivan Ivanovic, tornato in casa sua, rimase per un pezzo in una forte agitazione. Di solito egli prima di tutto andava alla rimessa a guardare se la cavallina mangiava il fieno (Ivan Ivanovic ha una cavallina saura con una piazza sulla fronte; una giumenta assai bella), poi a nutrire con le sue mani i tacchini e i porcellini, e infine andava a riposarsi, o fabbricando stoviglie di legno (egli sa con molt’arte, non meno bene di un tornitore, lavorare diversi oggetti di legno) o leggendo un libriccino stampato da Ljubij, Garij e Popov (Ivan Ivanovic non si ricorda il titolo, perché la fantesca molto tempo addietro strappò la parte superiore del frontespizio per trastullare il bambino), o pure riposando sotto la tettoia. Ma questa volta egli non si rivolse a nessuna di queste sue quotidiane occupazioni. Invece, incontratosi con Gapka, cominciò a rimproverarla perché si dondolava senza far niente, mentre, a dire il vero, essa portava la polenta in cucina; alzò il bastone contro il gallo ch’era venuto sulla scala per ricevere il consueto regalo, e quando gli corse incontro il ragazzino imbrattato con la camicetta sbrindellata e cominciò a gridare: — Babbo, babbo, dammi un mostacciuolo! — egli lo minacciò e pestando i piedi gli mise tanta paura, che il ragazzo atterrito scappò Dio sa dove.
Da ultimo, però, si fece una ragione e cominciò a dedicarsi alle faccende consuete. Piú tardi andò a cena, e giunta ormai la sera, si mise a riposare sotto la tettoia. Una buona zuppa d’erbe coi piccioni, preparata da Gapka, fece dileguare del tutto l’avventura del mattino. Ivan Ivanovic daccapo cominciò a contemplare la sua azienda domestica. Da ultimo posò lo sguardo nel cortile del suo vicino e disse a se stesso: «Oggi non sono stato da Ivan Nikiforovic; voglio andarci ora». Detto questo, Ivan Ivanovic prese il bastone e il cappello e si diresse verso la strada; ma appena giunto al portone, si ricordò del litigio, sputò e tornò indietro. Presso a poco un simile movimento si fece anche nel cortile d’Ivan Nikiforovic. Ivan Ivanovic vide che la vecchia fantesca già poneva il piede sulla siepe con l’intenzione di scavalcarla e passare nel suo cortile, quando improvvisamente si udí la voce di Ivan Nikiforovic:
— Indietro! indietro! non occorre! — Bisogna dire però che Ivan Ivanovic si sentiva molto annoiato. Poteva darsi certamente che quelle due degne persone facessero la pace il giorno appresso, se non fosse capitato in casa d’Ivan Nikiforovic un fatto particolare, che distrusse ogni speranza e versò dell’olio nel fuoco dell’inimicizia già presso a spegnersi.
Da Ivan Nikiforovic la sera di quello stesso giorno arrivò Agafia Fedosejevna. Agafia Fedosejevna non era né parente, né cognata e neanche comare d’Ivan Nikiforovic. Sembra ch’essa non avesse un motivo per andare da lui; ed egli stesso non ne era troppo contento; con tutto questo, ci andava e passava da lui delle intere settimane e anche piú, qualche volta. Allora costei s’impadroniva delle chiavi, e prendeva tutta la casa nelle sue mani. La cosa era molto spiacevole per Ivan Nikiforovic; ma nondimeno (strano a dirsi!) egli le obbediva come un bambino, e sebbene qualche volta provasse anche a ribellarsi, però Agafia Fedosejevna prendeva sempre il sopravvento.
Io confesso che non capisco perché il mondo sia cosí fatto che le donne ci menano per il naso con la stessa facilità con cui si prende per il manico il bricco del tè; o sono le loro mani fatte apposta per questo, o i nostri nasi si prestano a questo meglio che ad altro. E con tutto che il naso di Ivan Nikiforovic era alquanto simile a una prugna, essa tuttavia lo prendeva per quel naso e se lo tirava dietro come un cagnolino. Egli arrivava perfino a mutare per riguardo a lei il suo consueto tenore di vita: non cosí a lungo stava sdraiato al sole, se pure si sdraiava, e poi non al naturale, ma indossava sempre la camicia e i calzoni, quantunque Agafia Fedosejevna non esigesse affatto tutto questo. Essa non amava i complimenti, e quando Ivan Nikiforovic era preso dalla febbre, gli faceva colle sue mani delle fregagioni con trementina e aceto dai piedi alla testa. Agafia Fedosejevna portava una cuffia in testa, tre porri sul naso, e addosso un cappotto color caffè con fiorami giallognoli. Tutta la sua figura era simile a un botticello, e perciò il ritrovare la sua vita era altrettanto difficile quanto vedere il proprio naso senza l’aiuto di uno specchio. I suoi piedini erano piuttosto corti, deformati a guisa di due cuscinetti. Essa faceva pettegolezzi, mangiava bietole lesse ogni mattina, e sparlava straordinariamente bene; e in tutte queste cosí differenti occupazioni, il suo viso non mutava mai la sua espressione; cosa che in genere le sole donne sono capaci di fare.
Appena arrivò lei, tutto andò di traverso:
— Tu, Ivan Nikiforovic, non far la pace con lui, e non gli chiedere scusa; egli cerca di rovinarti; è un uomo capace di tanto! Tu ancora non lo conosci. — Sussurrava, sussurrava la vecchia maledetta, e fece in modo che Ivan Nikiforovic non volle piú neppure sentir parlare di Ivan Ivanovic.
Tutto assunse un altro aspetto. Se il cane del vicino correva nel cortile, lo battevano con tutto ciò che veniva alla mano; i bambini che passavano la siepe, ritornavano urlando, con la camicia tirata in su, e coi segni delle verghe di dietro; la stessa fantesca, quando Ivan Ivanovic voleva rivolgerle qualche domanda, faceva tali sgarbi, che Ivan Ivanovic, da uomo straordinariamente delicato qual era, sputava e diceva soltanto: — Che vecchia sconcia! peggio del suo padrone.
Da ultimo, a compimento di tutte le offese, l’odioso vicino costruí proprio di faccia a lui, dove era un passaggio per le lepri attraverso la siepe, una stalla per le oche, quasi col preciso proposito di ripetere l’offesa. Quella stalla, ripugnante per Ivan Ivanovic, fu costruita con diabolica rapidità, in un giorno.
Questo fatto suscitò in Ivan Ivanovic malanimo e desiderio di vendetta. Vero è che egli non diede alcun segno di dispiacere, con tutto che quella stalletta occupasse perfino un pezzo del suo terreno; ma il cuore gli batteva tanto forte, ch’egli durava una grande fatica a conservare la sua calma esteriore.
Cosí passò la giornata. Venne la notte... Oh, se io fossi pittore, rappresenterei mirabilmente tutto l’incanto della notte! Rappresenterei come dorme tutta Mirgorod; come immobili guardano su di esse le stelle senza numero; come quella chiara tranquillità risuona dei latrati lontani e vicini dei cani; come accanto a questi si muove un sagrestano innamorato e passa le siepi con cavalleresco ardimento; come le bianche pareti delle case, avvolte dalla luce lunare, si fanno ancora piú bianche, e gli alberi che le ombreggiano vieppiú scuri, e vieppiú nera l’ombra degli alberi, piú odorosi i fiori e l’erba silenziosa; e i grilli, gl’irrequieti eroi della notte, da tutti gli angoli intonano all’unisono i loro canti sonori. Rappresenterei come in una di quelle basse casette di mattoni, distesa sul letto solitario, una cittadina dalle nere ciglia, col tenero seno tremante, sogna i baffi d’un ussero e gli sproni, mentre la luna ride sulle sue guance. Rappresenterei come sul bianco della strada guizza l’ombra nera d’un pipistrello, che va a posarsi sui bianchi fumaiuoli delle case... Ma difficilmente potrei rappresentare Ivan Ivanovic uscito di casa in quella notte con una sega in mano: quanti diversi sentimenti erano dipinti sul suo volto! Adagio adagio s’insinuò strisciando fino alla stalletta delle oche. I cani di Ivan Nikiforovic non sapevano ancora niente del litigio nato tra i due, e per questo gli permisero, come a vecchio amico, di accostarsi alla stalletta, la quale si reggeva tutta su quattro piuoli di legno. Insinuatosi fino al piuolo piú vicino, vi applicò la sega e cominciò a segare. Il rumore prodotto dalla sega l’obbligava a guardarsi attorno ogni minuto, ma il pensiero dell’offesa ricevuta rinnovava il suo coraggio. Il primo piuolo era già segato; Ivan Ivanovic mise mano al secondo. I suoi occhi ardevano e non vedevano niente dalla paura. A un tratto Ivan Ivanovic mandò un grido e restò gelato: gli apparve uno spettro; ma ben presto egli tornò in sé, come si avvide che era soltanto un’oca che allungava il collo verso di lui. Ivan Ivanovic sputò per rabbia, e prese a continuare il suo lavoro. Anche il secondo piuolo era segato; l’edifizio cominciò a tentennare. Il cuore prese a battere a Ivan Ivanovic cosí paurosamente, quando mise mano al terzo, che piú di una volta dovette interrompere il lavoro. Già piú di una metà del piuolo era segata quando il vacillante edifizio cominciò a scuotersi fortemente... Ivan Ivanovic fece appena a tempo a scansarsi con un salto, quando esso crollò con fracasso. Afferrata la sega, con una paura tremenda corse a casa e si gettò sul letto senz’avere neppure l’animo di spiare dalla finestra le conseguenze della sua terribile impresa. Gli parve che tutta la corte di Ivan Nikiforovic fosse adunata: che la vecchia fantesca, Ivan Nikiforovic, il ragazzo col soprabito smisurato, tutti armati di mazze provvedute da Agafia Fedosejevna, venissero a distruggere e frantumare la sua casa.
Tutto il giorno seguente Ivan Ivanovic lo passò come avesse la febbre. Sognava continuamente che l’odiato vicino, per vendicarsi, per lo meno gli bruciasse la casa; e per questo dava ordine a Gapka di guardare dappertutto per vedere se da qualche parte fosse raccolta della paglia secca. Da ultimo, per prevenire Ivan Nikiforovic, stabilí di correre innanzi come una lepre e presentare una querela contro di lui alla pretura di Mirgorod. In che consistesse la querela, si potrà sapere dal capitolo seguente.