Una porta d'Italia col Tedesco per portiere/Lezioni

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Deutscher Verband Boicottaggio
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[p. 59 modifica] A suo tempo si è molto parlato in Italia di una «questione di Laghetti», ma fra le reticenze delle versioni ufficiose e le deformazioni delle opinioni interessate il pubblico ha finito per non capirci molto. Siccome la «questione di Laghetti», disgraziatamente, ha avuto una influenza decisiva sul regime scolastico nell’Alto Adige (per cui rimane stabilito che in regioni abitate da italiani la scuola comunale obbligatoria debba essere tedesca ad perpetuam Austriae gloriam), è interessante ricordarla.

Il 27 settembre 1919 il Commissario generale civile per la Venezia Tridentina, in giro per le sue prime visite diocesane, arrivò a Laghetti, pittoresca frazione del Comune di Egna nella «zona mistilingue», ed entrò nella scuola del villaggio (tedesca, naturalmente). Interrogò un allievo, poi due, poi dieci, poi tutti, stupito dal dover constatare questo fatto: che dei 141 alunni della scuola 136 erano italiani, perfettamente italiani, inequivocamcnte italiani. Quella scuola tedesca conteneva il 97.50 per [p. 60 modifica] cento di italiani di razza, di nome e di lingua. È vero che le statistiche austriache affermavano che Laghetti era tedesco, ma fra le cifre dell’Austria e la verità toccata con mano, il Commissario generale civile, ancora fresco di ufficio, reputò che la verità fosse degna di qualche preferenza. Abbandonandosi perciò incautamente alla logica e al buon senso, virtù inconciliabili con la politica dello Stato, reputò ingiusto che delle genti italiane in Italia dovessero ricevere una istruzione tedesca destinata a germanizzarle, e, forte dei suoi poteri e della sua coscienza, ordinò senz’altro che la scuola di Laghetti si trasformasse da tedesca in italiana. Semplicissima — direte voi. Aspettate.

La condizione di Laghetti è su per giù quella di quasi tutti i paesi fra Bolzano e Salorno e nelle valli ladine, i quali sono italiani o ladini di fatto e tedeschi di scuola e di censimento. (Una parentesi a proposito di censimento. L’ultima volta che si fece il «catasto» della popolazione, nel 1910, ben che si fossero chiamati «tedeschi» tutti coloro che conoscevano qualche parola tedesca, il numero degli italiani nel così detto Tirolo tedesco risultò ancora così esorbitante a giudizio delle I. e R. autorità che queste ordinarono una parziale revisione. Rivedendo, si stabilì non solo che tutti gli allievi delle scuole tedesche — e non ce n’erano altre — fossero considerati tedeschi, ma che anche le famiglie di detti allievi venissero in blocco registrate come tedesche, non potendosi ammettere che, [p. 61 modifica] in opposizione alle leggi della natura, dei ragazzi tedeschi potessero essere siati messi al mondo da genitori di un’altra razza. Chiusa la parentesi). Dunque, la condizione di Laghetti essendo comune a molti altri luoghi, appariva chiaro che la riforma modestamente iniziata dal Commissario generale civile in una piccola scuola di una frazione rurale sarebbe stata applicabile, se non trovava ostacoli, a tutto l’organismo scolastico che l’Austria aveva creato per trasformare italiani e ladini in giannizzeri del germanesimo. La questione di Laghetti acquistava di colpo un’importanza nazionale. Il Deutscher Verband, dominatore delle amministrazioni locali, entrò in azione.

Aprì le ostilità il municipio di Egna. Si oppose alla italianizzazione della scuola di Laghetti in nome della Schulverein. Voi sapete che la Schulverein è una vasta e ricca associazione pangermanica che per intedescare metodicamente le razze attigue erigeva dei magnifici edifici scolastici e li regalava ai comuni a patto che vi si alloggiasse l’insegnamento tedesco. Se si mutava insegnamento la Schulverein ripigliava la scuola. Simili contratti, contrari all’interesse e al diritto nazionali, intervenuti fra un’associazione straniera e dei municipi d’Italia sarebbero legalmente decaduti se le cose austriache decadessero in Italia. Il Commissario generale civile offrì un prudente compromesso: propose di non escludere completamente l’insegnamento tedesco dalla scuola di Laghetti. Il [p. 62 modifica] municipio di Egna rifiutò ogni transazione e stabilì di impedire ad ogni costo la trasformazione della scuola.

Era la ribellione. Il Commissario generale civile fece l’unica cosa che poteva fare: sciolse il consiglio comunale di Egna e insediò al suo posto un commissario regio. Ma la lotta iniziata dal municipio, bene organizzata, si svolgeva automaticamente. Le maestre di Laghetti, delle scuole austriache, rifiutarono di consegnare e di abbandonare la scuola. I carabinieri intervennero e le portarono alla stazione. Arrivarono gl’insegnanti italiani e non trovarono alloggio. Il parroco, l’ex-sindaco e qualche signorotto avevano girato da casa a casa impartendo benevolmente istruzioni. Gl’insegnanti italiani si contentarono di una soffitta. Ma alla fine, però, la scuola era italiana. Sì, ma non aveva più scolari.

A questo punto si era organizzato lo sciopero della scolaresca. (Una parentesi a proposito dello sciopero della scolaresca. Tempo fa la sezione di Bolzano della Schulverein, sempre viva, prospera e autorevole, inviò a qualche Consiglio scolastico della zona mistilingue l’invito a mettere in opera tutte le influenze possibili per impedire che la scuola elementare governativa italiana fosse frequentata. L’invito era firmato dal famoso Perathoner, l’inamovibile borgomastro di Bolzano che, in virtù della legge austriaca, è investito dei poteri politici di un sottoprefetto — sottoprefetto [p. 63 modifica] d’Italia ora —. Il Consiglio scolastico appose sotto l’autorevole firma il suo sigillo d’ufficio — ufficio di Italia ora — e fece circolare il documento, divenuto ufficiale, da famiglia a famiglia, con pieno successo. La scuola italiana fu disertata. Chiusa la parentesi). La scolaresca di Laghetti, ordinatamente, se ne andò alle lezioni tedesche di Egna e di Salorno. Il Commissario generale civile, allora, applicando i regolamenti austriaci vigenti, impose una multa alle famiglie che non mandavano i loro figli alla scuola del paese. Era la fine della rivolta. Le cose rientravano nell’ordine e i ragazzi nella scuola. La battaglia del Deutscher Verband pareva perduta.

No. Rimaneva al Verband di farsi valere, per dirla come Rabagas, nel solo punto del mondo dove i suoi meriti fossero riconosciuti: a Roma. Scavalcando il Commissario civile, ricorse al Governo e sfoderò una comoda vecchia e ignota decisione del Consiglio di Stato di Vienna secondo la quale la nazionalità dei felici sudditi della duplice Monarchia, nazionalità che per legge era definita dalla lingua d’uso, poteva, occorrendo, essere anche stabilita a scelta degli interessati. L’autorità del benemerito e defunto Consiglio di Stato di Vienna è troppo grande sulle cose italiane perchè il Governo d’Italia non riconoscesse immediatamente che tutti gl’italiani di Laghetti sono semplicemente dei tedeschi. Se parlano italiano è per un lapsus linguae che bisogna correggere. L’imposizione delle multe [p. 64 modifica] scolastiche, misura iniqua, fu ritirata; delle multe pagate venne ordinato il rimborso. Un senso di orrore contro l’inqualificabile tirannia del Commissario generale civile si propagò in alcuni ambienti politici e la parola commossa dell’on. Turati, che non gridava ancora «Viva l’Italia!», alla vigilia dell’annessione portò al Parlamento l’espressione della solidarietà socialista alle vittime della violenza imperialistica italiana, a quei poveri «tedeschi» perseguitati per aver voluto sottrarre i loro figli all’insegnamento impartito nella lingua dello straniero oppressore. La battaglia era durata quasi un anno, ma finiva col trionfo del Deutscher Verband.

Generoso nella vittoria, il Verband si contentò che l’insegnamento tedesco continuasse in tutte le classi della scuola di Laghetti salvo in quelle inferiori, dove l’italiano fa poco danno visto che si parla in famiglia. Ma, considerato che a Laghetti non si ripeteranno imprudenti ispezioni di Commissari generali, fra il parroco, qualche monaca austriaca di ritorno e altri ingredienti, si è stabilita una interessante guerriglia di cui gli insegnanti italiani sono le oscure vittime. Quanto al disciolto consiglio comunale di Egna, a guisa di cerimonia espiatoria fu decretata la sua ricostituzione. Il procedimento è nuovo in Italia, ma può darsi che vi sia qualche decisione favorevole del Consiglio di Stato di Vienna. Appena rinsediato, il sindaco (che si chiama Longo, forse da Longobardo) protestò, [p. 65 modifica] in italiano sua lingua, di non riconoscere gli atti del Commissario regio usurpatore, e fece cancellare la parola italiana «Municipio» che era stata dipinta sulla facciata della sede comunale. Invitato a ripristinarla fece dipingere sotto alle grondaie, a sinistra, in piccolo, un «Muni», e a destra un «cipio». Scherzi.

Così il Governo è riuscito ad abbassare con un colpo solo l’autorità del Commissario generale, il prestigio della nazione e la dignità della nostra cultura. Dopo ciò possiamo stupirci di quel che avviene nell’Alto Adige? Perdute così all’italianità le scuole comunali delle regioni italiane, la istruzione italiana è rimasta confinata a scuole elementari governative, non obbligatorie, le quali, create senza mezzi, prive di materiale, allogate in povere dimore, non hanno allievi, o quasi, e non riescono ad essere che degl’istrumenti di discredito. Meglio niente. Almeno il niente non è un termine di paragone. Mancano persino insegnanti perchè, salvo onorevoli eccezioni, i migliori non lasciano i buoni posti nelle vecchie province senza un compenso, e il Governo, come compenso, ha deciso di togliere ai maestri italiani di quassù persino quelle sei povere lirette quotidiane che rappresentano la loro indennità straordinaria.

Queste scuole si rifugiano dove possono, in stalle, in rimesse, in casupole; non si sa dove imbucarle; chi potrebbe ospitarle non lo fa non avendo l’incitamento di un potere e di un prestigio. I migliori [p. 66 modifica] edifici sono comunali, e per sistemare qualche scuola superiore, come a Bolzano, il Commissario generale civile aveva ricorso eccezionalmente alla requisizione. Ma ora il borgomastro di Bolzano ci ha intimato lo sfratto. Egli scaccia l’Italia dai locali municipali come una inquilina molesta. Può farlo, dopo che una recente sentenza del Consiglio di Stato ha negato al Commissario generale persino la facoltà di requisire locali per uso pubblico... Che più?

Capisco, voi credete che si tratti ancora del Consiglio di Stato di Vienna. No, questa volta è quello di Roma. Ma fa lo stesso.