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da cigualan a tasco

— Quando valicheremo le montagne, Josè?

— Doman l’altro a sera, e dalle loro vette vedremo, molto lontano, è vero, il termine del nostro viaggio! È una città d’oro, Messico! E sapete a che penso, luogotenente?

Martinez non rispose.

— Io mi dimando che cosa può essere avvenuto degli uffiziali del vascello e del brik che abbiamo abbandonati sull’isolotto.

Martinez sussultò.

— Non so!... rispose sordamente.

— Mi piace credere, proseguì Josè, che quei personaggi alteri siano morti di fame! Del resto, quando gli abbiamo sbarcati molti sono caduti in mare, e vi ha in quei paraggi una specie di pesce-cane, la tintorea, che non perdona davvero! Santa Maria! Se il capitano don Orteva risuscitasse, sarebbe il caso di nasconderci nel ventre d’una balena! Fortuna che la sua testa si è incontrata all’altezza del ghizzo, e quando le scotte si sono spezzate così singolarmente...

— Vuoi tacere! esclamò Martinez.

Il marinajo rimase a bocca chiusa.

— Ecco degli scrupoli a tempo e luogo! disse dentro di sè Josè; e soggiunse ad alta voce: «del resto, al mio ritorno, andrò a stare in quel bel paese del Messico! Vi si fanno delle bordate attraverso gli ananassi e i banani, e si urta contro scogli d’oro e d’argento!»

— È per questo che tu hai tradito? domandò Martinez.

— E perchè no, luogotenente? Le piastre mi piacciono.

Martinez fece una smorfia di disprezzo.

— E voi? soggiunse Josè.