Ultime lettere di Jacopo Ortis e Discorso sul testo della Commedia di Dante/Prefazione

Francesco Costero

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Ultime lettere di Jacopo Ortis e Discorso sul testo della Commedia di Dante Ultime lettere di Jacopo Ortis
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PREFAZIONE





Intorno agli uomini d’ingegno e d’animo grandi come Ugo Foscolo, sono sempre disparati i giudizii sia dei contemporanei come della posterità. Gli uni li alzano all’ultimo cielo, e gli altri li straziano con le più acri censure, quando non possano assolutamente sprofondarli negli abissi. Giulio Cesare, Dante Allighieri, Niccolò Machiavelli, Napoleone I e Giuseppe Mazzini furono fatti segno agli elogi più sperticati e alla critica più spietata, non meno del Foscolo. Questo scatenarsi delle passioni contro uomini tanto insigni non deve far maraviglia a chi guardi imparzialmente e con animo retto le cose di quaggiù, le quali il più delle volte sono operate e giudicate alla stregua degli individuali interessi. Quanti volumi non si scrissero intorno a quei cinque eminentissimi o capitani, o uomini di Stato o scrittori? Eppure dopo diciannove secoli si parla e si scrive ancora da parecchi di Giulio Cesare in modo differentissimo, quale esaltandolo come il creatore del moderno comune, e quale fulminandolo come l’uccisore della libertà di Roma. Tanta discrepanza di opinioni intorno ad un medesimo uomo è per me un indizio certissimo della sua grandezza, e degli interessi offesi o vantaggiati di coloro che lo biasimano lo encomiano. Infatti un uomo che stampi un’orma [p. 6 modifica]profondissima del suo passaggio sulla terra, non può non avere danneggiato e promosso a un tempo stesso le fortune di molti; ma egli segue la sua via, non mai deviando gli occhi dalla meta che vuole raggiungere a costo della sua pace ed anche della vita. Gli uomini di guerra che mettono in atto un’idea lungamente fomentata dai pensatori, fanno più sensibili le ferite da loro aperte e le medicine somministrate, perchè d’un effetto immediato; laddove gli scrittori che precorrono sempre col pensiero l’azione, non abbagliano quanto i primi, ma il beneficio delle loro menti non è meno efficace, e si estende e dura di più. Lo scrittore veramente grande vede tutte le deformità, tutto il vecchiume dell’umano consorzio, nel quale è costretto a vivere, e sente il bisogno e la possibilità di rinnovare, perchè la divina scintilla del suo pensiero gli rischiara le fitte tenebre dell’avvenire, e gli addita la via che lo ravvicina al porlo da lui solo veduto. Ma in quanti interessi, in quanti pregiudizj, in quanti errori non vibra i suoi colpi demolitori? Quanta tempesta di passioni violentissime non deve suscitare nel cuore dei più? Gli uomini che ne intendono le rette ragioni, sono in ogni tempo pochissimi, e non bastano a lottare contro la prepotenza dei molti. Indi avviene che lo scrittore eminente, il banditore imperterrito di nuove idee e di una vita nuova, benché ammirato quasi per intuito nelle sue pratiche virtù e nel suo divino intelletto dalla moltitudine inerte, rimanga sopraffatto dall’egoismo brutale dei potenti interessati che ne temono l’apostolato. E l’incendio delle contrarie passioni, fomentato dalla feconda parola del grande scrittore, non si spegne se non dopo molti e molti secoli, finché non rimanga più alcuna traccia delle instituzioni che fiorivano a’ suoi tempi, e non siano sradicati, dispersi gli errori, e instaurata nella sua nazione un’èra novella.

Il Foscolo fu uno di quei grandissimi uomini, che, accoppiando a un ingegno strapotente un’anima indomita e piena delle più soavi e più violente passioni, sentiva in modo straordinario l’amore della libertà, voleva la grandezza vera della sua patria adottiva, l’Italia, e solo, direi, fra tanti chiarissimi ingegni del suo tempo, ammaestrato alla scuola dei due insigni maestri, Dante e il Machiavelli, prevedeva la possibilità dell’unità italiana. Ei la voleva libera dalle sètte e dagli stranieri, ei la voleva grande [p. 7 modifica]e potente; e per ottenere il santissimo scopo vestiva l’assisa militare, affrontava la morte sui campi di battaglia. E quando le politiche vicende voleano ch’ei deponesse la spada, non rimaneva inoperoso, e dava di piglio alla penna, arme ben più potente del ferro, per combattere una battaglia terribile nei campi incruenti e fecondissimi del pensiero.

Il gran faro della Enciclopedia, che dalla Francia aveva sparso tanta luce in ogni angolo più riposto dell’Europa; la grande rivoluzione che atterrava tutto un edificio sociale antico, e proclamava i Diritti dell’uomo; le prodigiose vittorie dei Francesi contro i più arrabbiati sostenitori del trono e dell’altare; i proclami del Bonaparte sceso in Italia, e i rapidi suoi trionfi in classiche battaglie nella valle del Po, aveano scosso gli animi intorpiditi degli Italiani, ed acceso le più belle speranze di libertà nei loro cuori. Il Foscolo, benché ancora giovinetto, non poteva non sentirsi rapir l’anima a tante splendide promesse, a così sfolgorante aureola di gloria, che cingeva il capo del gran generale corso. Il Bonaparte discendeva da una famiglia essenzialmente italiana, avea sortito i natali in isola italiana. Chi si sarebbe mai immaginato che dopo d’avere succhiato il latte della madre, l’avrebbe tradita, fucinando egli stesso le catene per ritornarla in servitù?

Ma poco durarono le illusioni! Dopo tante belle parole di libertà e di salvezza agli Italiani, il Bonaparte vendeva la repubblica di Venezia in Campoformio all’Austria! Allora l’anima del Foscolo si sentì sbranata dal dolore, e poco dipoi, benché appena ventenne, ruppe il silenzio, e quasi a disacerbare le piaghe del suo cuore, affranto a tanta sventura della sua patria, scrisse Le ultime lettere di Jacopo Ortis, a consolazione dei giovani sfortunati e oscuri. Come dice egli stesso in una lettera al primo Italiano, Vittorio Alfieri, scrisse questo romanzo in tre anni di sventure e d’esilio; e da un uomo fortemente temprato e appassionato come il Foscolo, che scriveva sempre come il cuore e non il sordido interesse gli veniva significando, non era da aspettarsi che una tela tratteggiata coi più foschi colori. L’argomento è semplicissimo. Jacopo, nel quale adombrò sé stesso, veduto che il sacrificio della patria era consumato, e che la libertà e la pace di lui erano compromesse, ripara in una solitudine sui [p. 8 modifica]colli Euganei. Ivi incontra un altro esule, che l'aveva in grande considerazione, e invita Jacopo a passare alcune ore del giorno in casa sua. L’esule aveva due figliuole, una delle quali, per nome Teresa, promessa sposa a un certo Odoardo, di ricco e potente casato. Teresa non aveva inclinazione per lui, ma ubbidiente ai voleri del padre, che dalla parentela del genero sperava protezione, fece il sacrificio del suo cuore. Jacopo, che aveva preso ad educare la sorellina di Teresa, frequentandola se ne innamorò. Una scintilla in breve diventò un incendio; e Jacopo vedendo l’impossibilità di appagare i loro cuori infiammati, lontano dalla madre che adorava, la patria venduta, non trovando più sulla terra alcun conforto, si uccide.

L’argomento, come ognun vede, oltre d’essere una cosa da nulla, non ha neanche il pregio dell’invenzione, perchè il Goethe, nel suo Werther, aveva già ordito a un dipresso quella favola. Ma tanto diverso è il campo spaziato dall’uno e dall’altro, e tanto sono diversi gli accessorj, quanto diverso è il cielo della Grecia e dell’Italia da quello della Germania. Il Foscolo aveva un cuore in cui bollivano le più violente passioni, e una mente, in età giovanile, fornita di una immensa erudizione, specialmente greco-latina. In mezzo ai classici suoi studj aveva lungamente meditato le più ardue questioni politiche, filosofiche e religiose, e scrutato profondamente i sentimenti e le opinioni della umana società. Ond’egli facendo una lenta e progressiva notomìa del cuore e del pensiero di un unico personaggio, che si esprime sempre con pienissima libertà d’ingegno e di stile, trova il modo di delineare a grandi pennellate lo spettacolo della natura, gli incerti destini dell’uomo oltre la tomba, le vili astuzie e i feroci tradimenti dei tiranni, le illusioni e i disinganni dei popoli fidenti, insomma le miserie infinite di questa terra. Vi fu un tempo non molto lontano, in cui moltissimi Italiani non sapevano scorgere nulla di buono sia nel proprio paese come altrove, che non venisse dalla Francia. Dalla vittoria di Sadowa, e maggiormente ancora da quella di Sédan in poi, non sanno più veder cosa nella patria loro che possa stare a petto di ciò che ci ammaniscono i Tedeschi. Nelle scienze, nelle lettere, nelle arti sono aquile i discendenti di Arminio, e si reputano poco men che gufi i pronipoti di un Allighieri, [p. 9 modifica]di un Machiavelli, di un Galilei e di un Vico! Noi ammiriamo i grandi ingegni dovunque si trovino; ma come non fummo gallomani mai, così non saremo adoratori dei Tedeschi, i quali, se con le loro pazientissime indagini diffondon luce, non mancano eziandio di condensar nebbie.

Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis son giudicate da taluni inferiori al Werther del Goethe; eppure a noi pare che esaminamdo l'una e l’altr’opera con animo imparziale, l’Ortis sia da anteporsi al Werther. E incominciando dal personaggio principale del romanzo italiano, chi non vede quanto sia più giustificata di quella di Werther, la cagione che condusse l’Ortis al suicidio? Esule, perseguitato dalla polizia, con la disperazione nel cuore per la patria venduta, anima ardentissima, s’imbatte in una ragazza bella, colta, promessa, contro la sua volontà, ad un giovine che non ama e non potrà amare, la frequenta per invito del padre, s’accorge dell’amor suo per lui, ne vede compiere il sacrificio, e non gli rimane più altro partito che o piangere le patrie sciagure e l’infamia de’ suoi concittadini, o morire. Werther invece lascia la madre e il suo paese nativo per sottrarsi a certe dolorose relazioni d’amore ond’era tormentato. Nella sua solitudine ha l’anima serena, sente il piacere della vita, ed è tutto assorto in questo dolce sentimento. Egli s’innamora di Carlotta ballando; accetta un impiego regio; va in casa di un principe e vi si trova bene. Avrebbe voluto fare il militare, ma non per difendere la libertà della patria, bensì per servire ai comandi di un despota. Werther infine per istordirsi beve spesso smoderatamente, e s’accende volgarmente d’una donna, già fidanzata ed amante del suo damo. L’impossibilità di sfogare la sua passione, e l’insuperabile stanchezza della vita lo spingono al suicidio.

Si confronti la squisita delicatezza del Foscolo nel far nascere l’amore di Jacopo per Teresa, coi mezzi adoperati dal Goethe pel medesimo fine, e si vedrà quanto l’arte del nostro autore superi quella del tedesco. Questi apre il cuore di Werther ai primi palpiti d’amore per Carlotta, mentre la stringe al suo seno danzando, ne beve l’alito affascinato, e si sente l’anima solcata da una corrente elettrica immediata. Il Foscolo, all’incontro predispone il cuore del suo personaggio principale all’amore con la bellezza mattinale della natura che lo circonda, [p. 10 modifica] con la virtù di Teresa, con le note dolcissime dell’arpa alla quale sposava la sua voce, cantando alcune strofe della Saffo tradotte da lui stesso, e trovandola seduta nel suo gabinetto su quella sedia stessa, su cui l’aveva vista il primo giorno che entrò in casa sua. In questo tratto rifulge tutta la finezza dell’arte greca. E il carattere di Teresa quanto non è più amabile di quello di Carlotta? Quanta pietà non desta il suo stato, condannata com’è, per filiale ubbidienza, a fare un olocausto del suo cuore? La madre sua che vive lontana da lei e dal marito, perchè non le regge il cuore di vedere sacrificata la figlia a un uomo che non ama, non dispone l’animo del lettore a compiangere Teresa quand’anche venisse a mancare a’ suoi doveri di sposa? Niente di tutto ciò in Carlotta, che s’impalma con Alberto, l’oggetto del suo cuore, e poi si lascia sedurre da Werther, che è ben lungi dall’avere le sublimi qualità di Jacopo. Se a ciò si aggiunga lo stile sempre acceso e splendido come il sole della Grecia e dell’Italia, e le descrizioni vere e pittoresche, ora di un sereno mattino, ora di una placida sera e quando d’una burrasca terribile, si vedrà che anche in questa parte il poeta italiano va innanzi al tedesco. Alla lettura del romanzo del Goethe quale ammaestramento si ricava? Assolutamente nessuno, perchè né l’amore che conduce al suicidio, né il suicidio stesso sono cose che possano recare alcun vantaggio morale. Il romanzo invece del Foscolo inspira quasi ad ogni pagina il più puro, il più ardente amore di patria; ti mette in guardia contro le blandizie dei principi; ti smaschera i falsi amici che ad ogni ora ti profferiscono la borsa e il cuore; ma poi, quando viene il momento di valertene, ti fuggono come un appestato. «Sepolture! bei marmi e pomposi epitaffi; ma se tu gli schiudi, vi trovi vermi e fetore.» In materia religiosa Jacopo è continuamente travagliato dal dubbio. Or pare che creda in un Dio rimuneratore del giusto, ed ora che l’uomo non sia che materia soggetta a trasformarsi in mille guise quaggiù. È l’uomo onesto e sapiente che rispetta il sublime valore della ragione, e che non sapendo spiegare tanti perchè contraddicentisi, vive nel dubbio, ma intanto opera il bene. È uno scettico, è un ateo, è un arrabbiato!... E di quanti altri titoli nol regalarono, perchè parlò sempre schiettamente [p. 11 modifica] schiettamente il vero, e diceva di non sapere come si scrivesse ai potenti? Ma chi si faccia a contemplare i due insolubili problemi delle origini delle cose e degli ultimi destini della umanità con animo retto, senza occulti pensieri e per amore soltanto del vero, dirà che i dubbi del Foscolo eran naturalissimi. Quei dubbi aveano già travagliato le menti e i cuori d’innumerevoli generazioni, e travaglieranno l’intelletto dell’uomo per migliaja di secoli. Felici coloro che hanno mente e cuore foggiati a credere ciò che non intendono! In mezzo alle infinite tribolazioni di questo mondo troveranno sempre un grandissimo conforto nella loro fede sincera, che un Dio, giusto rimuneratore dei buoni, li compenserà, in regioni più serene, dei mali che sopportarono rassegnati in questo mondo. Ma questo divino beneficio è concesso a pochi; e i più che hanno sempre Iddio sulle labbra, nutron Satana nel cuore, perchè le loro opere sono malvagie ed empie. L’uomo invece che schiettamente dubita per amore del vero, ed anche senza una speranza di compenso in un’altra vita opera il bene quaggiù, è più religioso di quanti baciapile bazzicano quotidianamente nel santuario. Ugo Foscolo soperchiato dalle sciagure sue e della patria, spesso dubitava di una vita oltre la tomba, e disperava, ma per poco; lo spettacolo della bellezza della natura bastava per addormentare in lui tutti i dolori. Quante volte non diceva a sè stesso: Che cosa è l’uomo se tu l’abbandoni alla sola ragione fredda e calcolatrice? scellerato e scellerato bassamente. Dunque egli confidava in qualche altra potenza sovrumana, e guardandosi dal nuocere altrui, andava intanto consolandosi dei delitti e delle miserie della umanità vegliando sui libri dei grandi storici. Nell’Ortis, l’abbiamo già detto, Foscolo dipinge tutto sè stesso, e nella lettera del 19 gennajo, traluce schietta schietta l’anima sua continuamente ondeggiante tra il dubbio e la fede in una vita più quieta e beata. «Umana vita? sogno, ingannevole sogno! Ciò cui stendi avidamente la mano è un’ombra forse, che mentre è a te cara, a tal altro è nojosa. Sta dunque tutta la mia felicità nella vota apparenza delle cose che ora m’attorniano; e s’io cerco alcun che di reale, o torno a ingannarmi, o spazio attonito e spaventato nel nulla!» E poche righe dopo rivolgendo la sua infuocata parola al Sole, lo [p. 12 modifica]avverte che verrà giorno in cui Dio ritirerà il suo sguardo da esso, e sarà pure trasformato. E altrove esclama: «Il mio spirito, se morrà con me, si modificherà con me nella massa immensa delle cose; e s’egli è immortale, la sua essenza rimarrà illesa!» Insomma tutta la sua vita è una continua tenzone tra il dubbio e la fede, tra il bene ed il male; ma la fede in un migliore avvenire e nel trionfo del bene vince l’animo suo, e ne dà una prova menando una vita abbeverata di tribolazioni, ma pur sempre coerente a’ suoi sani principj, e intemerata. Oh! siate un po’ più lenti a scagliare la pietra contro il povero Foscolo voi che vi vantate d’essere gli archimandriti della morale e della fede! Avete voi provato che cosa sia la miseria? e quanta messe di sconforti e di dolori si raccolga nell’esilio? Avete voi provato che cosa sia il vero e santo amore di patria? Le avete voi fatto il sacrificio degli agi, degli onori, della famiglia a preferenza di scendere a patti ignominiosi coi prepotenti, che si valgono del nome di patria per gavazzare a più splendido banchetto? E se voi di tutto ciò non provaste mai nulla, o se vi accadde di assaggiarne una piccola parte e a vostra insaputa, e ne foste tosto pentiti, e vi affrettaste a farne vilissima ammenda, quale diritto avete voi di gridare la croce addosso a coloro che non la pensano come voi, ma operano più onestamente di voi? Dopo la Vita Nuova di Dante non era più comparso in Italia un romanzo di genere intimo, ora in voga nella nostra letteratura, che avesse tanta energia di pensieri, tanto fuoco di passioni e tanta venustà di stile da scuotere gli animi assopiti illusi degli Italiani. Ma ciò dipese dalle nuove condizioni fatte alla nostra patria dalla triplice santa alleanza. Se fosse uscito un uomo che avesse parlato di libertà, di patria, d’unità, d’indipendenza, l’Austria e i Principi d’Italia, suoi cagnotti, non si sarebbero forse contentati di relegarlo nelle carceri di Santa Margherita, nei piombi di Venezia e nello Spielberg, ma gli avrebbero addirittura stretto il capestro al collo, o rotto il petto col piombo militare, come avvenne molti anni di poi a parecchi generosi nel 1831 e 33.

Il bel paese stava per sorgere a nuova vita, ed era uficio delle lettere additare la via da percorrere per giugnere alla meta de’ suoi desiderj senza che lo straniero oppressore potesse [p. 13 modifica]impedirnelo. Il Foscolo aveva una grande avversione al romanzo storico, perchè ei diceva: «Il lettore del romanzo conosce o non conosce la realtà storica. Se la conosce, le invenzioni del novelliere pérdono ogni illusione per lui: se non la conosce, il lettore ignorante è tratto in errore dalla finzione intorno a cose per le quali più util maestra sarebbegli la storica verità.» Niun mezzo tuttavia a noi parve a ciò più acconcio che il romanzo storico, nel quale descrivendo con sottile accorgimento le insolenti e dure soperchierie degli stranieri, che s’impinguavano del nostro sangue dileggiandoci, s’eccitava l’amor proprio nazionale a vendicarsi delle crudeli offese, degli insulti beffardi. E infatti i Promessi Sposi, l’Assedio di Firenze, l’Ettore Fieramosca e il Niccolò de’ Lapi furono una gran leva al Risorgimento Italiano moderno. Ma prima di questi romanzi, lo scritto che ruppe il sonno nella testa agli Italiani fu quello del Foscolo. E infatti un altro grandissimo nostro pensatore bersagliato del pari e forse più di lui dall’avversa fortuna, ma pieno di fede in Dio, pieno di poesia e di patrio amore, interprete purissimo e verace delle aspirazioni de’ suoi compaesani, Giuseppe Mazzini dice che, capitatogli l’Ortis fra le mani, se ne infanatichì, e lo imparò a memoria. Cacciato lo straniero, costituito in un solo Stato l’Italia, il romanzo storico aveva adempiuto all’obbligo suo, e doveva risorgere il romanzo intimo, che ha l’ufficio di ritrarre la civile società in tutte le sue parti più recondite, di flagellare il vizio e innamorare della virtù. Sarebbe desiderabile che i moderni romanzieri calcassero le orme del Foscolo non per ripeterci l’orrendo spettacolo del suicidio, ma per ispargere nelle loro pagine i più sublimi pensieri di patria, di filosofia morale che alimentano l’intelletto e accendon l’animo dei lettori a generose imprese. E quando all’altezza dei concetti vadan congiunti e lo splendore dello stile e la purezza della lingua, doti indispensabili a rendere fecondi e immortali gli scritti, il romanziere avrà pienamente soddisfatto al suo debito.

Una sètta ipocrita, maligna, astuta e rapace, che studia ogni mezzo di avviare al florido sentiero dei pingui e sonniferi impieghi e delle eviratrici pensioni la gioventù moderna, per affogarne gli spiriti liberi nelle delizie della vita, mentre ne ricovra le ceneri in Santa Croce, provvede celatamente perchè Le Ultime [p. 14 modifica] Lettere di Jacopo Ortis stian lungi dalle mani dei giovani. Noi invece crediamo di far cosa utile alla causa della civiltà ammanendo al pubblico un volume, che contiene le due opere più insigni del Foscolo dal lato dello stile, del sentimento e della erudizione, e che pel tenue prezzo può essere alla portata di qualunque studente, e di qualsiasi operajo. I novelli Farisei politici e religiosi vorrebbero una gioventù molle, pieghevole, ciecamente serva ai loro comandamenti, adoratrice dei fatti compiuti e della monarchia; noi invece desideriamo che sorga una generazione d' uomini, che sentano altissimamente di sé stessi, non pieghino il dorso alla idolatria di nessuno, scrutino imperterriti le origini e le finali destinazioni dell' uomo, vogliano parità di trattamenti per tutti, nelle loro speculazioni filosofiche e religiose dubitino, perchè dal dubbio soltanto può scaturire il vero, e finalmente abbiano sempre in cima d'ogni loro pensiero la libertà e la grandezza della patria. In questo caso soltanto si deve sbandire il dubbio, perchè da esso nascerebbe certamente la schiavitù, e di nuovo fors'anche la dominazione straniera. Quando si tratta della libertà e della indipendenza della patria, i veri uomini e non pecore matte, si risolvono prontamente a dar di piglio al ferro e combattere per vincere o morire. Tutti questi sublimi pensieri, tutti questi nobili e generosi sentimenti rampolleranno rigogliosi nell'animo dei giovani che leggano l' Ortis e il Discorso sul Testo di Dante. Noi non abbiamo il timore di certuni, che un giovane alla lettura dell' Ortis possa facilmente essere tratto al suicidio. Il suicidio non è mica un fatto del quale si possa disporre a nostra volontà. L'infelice che viene trascinato a quel passo, sortì nascendo il germe della fatale malattia, che si svolge lentamente come la tisi, e non credo che vi sia rimedio capace di sanarla. E chi per avventura non ha questo germe nel cuore, ha un bel leggere e rileggere Le Ultime lettere di Jacopo Ortis, ma non si sentirà muovere menomamente ad imitarlo. E infatti noi leggiamo quotidianamente nei giornali molti casi di suicidio, i quali furono provocati da tutt'altre cause, ma non mai da quella della lettura dell' Ortis, opera ignota alla massima parte dei suicidi. Ad uno, che non abbia sortito dalla natura il coraggio militare, avete un bel dire che impugni il moschetto e scenda in campo contro il [p. 15 modifica]nemico mentre tuona il cannone; ma egli se ne starà rimpiattato nell'angolo più riposto della sua casa, aspettando magari che tutto sia finito per uscir fuori a godere del frutto dei generosi che versarono il proprio sangue. Il suicidio individuale se non è un peccato, il che non vogliamo affermare, non è certamente fecondo di utili ammaestramenti. L'uomo, per quanto si senta oppresso dalla sventura, ha una forza in sé stesso da resistere ai più fieri colpi della sorte, e sopportandoli con rassegnata prestanza sarà sempre un oggetto d'ammirazione. Ma non bisogna con tutto ciò scagliarsi contro lo sventurato, che in tutta la lucidezza della sua ragione si toglie la vita per non gemere sotto il flagello della servitù, massime quando intorno a sé non veda più raggio di bene pur lontano che lo conforti. Quello che si applaude con entusiasmo nei più, è lecito e giusto biasimare nell'individuo? Eppure noi restiamo compresi della più alta ammirazione quando leggiamo che una città si seppellisce sotto le rovine delle sue mura anziché cadere in balìa del nemico che viene ad assalirla per toglierle la libertà!

E questi magnanimi esempj di virtù cittadina portano attraverso i secoli i loro frutti, e noi compulsando le antiche e le moderne istorie, facciamo a gara per metterli sotto gli occhi della gioventù, affinché s'inspiri e s'accenda a egregie cose.

Il Cesarotti dice che Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis sono «un' opera scritta da un Genio in un accesso di febbre maligna, d'una sublimità micidiale e d'un'eccellenza venefica.» A noi pare invece che siano un libro scritto da un Genio si ma da un Genio che, squarciando le tenebre dell'avvenire, vedeva in lontananza la grandezza d' Italia, e per affrettarne il conseguimento, voleva scuotere con mano rovente gli assonnati suoi figli. Il Foscolo, con la morte dell' Ortis, volle insegnare a' suoi fratelli come a un popolo, dopo avere lottato strenuamente contro i nemici che l'insidiano e lo perseguono a morte, rimanga sempre aperta una via per liberarsi dalla servitù, quando non vede più raggio di pace e di libertà su questa terra. Soggiungeva il Cesarotti di «leggere interrottamente le lettere d'Ortis, perchè aveva bisogno di respirare tratto tratto, per non restare oppresso dal cumulo d'idee, di fantasmi e d'affetti, coi quali gli aveva posto assedio al cuore e allo [p. 16 modifica]spirito.» Ciò è verissimo, ed è uno dei più begli elogi che si potessero fare di quel libro. Volesse Iddio che fossero molte le opere letterarie dei nostri tempi, le quali avessero la virtù di farci soprassedere di quando in quando alla lettura per digerir bene le idee, e reggere agli affetti che rampollano nella nostra mente e nel nostro cuore!

Ora sarebbe il caso di ragionare alquanto del Discorso sul Testo della Divina Commedia, che abbiam fatto seguire alle Ultime Lettere di Jacopo Ortis. Ma venendoci meno lo spazio, ci contenteremo di dire che è un libro fatto con coscienza, come usava fare tutti i suoi libri il Foscolo. Questo Discorso è pieno da capo a fondo di una immensa erudizione, e rischiarato dal lume della critica più acuta e dignitosa. Fra i tanti e tanti comentatori della Divina Commedia niuno ebbe mai la soda erudizione, il fine criterio, e l’animo alto, libero e sdegnoso della menzogna da comprenderla a fondo come il Foscolo. Chiunque voglia accostarsi più da vicino al significato del grande poema dell’Allighieri, legga attentamente questo Discorso, e con questa lucidissima fiaccola alla mano s’interni nella selva misteriosa, e scorgerà il vero sotto il velame delli versi strani. Ci si porgerà l’occasione di parlarne distesamente in un altro volume di questa Biblioteca ragionando dell’Allighieri. Porremo termine a questa prefazione con le parole di Giuseppe Mazzini, che compendiano tutta la grandezza dell’intelletto e dell’animo del nostro autore. «Al Foscolo gli Italiani devono riverenza eterna, per avere egli primo cogli atti e gli scritti rinvigorito a fini di Patria il ministero del letterato.»


francesco costèro.




Note