Trionfi (Bortoli)/Trionfo dell'amore/Capitolo IV

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Trionfo dell'amore - Capitolo III Trionfo della castità
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DEL TRIONFO D'AMORE


CAPITOLO QUARTO.


 Poscia che mia fortuna in forza altrui
     M’ebbe sospinto, e tutti incisi i nervi
     Di libertate ov’alcun tempo fui,

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Io, ch’era più salvatico che i cervi,
     5Ratto domesticato fui con tutti
     I miei infelici e miseri conservi;
E le fatiche lor vidi e i lor frutti,
     Per che torti sentieri e con qual arte
     A l’amorosa greggia eran condutti.
10Mentre io volgeva gli occhi in ogni parte
     S’ i’ ne vedessi alcun di chiara fama
     O per antiche o per moderne carte,
Vidi colui che sola Euridice ama,
     Lei segue a l’inferno e, per lei morto,
     15Con la lingua già fredda anco la chiama.
Alceo conobbi, a dir d'Amor sì scorto,
     Pindaro, Anacreonte, che rimesse
     Ha le sue muse sol d’Amore in porto;
Virgilio vidi, e parmi ch’egli avesse
     20Compagni d’alto ingegno e da trastullo,
     Di quei che volentier già ’l mondo lesse:
L’uno era Ovidio e l’altro era Catullo,
     L’altro Properzio, che d’amor cantaro
     Fervidamente, e l’altro era Tibullo.
25Una giovene Greca a paro a paro
     Coi nobili poeti iva cantando,
     Et avea un suo stil soave e raro.
Così, or quinci or quindi rimirando,
     Vidi gente ir per una verde piaggia
     30Pur d’amor volgarmente ragionando.
Ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia,
     Ecco Cin da Pistoia, Guitton d'Arezzo,
     Che di non esser primo par ch’ ira aggia;
Ecco i duo Guidi che già fur in prezzo,
     35Onesto Bolognese, e i Ciciliani,
     Che fur già primi e quivi eran da sezzo,
Sennuccio e Franceschin, che fur sì umani
     Come ogni uom vide; e poi v’era un drappello
     Di portamenti e di volgari strani:
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Fra tutti il primo Arnaldo Danïello,
     Gran maestro d’amor, ch’a la sua terra
     Ancor fa onor col suo dir strano e bello;
Eranvi quei ch’Amor sì leve afferra,
     L’un Piero e l’altro e ’l men famoso Arnaldo,
     45E quei che fur conquisi con più guerra:
I’ dico l’uno e l’altro Raimbaldo
     Che cantò pur Beatrice e Monferrato,
     E ’l vecchio Pier d’Alvernia con Giraldo,
Folco, que’ ch’a Marsilia il nome ha dato
     50Et a Genova tolto, et a l’estremo
     Cangiò per miglior patria abito e stato,
Giaufrè Rudel, ch’usò la vela e ’l remo
     A cercar la sua morte, e quel Guiglielmo
     Che per cantare ha ’l fior de’ suoi dì scemo,
55Amerigo, Bernardo, Ugo e Gauselmo;
     E molti altri ne vidi a cui la lingua
     Lancia e spada fu sempre e targia ed elmo.
E poi conven che ’l mio dolor distingua,
     Volsimi a’ nostri, e vidi ’l buon Tomasso,
     60Ch’ornò Bologna et or Messina impingua.
O fugace dolcezza! o viver lasso!
     Chi mi ti tolse sì tosto dinanzi,
     Senza ’l qual non sapea mover un passo?
Dove se’ or, che meco eri pur dianzi?
     65Ben è ’l viver mortal, che sì n’aggrada,
     Sogno d’infermi e fola di romanzi.
Poco era fuor de la comune strada,
     Quando Socrate e Lelio vidi in prima:
     Con lor più lunga via conven ch’io vada.
70O qual coppia d’amici! che né ’n rima
     Poria né ’n prosa ornar assai né ’n versi,
     Se, come dee, virtù nuda si stima.
Con questi duo cercai monti diversi,
     Andando tutti tre sempre ad un giogo;
     75A questi le mie piaghe tutte apersi;

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Da costor non mi pò tempo né luogo
     Divider mai, siccome io spero e bramo,
     Infino al cener del funereo rogo;
Con costor colsi ’l glorïoso ramo,
     80Onde forse anzi tempo ornai le tempie
     In memoria di quella ch’io tanto amo.
Ma pur di lei, che ’l cor di pensier m’empie,
     Non potei coglier mai ramo né foglia,
     Sì fur le sue radici acerbe et empie;
85Onde benché talor doler mi soglia
     Com’uom ch’è offeso, quel che con questi occhi
     Vidi m’è fren che mai più non mi doglia:
Materia di coturni e non di socchi
     Veder preso colui ch’è fatto deo
     90Da tardi ingegni rintuzzati e sciocchi:
Ma prima vo’ seguir che di noi feo,
     E poi dirò quel che d’altrui sostenne:
     Opra non mia, d’Omero ovver d’Orfeo.
Seguimmo il suon delle purpuree penne
     95De’ volanti corsier per mille fosse,
     Fin che nel regno di sua madre venne;
Né rallentate le catene o scosse,
     Ma straccati per selve e per montagne,
     Tal che nessun sapea ’n qual mondo fosse.
100Giace oltra ove l’Egeo sospira e piagne
     Un’isoletta delicata e molle
     Più d’altra che ’l sol scalde o che ’l mar bagne;
Nel mezzo è un ombroso e chiuso colle
     Con sì soavi odor, con sì dolci acque,
     105Ch’ogni maschio pensier de l’alma tolle.
Questa è la terra che cotanto piacque
     A Venere, e ’n quel tempo a lei fu sagra
     Che ’l ver nascoso e sconosciuto giacque;
Et anco è di valor sì nuda e magra,
     110Tanto ritien del suo primo esser vile,
     Che par dolce a’ cattivi et a’ buoni agra.

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Or quivi triunfò il signor gentile
     Di noi e degli altri tutti ch’ ad un laccio
     Presi avea dal mar d’India a quel di Tile:
115Pensieri in grembo e vanitadi in braccio,
     Diletti fuggitivi e ferma noia,
     Rose di verno, a mezza state il ghiaccio,
Dubbia speme davanti e breve gioia,
     Penitenzia e dolor dopo le spalle:
     120Sallo il regno di Roma e quel di Troia.
E rimbombava tutta quella valle
     D’acque e d’augelli, et eran le sue rive
     Bianche, verdi, vermiglie, perse e gialle;
Rivi correnti di fontane vive
     125Al caldo tempo su per l’erba fresca,
     E l’ombra spessa, e l’aure dolci estive;
Poi, quand’è ’l verno e l’aer si rinfresca,
     Tepidi soli, e giuochi, e cibi, et ozio
     Lento, che i semplicetti cori invesca.
130Era ne la stagion che l’equinozio
     Fa vincitor il giorno, e Progne riede
     Con la sorella al suo dolce negozio.
O di nostre fortune instabil fede!
     In quel loco e ’n quel tempo et in quell’ora
     135Che più largo tributo agli occhi chiede,
Triunfar volse que’ che ’l vulgo adora:
     E vidi a qual servaggio et a qual morte,
     A quale strazio va chi s’innamora.
Errori e sogni et imagini smorte
     140Eran d’intorno a l’arco triunfale,
     E false opinïoni in su le porte,
E lubrico sperar su per le scale,
     E dannoso guadagno, ed util danno,
     E gradi ove più scende chi più sale;
145Stanco riposo e riposato affanno,
     Chiaro disnore e gloria oscura e nigra,
     Perfida lealtate e fido inganno,

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Sollicito furor e ragion pigra:
     Carcer ove si ven per strade aperte,
     150Onde per strette a gran pena si migra;
Ratte scese a l’entrare, a l’uscir erte;
     Dentro, confusïon turbida e mischia
     Di certe doglie e d’allegrezze incerte.
Non bollì mai Vulcan, Lipari od Ischia,
     155Strongoli o Mongibello in tanta rabbia:
     Poco ama sé chi ’n tal gioco s’arrischia.
In così tenebrosa e stretta gabbia
     Rinchiusi fummo, ove le penne usate
     Mutai per tempo e la mia prima labbia;
160E ’ntanto, pur sognando libertate,
     L’alma, che ’l gran desio fea pronta e leve,
     Consolai col veder le cose andate.
Rimirando er’io fatto al sol di neve
     Tanti spirti e sì chiari in carcer tetro,
     165Quasi lunga pittura in tempo breve,
Che ’l più va inanzi, e l’occhio torna a dietro