Un giorno a Madera/II. Un giorno a Madera
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II.
UN GIORNO A MADERA
Alla vigilia del nostro arrivo a Madera, la gioia di William era piena di agitazione; pareva convulsa. Parlava interrotto, si chiudeva nella sua cabina cento volte al giorno, e cento volte risaliva sul cassero. Molte volte nella giornata consultò il suo orologio, sedette a mensa cogli altri, ma di certo non avrebbe saputo dire ad anima viva con chi avesse bevuto o mangiato. Passò la notte sul cassero.
Alla mattina del 17 tutti i passaggeri erano in piedi, divorati dalla stessa curiosità di veder la terra, di guarire ad un tratto dalla lunga malattia della noia marina. William non c’era; e per quanto poco io lo conoscessi, capii il perchè di quell’assenza. Egli, di sicuro, stava spiando la terra dal finestrello della sua cabina; aveva un orizzonte più ristretto di noi, ma lo vedeva tutto solo; non sentiva intorno a sè il modesto attrito della turba indifferente, e l’armonia del suo cuore non era turbata dal cicaleccio dei profani.
Al primo apparire, il paradiso di Madera sembrava piuttosto una scena dell’inferno dantesco. Masse gigantesche di basalti neri neri e rupi rugose coi piedi nel mare, lacerate, contorte, senza un ciuffo d’erba, senza una casa, e le onde spumeggianti si rompevano fragorose ai loro piedi. Qua e là presso la costa isolotti neri anch’essi, senz’alberi, senza fiori, corrosi dalle onde, spezzati e frastagliati, quasi rovine di un mondo minato dal fuoco. Si giunse al Ponte Saô Lourenço, si lasciarono alla sinistra le tre isole che portano nel nome la loro storia molto semplice e triste: Desertos: in pochi momenti si raggiunse un promontorio di basalto, più grosso degli altri, il Cabo Garajaò. Quel capo segnava i confini del Paradiso.
Passato il Capo Garajaò un profumo di giardino fiorito ci venne incontro colle brezze della terra, e quella terra era un incanto, era un sorriso di orti e di ville, di campi verdeggianti e di boschi bizzarri; era una ghirlanda di tutti i fiori, uno di quei quadri di tutti i colori, che rallegrano il cuore dell’uomo e gli fanno tirare profondo e riposato il respiro.
Pochi momenti dopo, eravamo dinanzi a Funchal, la capitale dell’Isola, che sembrava mollemente adagiata fra i campi di canne da zucchero e di ignami, fra gli orti più cupi dei nostri alberi europei e i boschetti fantastci della banana dalle foglie gigantesche e vellutate: e intorno intorno si apriva un grande anfiteatro di monti altissimi, vere rupi di giganti: e poi a cornice del quadro due oceani forse troppo grandi per quel nido d’amori: l’oceano del mare e l’oceano del cielo: e in quel momento non avreste saputo dire quale dei due più s’avvicinasse all’oltremare e allo zaffiro.
Io passai ben tre volte dinanzi a Madera e sempre sentii prorompere dal petto dei più volgari viaggiatori un grido dell’anima: perchè non ho io una casuccia in questo paradiso?
Le più grandi voluttà della vita son tutte eguali trovate per via come un fiore smarrito allora allora dal seno di una giovane sposa; ci danno l’ebbrezza di un lampo e sen vanno, senza che la nostra mano irrequieta possa arrestarle o richiamarle; sen vanno a perdersi nel mondo dell’infinito, come nuvoletta che si consuma negli spazii del cielo.
L’incanto di quella vista doveva durar poco; un gridare di cento bocche, un pandemonio di cento bestemmie portoghesi, aspre d’accento e più aspre di senso ci richiamarono al bisogno di sbarcare, di trovarci una barchetta fra le tante che impertinenti e schiamazzanti battevano il loro capo contro il Thames. E poi fra gli urli e le grida, appena sbarcati dovetti a forza aprirmi la via fra gente mezzo nuda che mi offriva un cavallo; e gente dalla giubba che mi offriva un albergo; e venditori di bastoni e venditrici di merletti; e un mondo d’altri uomini e d’altre donne che in ottimo portoghese, in pessimo francese, e in cattivo inglese volevano tutti qualcosa da me e senza che io volessi alcuna cosa da loro.
Consummatum est; l’istante della voluttà era consumato, ma io l’aveva scritto in quella parte del cuore dove nulla si cancella. Nel bilancio delle forze della vita otto giorni di navigazione erano stati compensati ad usura dalla rapida fantasmagoria del panorama di Madera: ora la realtà della vita mi chiamava alla difesa personale, allo studio pratico di Funchal; infine la poesia cedeva il posto all’amministrazione della vita. William non era sbarcato con noi.
Un raggio di poesia ebbi anche nella colazione; un bicchiere di antico vino di Madera, di quel vino che in quell’epoca era già morente e che si sorbillava con gelosa avarizia da quei fortunati che lo conservavano nei segreti archivi delle loro cantine; e poi una tazza di caffè, come confesso di non aver bevuto mai in nessuna parte d’Europa, d’Africa o d’America. Mentre lo stava sorbendo con voluttuoso raccoglimento, mi ricordo di aver fatto una serena meditazione sulla efficacia dell’educazione. Quel caffè non era di Moka, non era di Yungas: era modestamente cresciuto nell’orto cittadino del signore che mi offriva la sua cortese ospitalità, ma egli stesso con amorosa cura ne aveva veduto maturare i grani ad uno ad uno; e ad uno ad uno egli stesso li aveva raccolti, quando la sua lunga esperienza glieli aveva mostrati degni di entrare in quelle sue tazze dorate che venivano dalla China.
Pochi momenti dopo aver sorbito quel caffè e aver fatto quella filosofica meditazione sull’onnipotenza della scuola a migliorare le cose di questo mondo, io mi trovava a cavallo, come parte integrante di una comitiva di passaggieri del Thames che si eran proposti di fare una gita al Palheiro do Ferreiro, villa del conte di Carvalhal, celebre patrizio portoghese che introdusse le prime rane in quell’isola, infelicissima prima di lui di non possederne.
Cavalli e cavalieri impazientissimi si diedero ad attraversare le vie di Funchal, e per quanto il profumo dall’aperta campagna mi attraesse irresistibilmente, dovetti fermarmi dinanzi ad alcune botteguccie pittoresche, nelle quali si vendeva ogni cosa vendibile e dove il popolo si accalcava a comperare pane, vino e ogni cosa necessaria alla vita. Quelle vendas sono il miglior luogo per studiare il popolo minuto di Funchal, e là vedete le vecchie maderese che tutte tiran tabacco, entrare a comperarsi il loro alimento nervoso, a ciangottare confusamente fra una presa e l’altra; là trovate raccolti l’arrieiro, il mulattiere, il contadino, che bevono il loro bicchierino di aguardente.
Sulla porta d’ogni venda stanno scritte tre iniziali cabalistiche P. A. V. che rappresentano i grandi bisogni della vita umana: Paô, Aguardente, Vinho (pane, acquavite e vino). Altre volte leggete Differentes bebidas.
Già abbiamo attraversato la Rua da Carreira, il corso, il Toledo di Funchal, e già siam fuori della città che coi suoi sedici mila abitanti non ci può trattener di certo molto tempo nelle vie, e qui dove siamo il giardino incomincia, perchè tutta l’isola è un giardino. Io mi sono scostato di pochi passi dai miei compagni, perchè voglio solo, tutto solo godermi i profumi di quella natura ricchissima. Andiamo ascondendo per rapide strade chiuse da muriccioli sconnessi, cavalchiamo fra campo e campo; ma qualche anima gentile accanto al pane dell’uomo ha seminato i fiori, e di qua e di là cadono scapigliati dai campi cespugli di eliotropii e di geranii, di gelsomini e di rose, tutti fioriti. Spesso il nostro capo è all’ombra di una vôlta intrecciata di coprifogli e di passiflore. Mi rizzo sulle mie staffe e ne mangio i frutti aromatici, mi piego a destra e a manca e a piene mani faccio bottino di rose, di eliotropii, di fiori dai mille colori. L’abbondanza giustifica il furto. I miei compagni, le mie compagne raddoppiano il bottino, nè la natura feconda appare spogliata dalla nostra rapina. Le nostre mani non possono trattenere la preda e ci diamo ad una guerra di fiori, gettando rose contro garofani, e innondando i capelli e le spalle delle signore di gelsomini e di viole. L’ebbrezza del profumo ci inonda; ed io di quando in quando mi rivolgo indietro e guardo l’Oceano, e confondo il profumo dei fiori coll’acre sentore dell’onda marina.
Per lungo tratto la strada che ci conduce al Palheiro è ripida e non si può camminare che al passo; ma appena si fa meno erta, ed io mi sento il bisogno di spronare il mio cavallo, quasi volessi sprofondarmi in quella natura incantevole, in quel mar di delizie, mi accorgo che il mio arrieiro si è attaccato colle sue due mani alla coda del mio cavallo e colle gambe pendenti si fa trascinare nella più buffa maniera del mondo. Mi metto a ridere, e alla signora che mi sta vicina faccio osservare che anche il suo cavallo si trascina dietro la strana appendice di un arrieiro. Si ride insieme, si ride fragorosamente, ma i due arrieiros, benchè portino la loro carabuza, berretto di panno, azzurro di fuori, scarlatto di dentro, con un lungo codino ritto ritto; berretto così piccino, che copre appena l’estremo cocuzzolo del capo, vero solideo buffo che in paese caldissimo sembra il cappello più paradossale del mondo; ad onta di tutto questo, gli arrieiros stanno serii al loro posto d’onore e si fanno portare, sia ch’io vada al trotto o spinga il cavallo al galoppo.
Però poco a poco divento serio anch’io, e tentando di portoghesare il mio italiano, dico a quel signore che mi sta di dietro che vorrei cavaleare solo; ma egli o non capisce il mio portoghese o non vuol capirlo, ciò che conduce allo stesso risultato. Non perdo però la pazienza e mi studio di migliorare il mio portoghese. Inutile fatica! L’arrieiro è sempre penzolante alla coda del mio cavallo. Qui la pazienza si perde, il mio portoghese si smarrisce e bestemmiando in buon italiano, dò mano alla lingua universale, alla lingua che affratella gli uomini o ne fa una sola famiglia, alla lingua dei segni. Dò col mio scudiscio due o tre colpi sulla mano dell’arrieiro, che, bestemmiando alla sua volta, si distacca dalla preda e mi lascia solo col mio cavallo.
Non l’avessi mai fatto! Quell’appendice vivente pare fosse necessaria al buon andamento delle cose, perchè appena se ne fu distaccata, il mio cavallo addentò il freno e via fuggendo fra muri e muriccioli, senza che io lo potessi frenare un momento. La mia posizione era difficile; ma pochi minuti dopo divenne difficilissima. Il cavallo si gettò ad un tratto in un sentiero di traverso che appena appena lo lasciava passare e rasentava l’orlo d’un abisso. I miei piedi si rompevan contro le pietre del muricciolo; i miei occhi si smarrivano entro un abisso di centinaia e centinaia di metri, e il mio cavallo, sbuffando e pieno di schiuma il petto, correva come fosse indiavolato. Fu il lampo d’un minuto; tutta la mia forza era raccolta ad un sol fine: quello di tenermi in sella; ma il mio cervello vagabondo giunse a formulare questo pensiero che non potrò più dimenticare: se le mie ossa fra un minuto si trovassero giù nel profondo di quell’abisso, che cosa proverei? Sentii un freddo profondo, subitaneo, che, come brezza improvvisa sul lago, mi corruscò per tutto il corpo.
Un momento dopo il cavallo era in mio potere, e avendo smarrito la via e i compagni mi trovai in una bella strada, di lieve pendio, larga, aperta fra campi di ignami e di zucchero.
Il mio cavallo era sudato, ma lo era anch’io. — Dinanzi a me stava il mare che mi pareva vicino, e sul suo piano di un azzurro senza nome una bianca vela sembrava folleggiare tranquilla e lieta. Ad un tratto allo svolto della via vedo dinanzi a me, ma lontano forse cento passi, una giovane signora a cavallo, tutta sola. Mi pareva sognare, mi credeva in pieno Ariosto. Il cavallo andava al passo, e la signora, allentate le briglie sul collo, posava come persona stanca o malata, piegata sopra sè stessa. Il corpo era sottile, ma elegante, coperto d’un lungo vestito azzurro all’amazzone. Il collo sottile col capo inclinato anch’esso sulla spalla: da un cappellino di velluto nero e ornato d’una penna di fagiano piovevano sulle spalle folti capelli biondi.
Volli mettere al trotto il mio cavallo per raggiungere quella fantastica apparizione, ma un’altra volta il destriero, non sentendosi moderato nei suoi furori dal contrappeso vivente, si slanciò come saetta lungo il cammino, raggiunse la signora in un baleno, ed io ebbi appena tempo di accorgermi, quando l’ebbi avanzata, che anche il di lei cavallo preso da subita emulazione si era dato alla stessa corsa furiosa. Tremai per la signora, ma io ero impotente a tutto; perchè sulle ali del mio demone correva e correva sempre.
Appena potei con tutta la forza delle mie mani temperarne la foga, sentii dietro a me il galoppo d’un altro cavallo; guardai, ma la sella era vuota. Non pensai più ai capricci del mio cavallo, volsi le briglie e a pochi passi sull’orlo d’un campo vidi la bella signor distesa al suolo e svenuta.
Là dov’era caduta non v’eran pietre; sperava che nulla di male le fosse accaduto; balzai da cavallo, corsi ad una vicina sorgente e colla mia barcuccia di pelle portai dell’acqua là dov’era, e le spruzzai alcune gocce sul volto pallidissimo. Raccolse un braccio che teneva ancora in pugno uno scudiscio dal pomo d’argento e sospirò, ma non rinvenne.
Allora pensai di slacciarle il vestito, ma benchè avessi ventidue anni, non osai, tanto mi batteva forte il cuore per l’emozione e le spruzzai nuova e molta acqua sul bel viso. Aperse gli occhi e, veduto che mi ebbe, di pallidissima divenne rossa e non seppe che richiuderli e mormorare un: Sir I thank you.
Quella donna giovinetta era un miracolo di delicata bellezza e di melanconia profonda. I capelli d’un oro castagno si eran disciolti dalla reticella e le cadevan ani collo e sul petto con ampio volume. Li raccolse e con uno sguardo fugace s’accorse che nella caduta assai più del piede si era scoperto, e col corpo addolorato si coperse; potendo assai più il pudore che il dolore.
Chinato al suolo dinanzi a quella divina creatura, felice di poterla aiutare, ebbi pochi momenti di quella delizia, perchè per quella stessa via ond’io era venuto, sentii avvicinarsi il trotto d’un cavallo.
Era William, col volto pallido, improntato da una angoscia senza nome.
Mi riconobbe, si fermò, e appena potè gettare uno sguardo al suolo, sentii due gridi nello stesso tempo, come non ne aveva sentito mai e come forse non ne sentirò più nella mia vita. William, Emma!...
Quanta passione, quanto dolore, quanta gioia, quanto delirio in quei due gridi! Io non ne sentii nell’anima che l’eco lontano, ma ne ebbi sgomento, e precipitandomi sul mio cavallo, dissi a William:
— Signore, abbiate cura della poveretta. Vado a raggiungere il suo cavallo.
E lo raggiunsi e lo ricondussi a quelle felici creature che colle mani strette si stavano guardando e piangevano, e nel velo delle lagrime brillava loro in volto una passione ardente, una gioia senza confine.
Chi può ricordarsi ora di quel che mi dicessero quegli innamorati?
William non poteva parlare e forse mi singhiozzò qualche parola. Credo che mi stringesse la mano e mi chiamasse suo amico, ma ricordo che me la strinse anche Emma.
Mi affrettai a lasciarli soli, dopo aver saputo che la signora non si era fatta la più piccola contusione e che non avevano bisogno di me.
Ritornai a Funchal commosso come chi ha assistito ad una grande catastrofe, ad una scena sublime di passione, di grande sventura o di ineffabile gioia. Eppure quella catastrofe non era che l’incontro di un uomo e d’una donna. Ma i maggiori avvenimenti dei popoli e degli individui non nascono, non si trasformano non si sciolgono con questa semplicissima combinazione: l’incontro d’un uomo e d’una donna?
Il Thames non levò l’ancora che a tarda sera. Tutti ritornavano a bordo cantando e ridendo, felici della loro giornata; gli uomini riscaldati dal vino vulcanico dell’isola, le donne inebbriate dal profumo dei fiori, esaltate dal moto dei cavalli ardenti di Madera; tutti colle mani piene di canestri eleganti di paglia, di ninnoli graziosi di legno, di merletti bellissimi; tutti contenti, chiassosi, cianciosi.
Io invece era nascosto nella mia cabina e guardava ogni schifo che si spiccasse dalla riva per sapere se in esso vi fosse il mio William. E vedete, mistero del cuore umano, io desiderava ardentemente di vederlo ritornare, benchè solo. Tremava, che rimanesse nell’isola, e io lo voleva a bordo ancora con me, benchè solo e benchè infelice.
Dinanzi a quei due mi sentiva uno straniero, un intruso; ma mi pareva che anch’io dovessi riscaldarmi al sole di quella passione, quand’anche non avessi dovuto essere che il cagnolino che ai piedi del leone lecca, ammira ed ama.
Ma William non venne a bordo nè solo nè accompagnato. La notte era profonda, ed io chiusi con dolore la finestrella della mia cabina.