Un bel sogno/I
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UN BEL SOGNO
I.
Non sono ancor trascorsi molti anni che in Brescia nelle tarde ore della notte, in una via poco frequentata, udivasi di sovente il suono di un pianoforte eccitato da una mano maestra.
Erano melodie spontanee soavemente malinconiche, vibrazioni patetiche che scorrendo sull’aria quali folate armoniche, andavano perdendosi lamentosamente a guisa di zeffiro che destandosi vigoroso ed ardito si smarrisce tra i fogliami delle siepi, e muore alitando un flebile sospiro.
Non era difficile l’accorgersi che quelle soavi modulazioni erano prodotte da un’abile mano che rispondeva interprete ad un gentilissimo sentire — Per concepire ed esprimere quel misterioso linguaggio che si chiama musica, bisogna avere il cuore suscettibile alle soavi emozioni, ed i concenti sublimi di quel pianoforte erano l’emanazione palpitante di una fantasia delicata, erano la voce, l’espressione di un sentimento puro, ineffabile, celeste.
Per quanto possa essere l’arte inerente all’uomo, nullameno l’artista vive si può dire di una doppia esistenza; l’arte è un’egoista, un’innamorata gelosa che si costituisce nella mente degli uomini un governo speciale, assoluto, determinato a certi momenti in cui tutte le altre facoltà dell’intelletto devono inevitabilmente sottomettersele — L’artista, il vero artista della fantasia, cessa d’esser uomo nel momento che crea, la sua mente sprigionandosi dalla cerchia troppo angusta in cui è costretta, erra libera negli spazi dell’infinito in cerca di emozioni da trasfondere ed imprimere nelle opere d’arte.
Egli è appunto in uno di questi momenti che noi sorprenderemo il giovane pianista Ermanno Alvise, giacchè era desso il gentile disturbatore del silenzio notturno, era desso che colle soavi melodie arrestava il passeggiero per quella via costringendolo ad assaporare sino all’estremo quei melodiosi sospiri.
Un salotto arredato con molto gusto, e di cui principale ornamento era un pianoforte verticale di elegante costruzione, un tavolino ripieno di scartafacci di musica, alcune sedie ed una poltrona che dall’ampia sua forma prometteva un comodo adagiarsi; ecco lo studio del nostro Ermanno il quale stava seduto al pianoforte colle mani erranti sulla tastiera nell’abbandono di chi tenta modulare i concetti che gli attraversano la fantasia.
Ermanno avea 25 anni, la sua statura era un medio, nè troppo alta nè troppo bassa; ciò che più colpiva in lui erano due grand’occhi bruni che spiccavano sopra il volto palliduccio e gramo; la sua figura non aveva nulla di straordinario, all’infuori di una leggiera mestizia che spiravagli dallo sguardo. —
Allorchè egli era rapito dalla corrente delle sue idee, le labbra si socchiudevano lasciando sfuggire un lieve sorriso di soddisfazione.
Dotato di un grandissimo amore per la musica, egli aveva di gran lunga superate le belle speranze concepite sul suo ingegno; al culto dell’arte ei dedicò i suoi primi anni, e giovanissimo ancora era salito in bella fama. Nessuno meglio di lui traeva accordi più soavi dal pianoforte, la musica da lui eseguita aveva l’impronta di un linguaggio misterioso, ed il fascino che sapeva esercitare sull’animo degli uditori era sì grande, che bene spesso era giuocoforza abbandonarsi colla mente a tutte le oscillazioni di quelle corde, che sotto le dita del giovane pianista fremevano d’un nuovo accento, ed accarezzavano l’udito siccome le patetiche modulazioni dell’arpa — Ma ciò che più di tutto distingueva Ermanno, era la sua abilità nell’improvvisare sul pianoforte. Allora la fantasia svincolandosi dalle strettoie di un concetto limitato in poche linee di stampa prendeva il largo negli spazi infiniti della sua feconda immaginativa; in questi slanci della mente appariva vergine ed intatto il genio dell’artista, che secondando l’impulso d’un cuore ardentissimo, ora strappava lacrime con un adagio flebile, delicato, quasi impercettibile che ricercava le fibre dell’ascoltatore, e carezzandole soavemente inspirava all’animo sensi di dolcissima mestizia — Ora come torrente che straripa, le note incalzavano le note, e tanto rapidamente, che pareva d’assistere allo spettacolo d’un temporale d’inferno, allo urtarsi impetuoso di schiere d’armati spronati ad orribile massacro.
Era bello Ermanno in quei momenti di abbandono, il suo sguardo stava sempre rivolto alle mani, che agilissime sorvolavano sui tasti con tanta grazia e delicatezza come si accarezzerebbe la chioma di una donna amata.
Da qualche tempo egli lavorava alla composizione di una fantasia nella quale stillava tutta la sua feconda inspirazione. Buona parte ne era fatta, ma la riuscita non corrispondeva mai alle esigenze dell’artista.
Passava ore intiere alla ricerca di una frase, diremo di più, ogni nota era l’oggetto di un paziente esame, ne provava tutte le vibrazioni, ne analizzava l’accento modulandola in mille guise finchè l’aveva collocata al suo vero posto — Era un lavoro lunghissimo, un raffinamento squisito del genio, un ricamo della fantasia.
Sorprendiamo Ermanno in una delle sue veglie. La notte era già di molto avanzata, eppure non se ne accorgeva; da più di un’ora le sue mani cercavano sulla tastiera un’idea inafferrabile che gli attraversava la fantasia senza poterla colpire. — Non solamente la parola si ribella ad esprimere tutto ciò che si concepisce; la musica siccome quella che presenta un campo più vasto nella regione delle idee, riesce sempre più indecisa nell’espressione del pensiero. Qual è l’artista che possa vantarsi di tradurre fedelmente le idee che gli sorgono dalla mente? Tutto ciò che si esprime in arte non è che una pallida riproduzione di ciò che si concepisce. Se le parole potessero tener dietro e concretizzare tutti i voli dell’immaginazione, sarebbe gran ventura per gli uomini di genio.
Tali riflessioni le faceva pure Ermanno che da molto tempo affaticavasi invano nel cercare la traduzione di un concetto troppo ardito per poterlo esprimere coi mezzi incompleti dell’arte. Già era passata la prima ora del mattino senza che l’ostinato artista pensasse che anche la natura esige i suoi tributi; ei non aveva sonno, la sua volontà era tanto fissa in quell’idea che non sentì neanche il suono di una voce che lo chiamava per nome. — Alla seconda chiamata però si scosse, ed alzandosi immantinente corse ad aprire la porta che introduceva in una stanza attigua alla sua sclamando:
— Hai chiamato mamma?
— Sì, rispose la voce.
— Attendi, porto il lume, e levata una candela dal pianoforte, ritornò nella camera della madre accostandosi premurosamente al letto.
— Ti senti forse male?
— No, no, rispose sorridendo la buona donna, sto benissimo, ho domandato perchè voglio che tu vada al riposo, è molto tardi ed hai lavorato abbastanza.
— Ma no, non sono stanco, ti assicuro che mi sento bene.
— Non importa, tu non sei troppo robusto figlio mio, dà retta a me, va al riposo, da bravo.
— Va bene, mormorò Ermanno sorridendo, vado, ma, per farti piacere.
Nella stessa camera eravi una specie d’alcova nascosta da un’ampia cortina; Ermanno aveva colà il suo lettuccio; vi entrò e poco dopo madre e figlio stavano immersi nel sonno. La madre era una donna sui cinquant’anni ancora ben conservata; in essa consisteva tutta la famiglia del pianista a cui da molti anni era mancato il padre. Non si potrebbero dire i sacrifizi che fece quella buona donna onde assecondare le inclinazioni artistiche del figlio, ma ne riceveva in compenso il ricambio di un’affezione figliale senza pari.
Quelle due creature vivevano l’una dell’altra; Ermanno non usciva mai a meno che non vi fosse costretto dalle sue faccende. Di giorno dava lezioni di musica, verso sera faceva una breve passeggiata colla madre, indi entrambi rientravano; egli si assideva tosto al pianoforte suo fedele amico, come diceva, la madre gli si poneva accanto, e stava ad ascoltare la musica finchè il sonno non le gravava le ciglia, poi se ne andava al riposo — Ermanno fermavasi ancora lunghe ore a studiare senza che per ciò il sonno della madre venisse menomamente disturbato; anzi quella buona creatura si addormentava dolcemente come in braccio ad una visione, fra i flebili accordi del pianoforte, e l’ultimo suo moto era un sorriso di compiacienza che le restava impresso sulle labbra.
Dall’epoca in cui Ermanno si accinse a dar lezioni, le sorti della piccola famiglia erano d’assai migliorate, e mercè un’assiduo lavorare, il figlio poteva procurare tutti i comodi alla madre — Ogni giorno si arricchiva d’un mobile quel modesto alloggio, e dopo molti risparmi erasi avverata una cara speranza; potendo finalmente il giovane artista far acquisto di un buon pianoforte, e rinunziare al suo vecchio tavolaccio.
Niuno più felice di quei due esseri che vivevano unicamente per consolarsi a vicenda. Accadeva talvolta che Ermanno dovesse passar la sera in qualche concerto, e la madre allora non si metteva a letto finchè egli non fosse di ritorno, lo aspettava se d’estate alla finestra, se d’inverno accanto al fuoco, tendendo l’orecchio a tutti i passi che risuonavano sulla via.
Nel seno di un’esistenza sì tranquilla Ermanno trovava le inspirazioni per l’arte sua, e nel silenzio della sua cameretta vegliava le notti studiando, confortato dal pensiero che mercè sua la buona madre riposava tranquilla e felice. Entrambi insomma godevano di una pace domestica rara ed invidiabile.
All’indomani di quella notte in cui Ermanno aveva protratto lo studio sino a tarda ora, mentre stavasene seduto al piano discorrendo colla madre, fu bussato alla porta.
— Avanti, rispose il giovane, volgendosi per scorgere chi v’entrava, oh sei tu Alfredo?... Che nuove?....
Un giovinotto vestito con molta eleganza e ricercatezza, entrava liberamente come uno che fosse di casa, e dopo di aver stretta la mano a mamma Alvise, si avvicinò ad Ermanno dicendo:
— Proprio io, ti disturbo forse?
— Eh! scherzi, tu sai che di te non mi prendo soggezione. La mia sorpresa attribuiscila all’essere qualche giorno che non ti vedo. — La tua famiglia come sta?
— Benissimo. Fui a Milano, non lo sapevi?
— Ma no, risposa Ermanno additando una sedia all’amico.
— Propriamente, sono stato a Milano per dodici giorni, in casa di mio zio a cui ho portata via la famiglia per farla passar qualche tempo con noi.
— Come, è in Brescia la signora Ramati?
— Sì; ho incarico di farti i suoi saluti. Per parte di mia sorella poi, debbo tirarti un’orecchio; a quanto ella mi disse, tu hai disertata la nostra casa.
— Chiedi scusa per me a madamigella Letizia, figurati che non ho ancora potuto arrivare a metà della mia Fantasia per piano solo, e sì che ci lavoro attorno di santa ragione.
— E che perciò, ne abbiamo forse noi colpa alcuna per abbandonarci così? — Ora poi, aggiunse Alfredo, spero che vorrai favorirci, tanto più che mia cugina muore per la voglia di sentirti; le parlai tanto bene di te.
— Come hai una cugina?
— Ma sì, la figlia dello zio, una giovinetta di diciassette anni, uscita che è poco dal collegio, bionda, bella e viva come una farfalla. Tu la vedrai con piacere; anzi venni apposta per dirti che stassera sei atteso. Mia sorella te ne prega, mia cugina te ne scongiura.
— Bada, disse Ermanno sorridendo, tu parli con troppo ardore di questa cugina.
— Che vuoi mio caro! è una fanciulla così viva ed amabile, che mi butterei sul fuoco per piacerle. — È convenuto, stassera ti aspetto.
— Senti Alfredo, non potresti dilazionare? Per questa sera avevo un’altro progetto.
— Impossibile, se tu non mi prometti di venire, non avrò più il coraggio di presentarmi a casa; mia cugina...
— E dalli.
— Oh senti, tu verrai ad ogni costo, perchè ho già impegnata la mia parola; anzi siccome conosco i tuoi gusti per la tranquillità, diedi ordine che per questa sera non si riceva alcuno; così saremo noi soli a bearci delle tue melodie. Ripassa se lo hai dimenticato quel tuo bellissimo notturno — Al chiaro di luna — Mia cugina è ansiosa di sentirlo. — Siamo dunque intesi, stassera alle sei ti aspetto, pranzeremo insieme.
— Impossibile, interruppe Ermanno, fino alle otto non sono in libertà.
— Perchè?
— Perchè alle sette ho un altro impegno.
— Allora alle otto, già di te mi fido...
— Sta sicuro.
— Addio.
— A rivederci.
Alfredo Ramati era un simpatico giovinotto di distinto casato; la sua famiglia era molto ricca, ma questa volta, come non avviene troppo spesso, le ricchezze andavano congiunte ad una bontà e compitezza veramente rara. — Il padre di Alfredo era stato avvocato di molta fama in gioventù, ed ora all’ombra della pace domestica si godeva i frutti del suo lavoro. Sua moglie era morta da parecchi anni lasciandolo con due figli, Alfredo e madamigella Letizia. Quest’ultima disimpegnava le funzioni di padrona di casa, e tutto veniva regolato secondo il di lei gusto.
Alfredo aveva una passione pronunciata per la musica, ed era legato ad Ermanno per vincolo di vera amicizia; il suo affetto e la sua ammirazione pel giovane artista andavano fino all’esagerazione, e non poteva parlare dell’amico senza dare in elogi infiniti.
Ermanno era si può dire di famiglia in casa Ramati, aveva libero accesso in qualunque ora del giorno, e talvolta per compiacere madamigella Letizia, si fermava sino a tarda sera.
Da qualche tempo però egli aveva sospese le sue visite unicamente per le soverchie occupazioni.
Alfredo per puro diporto era partito alla volta di Milano, ove si fermò qualche giorno presso suo zio, fratello dell’avvocato Ramati, lo zio Pietro, come lo si chiamava. Dopo viva istanze ottenne da lui di condurre la zia e la cugina Laura in Brescia per passarvi un po’ di tempo. — Come al solito Alfredo in causa del suo debole parlò sovente alla cuginetta dell’abilità e del talento di Ermanno, e tanto si esaltò nel magnificarlo, che nacque nella ragazza un desiderio ardentissimo di udire questo portento.
Ecco come stavano le cose, e perchè Alfredo si recò da Ermanno appena arrivato.
Ermanno dal canto suo aveva accettato volentieri giacchè riguardo a madamigella Laura, non eravi a prendersi soggezione. Partito Alfredo da casa sua, egli si rimise al pianoforte, e studiò lungamente. Nella giornata ripassò il suo notturno, ed alla sera verso le sei uscì a passeggiare colla madre. — Ecco qual era l’impegno di Ermanno, il dovere di amico non gli faceva scordare quello di figlio. — Alle otto Ermanno era sulla via che guidava al palazzo Ramati.