Un giorno a Madera/III. Un'altra volta in mare
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III.
UN’ALTRA VOLTA IN MARE.
Tutta quella notte sognai di William, e, devo dirlo, anche di Emma, e più spesso di lei che di lui. Se il mio nuovo amico era per me un tipo vivente della forza, dell’intelligenza, della bellezza, quella creatura azzurra apparsami dinanzi a Madera per pochi minuti, sospesa fra l’azzurro del cielo e l’azzurro dell’Oceano, era per me un’immagine dell’ideale incarnato in una donna; e in quella fragile creatura, che aveva avuto per un momento stesa dinanzi a me fra le erbe aromatiche di quell’isola incantata, tanti misteri ve- nivano ad intrecciarsi, tante passioni a confondersi, che davvero l’anima più volgare del mondo se ne sarebbe sentita commossa. La mia fantasia batteva le ali impazienti fra quei misteri e le immagini più folli mi tenevano in perpetua guerra. Dirò tutto in una parola sola, qualunque fosse il destino degli amori di William, io in quella notte lo invidiava, lo invidiava fortemente.
Il dì appresso mi alzai innanzi il sole, domandai allo stewart se tutti i passeggeri fossero ritornati a bordò: Mi rispose di sì, ma die il bell’inglese (così la gente di servizio chiamava il William) era ritornato a notte avanzata, quando le àncore erano già levate, e il Thames incominciava a muovere le sue ruote. Il capitano lo aveva rimproverato duramente ma egli non se ne era offeso, nè aveva risposto parola. Era pallidiimo, e lo stewart che lo aveva guardato fisso lo credeva malato o fuori di sè.
William non uscì dalla sua cabina per tre giorni. Lo stewart, il medico, il capitano vi erano entrati, chiedendogli se avesse bisogno di qualche cosa: aveva sempre risposto di no, e li aveva ringraziati. Io mi aggirava intorno alla sua piccola prigione, agitato da continua ed aspra guerra fra il bisogno di consolare quell’uomo grande e infelicissimo, e il rispetto che sentiva per quel dolore più grande di lui. Più d’una volta giunsi fino alla porta, osai toccarla, ma non osai aprirla, e me ne venni addietro più confuso, più imbarazzato di prima. E chi in simili casi può aver l’orgoglio di giudicare che cosa si debba fare?
Il quarto giorno però entrai coraggiosamente nella cabina di William, Il mio coraggio era nato ad un tratto da questo mio ragionamento. Se la mia compagnia gli fa male, con un gesto solo, coll’accento di una parola me lo potrà far intendere subito e il suo dolore sarà stato brevissimo. Se invece mi desiderasse, se avesse bisogno di parlare di Emma, con nessuno lo potrebbe egli fare se non con me, ed io gli porterei un conforto ineffabile.
Con un accento che avrebbe potuto farmi perdonar tutto, gli dissi:
— William, avete voi bisogno dì qualche cosa? Voi soffrite molto...
— Sì, mio amico, soffro assai ed ho bisogno di voi.
Non posso dirvi quanta gioia provassi in quel momento. Mi sedetti accanto a lui che era coricato, senza cuscini, vestito ancora come stava a Madera: tutto rabbuffato, cogli occhi rossi, pallido, sparuto, come se fosse stato malato un mese.
Gli strinsi ambe le mani, ed egli mi mise un braccio al collo, mi strinse al petto e pianse lungamente. Era l’ultima sconfitta di un animo forte dinanzi ad un dolore assai più forte di lui. Era il destino che piegava la cervice ad uno dei caratteri più gagliardi che io avessi mai conosciuto. L’antica mitologia così piena di filosofica poesia aveva ben avuto ragione, incarnando il destino in un Dio.
Rimasi tre lunghe ore con William, ed egli mi fece la storia dei suoi dolori. Era uno dei maggiori che possa soffrire l’uomo, ma era di quei dolori sublimi che elevano l’uomo, e che lo fanno superbo di sentirli. Era una storia semplice come tutte le cose grandi; la lotta di una passione con un dovere; io vi sentiva dentro tutta l’umana debolezza e tutta l’umana grandezza; tutto l’uomo: tutta quanta la povera creatura fatta di fango e di una scintilla che i miti di tutte le religioni hanno raffigurato come un semidio, mezzo Dio e mezzo animale, un vero anfibio che vive in cielo... e nel fango.
Da quel momento la mia amicizia per William divenne piena di venerazione. Io lo stimava assai più che non l’amassi, ed io l’amava con tutto il caldo dei miei ventidue anni, con tutto l’affetto che mi dava la naia solitudine, l’essere a molte miglia dal mio paese, da mia madre.
S’era sempre assieme: io non pensava più al turbine che mi aveva strappato dal suolo europeo, nè all’incerto avvenire che mi aspettava in America. Io mi era fatto l’eco di William, e con lui si parlava sempre delle stesse cose. Il suo passato, il suo avvenire, tutte quante le forze d’una mente vastissima, colta, di un cuore grande come il mondo, erano concentrate in un solo crogiuolo, e non ardevano che per un amore, non si consumavano che per una donna; ma ella ne era ben degna.
Se io era l’eco di William, non era però l’eco che lusinga e accarezza, ma che ajuta a dar vigore ai santi propositi. Dinnanzi a quell’uomo, dinnanzi a quell’amore sublime senza speranze e senza conforti, il mio carattere si era ritemprato e mi sentiva più superbo di prima d’esser uomo. E così, quando ad un tratto i magnanimi intendimenti del mio amico vacillavano, o si scioglievano in un mare di tenerezze e di amore, io lo scuoteva, gli rammentava la parola data, gli ricordava le ultime parole che la sua Emma più forte di lui aveva detto a Madera:
William, combatti e attendi.
Egli aveva preso il suo biglietto per Madera, poi lo aveva ripreso per San Vincenzo. Voleva tener la sua parola di continuare il viaggio e nello stesso tempo voleva rimanere il più vicino possibile a lei. A. S. Vincenzo ebbe orrore delle spiaggie deserte, di quella terra che sembra arsa per secoli da un fuoco d’inferno che non le lascia una zolla di erba, un velluto di muschio. Continuò il viaggio fino a Pernambuco.
Ogni giorno però io gli diveniva più necessario; e lottando coll’amicizia e coll’amore giunse fino a Rio de Janeiro. La divina bellezza di quel paese vinse ogni esitanza, e William decise di fermarsi al Brasile. Passai con lui una settimana in uno dei più bei paesi del mondo, e dinanzi a cui Napoli e Costantinopoli abbassano modestamente le loro armi; e poi mi separai da lui.
Fu per me uno strappo crudele del cuore; non avrei voluto distaccarmi mai da William e nello stesso tempo, gracilissimo e malaticcio, sentiva che il clima del tropico mi avrebbe ucciso. Anche rimanendo a Rio de Janeiro pochi giorni con lui, non avrei potuto tenergli compagnia per molto tempo. Egli voleva viaggiare nell’interno del Brasile; voleva mettersi alla testa di imprese metallurgiche di colonie agricole; voleva tentar di seppellire sotto un cumulo di affari un’idea che lo consumava; voleva colla febbre del lavoro vincere un’altra febbre più ardente e più pericolosa.
Ci separammo colla sicurezza di rivederci, e questo pensiero ci rese men duro il nostro distacco. Eravamo giovani entrambi, e nell’età della speranza dovevamo rimanere entrambi parecchi anni nell’America meridionale; e perchè non ci saremmo noi riveduti e presto?
Questa cara lusinga non doveva avverarsi. Noi non ci siamo più riveduti.