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e dopo di aver stretta la mano a mamma Alvise, si avvicinò ad Ermanno dicendo:

— Proprio io, ti disturbo forse?

— Eh! scherzi, tu sai che di te non mi prendo soggezione. La mia sorpresa attribuiscila all’essere qualche giorno che non ti vedo. — La tua famiglia come sta?

— Benissimo. Fui a Milano, non lo sapevi?

— Ma no, risposa Ermanno additando una sedia all’amico.

— Propriamente, sono stato a Milano per dodici giorni, in casa di mio zio a cui ho portata via la famiglia per farla passar qualche tempo con noi.

— Come, è in Brescia la signora Ramati?

— Sì; ho incarico di farti i suoi saluti. Per parte di mia sorella poi, debbo tirarti un’orecchio; a quanto ella mi disse, tu hai disertata la nostra casa.

— Chiedi scusa per me a madamigella Letizia, figurati che non ho ancora potuto arrivare a metà della mia Fantasia per piano solo, e sì che ci lavoro attorno di santa ragione.

— E che perciò, ne abbiamo forse noi colpa alcuna per abbandonarci così? — Ora poi, aggiunse Alfredo, spero che vorrai favorirci, tanto più che mia cugina muore per la voglia di sentirti; le parlai tanto bene di te.

— Come hai una cugina?

— Ma sì, la figlia dello zio, una giovinetta di diciassette anni, uscita che è poco dal collegio, bionda, bella e viva come una farfalla. Tu la vedrai con piacere; anzi venni apposta per dirti che stassera sei atteso. Mia sorella te ne prega, mia cugina te ne scongiura.

— Bada, disse Ermanno sorridendo, tu parli con troppo ardore di questa cugina.

— Che vuoi mio caro! è una fanciulla così viva ed amabile, che mi butterei sul fuoco per piacerle. — È convenuto, stassera ti aspetto.