Capitolo VII

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VI VIII
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Capitolo VII.

Trezzo visitato dal duca Francesco Sforza. — Il Castello offerto a Bartolomeo Colleoni. — I castellani Marco da Landriano e Vercellino Visconti. — Gaspare Santo da Trezzo. — Prigionia di Orfeo da Ricano e di Antonio Simonetta.


Circa quest’epoca Trezzo fu onorato d’una visita del duca e della duchessa, e il Commune poco stante [p. 66 modifica]esprimeva i suoi sensi di riconoscenza e di ringraziamento in un indirizzo1. [p. 67 modifica]

Morto Francesco Sforza (1466), allorchè il suo primogenito Galeazzo militava in Francia in soccorso di Ludovico XI, la vedova Bianca Maria invitò a difendere e governare il ducato Bartolomeo Colleoni, offrendogli, oltre un grosso stipendio, il castello di Trezzo già tenuto una volta dal costui padre. Anzi ella accennò di voler stringere col Colleoni anche un parentado, mostrando desiderio di aver per nuora la Medea Colleoni2.

Anche in alcuni ricordi dei deputati sopra la provisione delle granaglie, scritti di commissione del duca stesso3, nella enumerazione dei borghi e dei villaggi lungo l’Adda designati come bisognosi di una diligentissima custodia contro l’esportazione fraudolenta delle biade sul territorio veneto, s’invita il principe a mandare nel castel vecchio di Trezzo una persona fidata con quel numero di provisionati e famigli d’armi che egli giudichi opportuno, insistendosi sull’importanza di quel passo, si per la sicurezza dello Stato, e si per evitare il contrabando.

L’officio di Castellano fu dal duca, nel 1467, confermato a Marco da Landriano, ed il lettore desumerà dal documento stesso che riproduciamo4 [p. 68 modifica]quali fossero precisamente i gelosi incarichi e le istruzioni a lui impartite. [p. 69 modifica]

Malcontento poi lo stesso duca che il castellano [p. 70 modifica]della rocchetta di S. Maria presso Trezzo non vi [p. 71 modifica]attendesse, deliberò di surrogargli Antonio Mirani [p. 72 modifica]da Vailate, allora connestabile della porta della torre di Como5.

Fra i deputati a prestare il giuramento di fedeltà al nuovo duca Galeazzo Maria fu il milite e cameriere ducale Vercellino Visconti, già suo compagno nella spedizione in soccorso di Ludovico XI re di Francia contro il duca di Bretagna, e assunto alla carica di castellano in Lione, allorchè le truppe milanesi avevano presidiato quella città.

Poco di poi, nel 1470, vediamo Vercellino in qualità di castellano della fortezza di Trezzo. Con lettera del 20 d’aprile del 1475 egli chiedeva a Cicco Simonetta una nuova licenza per conservar seco nel castello i suoi vecchi compagni, adducendo per speciale motivo che difficilmente si sarebbero trovati altri uomini di pari capacità, fede, ed esperienza:

nel supposto poi che non gli si volesse accordare tal grazia, dimandava una proroga sino al termine dell’anno per meglio provedere all’esecuzione della volontà ducale. Con altro foglio dell’11 di luglio, il medesimo communicava al duca che tre monaci di Chiaravalle, cioè, don Benigno, don Piero e don Placito, allora prigionieri (per ragioni che ignoriamo) nel Castello di Trezzo si erano dichiarati pronti ad uniformarsi ai voleri del loro principe e di monsignore Ascanio Sforza.

Tra i provisionati ducali che di que’ giorni risiedevano nel borgo è memorabile specialmente un [p. 73 modifica]Gaspare Santo da Trezzo6. Questi era stato luogotenente di messer Stefano Marliano potestà del borgo, rimosso poi da quella carica per la sua cattiva condutta da Francesco Sforza, e privato ancor prima da quel Consiglio communale di ogni officio e benefizio. Allorquando tenevano la castellania i Villani, egli per guadagnarsene le grazie aveva indutto suo fratello Alberto a palesar loro la cifra segreta che gli serviva per corrispondere col duca Francesco Sforza. Alberto poi disse ai Villani che un tal Francesco Isolano possedeva la detta cifra e che questi era uno spione del principe nella terra, tenendolo continuamente avvisato di quanto essi facevano e dicevano. In conseguenza di ciò que castellani un giorno entrarono nella casa dell’Isolano, frugando nelle casse, nei libri, e perfino nella paglia del letto. Guai a lui se vi avessero trovata la cifra. Tuttavia erano deliberati di tagliare a pezzi il perquisito, e l’avrebbero fatto, se, per buona ventura, avutone avviso da un amico, egli non si fosse messo in salvo. Ora il Santo tiranneggiava Trezzo, feriva e assaliva insieme co’ suoi figliuoli gli uomini della terra, e diceva villanie alle principali donne. Di notte ferì sulla piazza Marchetto Coldiraro suo compare, ed essendo accorsi i figli con l’armi, Santorio ferì Peruzzo de’Bregonzi nella testa, e s’avventò con un [p. 74 modifica]coltello contro Cristoforo degli Osii. Il Santo non voleva sostenere incarichi, nè contribuire a spese, nè levar sale in commune. Spogliò un campo di miglio spettante ad un poveruomo detto Antonino da Lodi, che per timore di minaccie non ardiva muovere querela. Soleva dire che nè commissario, nè capitano, nè altro officiale dovesse impacciarsi de’ fatti suoi, salvo che il duca di Milano, di cui era provisionato. Aveva tenuto una viva pratica nel 1473 con Cristoforo Chieppo bergamasco, nemico del duca, ed uno de’ principali seguaci di Bartolomeo Colleoni. Oltre a ciò leggesi che un Igmino Santo, commissario del porto di Trezzo, permise più volte di entrare nel borgo ad un bandito il quale, alcuni anni prima, vi aveva rapita madonna Drusiana, non sapiamo se di moto proprio o per istigazione di qualche potente signore o feudatario7.

Il rivolgimento politico del 1479, che mise capo alla disgrazia di Cicco Simonetta e al governo di Lodovico il Moro come tutore di Giovanni Galeazzo, balzò in misero stato anche Antonio figlio dell’infelice secretano ed il tesoriere militare Orfeo da Ricano, i quali il 14 di settembre di quell’anno [p. 75 modifica]furono ricevuti prigionieri nel Castello di Trezzo8. Pare che la custodia di Orfeo fosse per alcun tempò assai mite, potendo egli conversare con chiunque, ma un ordine del 18 di agosto del 1480, impose al castellano di non lasciarlo quind’innanzi vagare per il forte, e di rimetterlo nel luogo in cui era da principio, o in altro dove non potesse godere sì fatto sollievo. Orfeo fu adunque cacciato in una dimora fredda ed umida, per guisa che avrebbe potuto di leggeri ammalarsi, ed è curioso il vedere un altro ordine ducale (23 di novembre) in cui, allegandosi appunto questo igienico motivo, si invita il castellano a lasciarlo girare per il forte, sebbene con buona guardia, a provederlo di un luogo decente per la notte, e a trattarlo anche in tutto il resto con riguardi. Finalmente (18 di aprile, 1481), a contemplazione della signoria di Firenze e del magnifico Lorenzo de’ Medici, il duca si determinò ad usargli clemenza e metterlo in libertà. Volle tuttavia ch’egli non dimorasse in Cremona, ma che, occorrendogli di trattenersi in qualche luogo per dar sesto a’ suoi affari, si recasse ad Anniata (nel Cremonese), a condizione di sgombrare insieme co’ suoi Agli maschi dal dominio ducale in quindici giorni, prendendo la via di Arezzo, nella qual città doveva trovarsi entro un mese, a far tempo dalla sua partita d’Anniata. [p. 76 modifica]Là giunto, gli si faceva obligo di darne tosto avviso al duca, e di non partirsi dalla città o dal distretto senza una costui licenza speciale, pena la confisca de’suoi beni nel dominio sforzesco, e lo sborso di 3000 ducati, dei quali il principe ricevette sicurtà in nome d’Orfeo da parte di diciotto cospicue persone9.

Consta positivamente che il 22 di settembre Orfeo si trovava in Firenze, dove aveva tolto casa per soggiornarvi, e, in un colloquio da lui tenuto con Foratore ducale Filippo Sacramoro, erasi dichiarato apertamente favorevole al duca, offrendosi pronto ad obedirlo. Di tutto ciò il Sacramoro si affrettò a dare notizia al suo principe, chiedendogli precise istruzioni sul modo con cui dovea contenersi verso il Ricano.

Fin dal principio di novembre i documenti ci mostrano che anche il Simonetta, suo compagno di sciagura, era del pari liberato10. Non [p. 77 modifica]sapiamo precisamente il come, ma egli erasi trasferito a Roma in casa di suo fratello Guido Antonio. Una lettera del 2 diretta dagli oratori ducali ivi residenti al Moro, ci prova che essi attendevano a spiare tutti i passi del Simonetta presso il pontefice, i cardinali, e gli ambasciatori, col proposito di opporsi per ogni maniera, in conformità alle ricevute istruzioni, a che egli conseguisse cosa alcuna contro il desiderio del duca di Milano. Tuttavia, se le informazioni del Litta sono esatte, Sisto IV, per approfittare di Antonio come di un emigrato politico, gli conferì l’impiego di suo scudiero, promettendogli grande assistenza anche in avvenire. Dalla lettera testè citata apprendiamo che il Simonetta abbandonò Roma per la peste, e si recò, insieme col cardinale di S. Marco, ad Orvieto. Ma quali altre vicende ei corresse, e quando morisse, ci è ignoto.

Morto Antonio de’ Mirani da Vailate, il duca affidò la cura della rocchetta di S Maria a suo figlio Giovanni, giovine non punto degenere dai lodevoli costumi del padre11, associandogli per compagno un tal Contino da Robiate suo congiunto.

Egli doveva avere dodici paghe (compresa una morta per la sua persona), metà balestrieri, e metà pavesari, col mensuale stipendio di tre fiorini per ogni paga, ragguagliato il fiorino a 32 soldi. Il socio Contino, annoverato nelle dette paghe, doveva percepire, oltre la sua, altra mezza paga morta. [p. 78 modifica]

Una ducale del 14 di settembre diretta a Vercellino gli ingiungeva di ricevere nella fortezza nella quale già si trovava per riceverli monsignor Ascanio Sforza, i reverendi e spettabili consiglieri Pietro da Pusterla, conte Giovanni Borromeo, protonotajo Trivulzio, Antonio Marliano, messer Guido Arcimboldo, Pietro da Landriano e messer Giovanni Angelo da Firenze. Ci duole che non sia accennato il motivo per cui furono colà inviati.

Certo è però che Vercellino, come uomo di gran probità e prudenza, fu scelto a comporre nel 1482 alcune contestazioni insorte fra Ascanio Sforza e il duca suo fratello.

Riaccesasi nel 1483 la guerra tra la Veneta Republica e Milano, Roberto Sanseverino che aveva in Lombardia secrete intelligenze entrò in nome de’ Veneziani nel Bresciano, dove, abboccatosi con Ibieto del Fiesco, occultamente nemico del duca, col consiglio e Tajuto di lui, gittato un ponte sull’Adda vicino a Trezzo, assaliva il Milanese ponendone in isgomento la capitale. In vista di tale pericolo Bartolomeo Calco inviava (il 13 d’aprile) ai castellani della ròcca di Trezzo, delle Torrette e della rôcca di S. Maria, non che a quelli di diciotto altri forti dello Stato, una circolare da cui appare l’oculata solerzia con la quale il principe attendeva a preservarli da ogni insidia a cui facilmente avrebbero potuto soggiacere pei movimenti e le dimostrazioni che il nemico faceva da quelle parti. Vercellino era ancora castellano di Trezzo, e, [p. 79 modifica]secondo le apparenze non a torto, fu accusato d’infedeltà. Il Corio infatti ci narra che un nobile milanese, detto Luigi Beccheto, già secretario della duchessa Bona, ed in questi giorni esule in Torino (al quale il Sanseverino aveva partecipati i suoi progetti) scrisse in nome del duca a Vercellino alcune lettere, esortandolo a non impedire a Roberto il passaggio del fiume. Cosi avvenne che le truppe veneziane il 15 di luglio tragittarono sicure, e poterono munire il ponte di due forti bastite. Scopertasi poi la frode, ed accorso a ristorare la fortuna degli Sforza, Alfonso duca di Calabria, trasportò questi, per un ponte fatto gittare a Cassano il 27, un esercito di 6000 cavalli e 5000 fanti. Il dì seguente anche i Brianzoli, guidati in nome del duca da Gabriele Calco, prendevano il ponte di Trezzo col presidio che era nelle bastite, occidendovi il proveditore veneto Marco Morosini.

L’anno appresso il conte Giovanni Pietro Bergamino conduttiere si portò con alcuni fanti della guardia del duca Giovanni Galeazzo Maria al castello di Trezzo, ma non vi fu ammesso da Vercellino, perchè, se bene a ciò invitato per lettera del reggente Lodovico il Moro, egli non aveva ricevuti i debiti contrasegni. Risoltosi allora il duca a trasferirsi colà in persona (25 di agosto) insieme col duca di Calabria e con l’anzidetto suo zio, si fe’ precedere dal cancelliere Giovanni Giacomo Gilmo coi debiti contrasegni, dal medesimo conte Bergamino, dai provisionati, dai siniscalchi e da altri cui era commesso l’apparecchio degli alloggiamenti. [p. 80 modifica]

Vercellino fa rimosso dalla castellania con ducale del 26, per alcuni degni rispetti non indicati in essa12.


Note

  1. Eccone il testo. — Illustrissime princeps et Excellentissime domine, domine noster singularissime. A la venuta de la Excellentia vostra et de la Illustrissima consorte vostra et Madona duchessa nostra ad visitare questo vostro castello et cognoscere noy vostri nomini de Trezo, habiamo ricevuto singolar ed inextimabile gratia cum gaudio et consolatane, iuxta la fede e desiderio habiamo sempre portata al Stato vostro. Ben è vero chel c’è doluto assai per la povertate nostra da la quale siamo constricti sommamente per le adversitate et graveze passate sostenute aut per nostri peccati, aut per altrui impuritate, non habiamo possuto distendere quelle facultate erano digne et debite a la Ex. vostra et de la Ill.ma nostra Madona duchessa consorte vostra colendissima cum li triumphi et gloria vostra, secundo l’affectione de animi nostri, del che richedemo perdono. Et perchè verso di noi l’Ill.ma S. vostra ha dimostrato tanta gratia et benignitate in volerne fare di suoy gratiosi et optimi doni, non la possiamo ringratiare in tutto, ma promettemo servare fede, devotione et obedientia cum opere et affetti sempre al bene, honore et salute del Stato vostro dove ad nuy sii possibile. Per li quali doni, certo, Ill. signor nostro, sin da mo, questa vostra terra tutta è promosta in gaudio et contentamento, sperando per l’advenire havere sempre dil bene da la Ill. S. V. per posser vivere et dispensare ad loco et tempo per l’honore et comando del Stato vostro, dove per il passato habiamo sostenute adversitate, graveze et turbatione assai tanto al honore, quanto al bene nostro publico. Et per principio che la S. V. conosca la nostra bona voluntate habiamo facto fare di presente, dopo ch’ella ha obtenuto, per Dio gratia, il Castelnovo et la rocha, seycento opere et trecento carezi per servitio et ornamento de dicto castello et rocha, corno sano d. Marcho da Mariano, Zanino canzeliero vostro, et Gasparo Sancto, quale opere et caregii di bona voglia donamo a la Ex. vostra. A la quale mandiamo Alberto Sancto, Andriolo Andrea et Bonino Savano per conseguire la gratia de la S. V., secundo la ce ha promisso et comandato. A lo quale fin a l’anima sempre se raccomandiamo. Datum Tritij, die XVIIII maij 1455.
    I. D. D. V.

    Fidelissimi servitores
    Comune, Consules et Homines Tritij.


    (A tergo) — Illmo Principi, et exmo domino domino nostro singularissimo, domino Duci Mediolani etc. Papie Anglerieque Comiti, ac Cremone domino etc.

  2. V. il Paiello e lo Spino.
  3. Mediolani, die XXIIII januarj, 1467.
  4. Galeaz Maria Sfortia Vicecomes, Dux Mediolani, etc.
    Marco de Marliano. Havendo de ti quella fede che habiamo e hà vere potessimo de caduno fidelissimo nostro servitore, te havemo confirmato alla guardia et castellania del nostro castello et rocha de Trezo al Stato nostro de tanta importancia quanto caduno può cognoscere. Circa la guardia del quale volemo debii osservare li ordini infrascritti et ad quelli, nè alcuni d’essi debii may contrafare, nè contravenire ne consentire ad chi li contrafacesse o tentasse contrafare per dirrecto, nè per indirrecto per alcuna rasone o casone quale dire o imaginare se potesse «sub pena amputationis capitis tui et perditionis tìdei, anime, et corporis» et de perdere tutti i tuoy beni presenti et da venire o vero ogni altra pena che ad nuy parerà.
    Primo. Volimo che con sincera fede et continua vigilanzia tegni dicto nostro castello ad nostro nome, instati tia et peticione, et de quello delli nostri figlioli maschii et legitimi che sera successore in questo nostro Stato et dominio: et quello per lettere te fosseno scripte, nè per ambassate o comandamenti te fosseno facti, non lo consegnerai may ad homo del mondo, sia chi si voglia, ma ad chi nuy te diremo de nostra propria bocha, aut ad chi te scriveremo per lettere sottoscripte de nostra propria mano, et signate de mano de Cicho, Joanne, o Pietro Pagnano nostri secretarli, et sigillate del nostro ducale sigillo in cera bianca, et te mandaremo li contrasigni havemo con ti, et precipue quello te havemo dato nuy de nostra propria mano, senza el quale, se bene avesse l’altri contrasigni, non consigneray il castello; quando vero te scrivimmo per lettere sottoscripte de nostra propria mano signate de mano de uno de dicti secretarii, sigillate del nostro ducale sigillo, et te mandarimo el contrasigno te havimo dato de nostra propria mano, allora consigneray el castello ad chi te scriveremo, etiam che non avessi altri contrasigni.
    Secondo. A ciò non puossi incorrere in manchamento, nè inconveniente alcuno, non volimo che may per veruno tempo debij uscire delle porte de dicto castello nostro per lettere te fossero scripte, nè per ambassate e comandamenti te fossero facti per chi se sia, se non haveray licentia da nuy de nostra propria bocha, aut in scripto et sottoscripto de nostra propria mano, et signata de mano de uno de dicti nostri secretarii et sigillata del nostro ducale sigillo, et sigillata dentro della nostra corniola che imprime Tarma nostra della bissa con el vechio per cimerò che tiene uno diamante in mano in cera bianca, corno sta qui da capo, et te mandarimo el contrasigno te havimo dato de nostra propria mano, senza el quale, se bene avesse tutti l’altri contrasigni, non usciray dai castello quando vero te scriverimo per lettere sottoscripte de nostra propria mano, et signate de mano de uno de dicti nostri secretary, sigillate del nostro ducale sigillo, et mandarimo el contrasigno te havimo dato de nostra propria mano, allora faray quello te scriverimo, etiam che non havessi l’altri contrasigni.
    Tertio. Perchè dicto nostro castello et rocha sia sempre in tua possanza, non volimo che in dicto castello lassi may per tempo alcuno per lettere te fossero scripte, nè per ambassate o comandamenti te fossero facti, senza nostra licentia intrare in castello più de VI persone ad uno tracto, e in la rocha più de due persone sino in tre.
    Et quando nuy vorimo che per guardia della fortezza o per altra casone che per consignarle ad novo castellano, nel qual caso volimo observi el primo capitulo ad literam como sta, lassi entrare più de VI persone ad uno tracto, et più de tre in la rocha, te lo diremo de nostra propria bocca, aut te lo scriverimo per lettere sottoscripte de nostra propria mano signate, de mano de uno de dicti nostri secretarii, sigillate del nostro ducale sigillo, et ancora sigillate dentro della nostra corniola che impreme uno arbore de uno pino ed in pede d’esso pino uno cane in cera rossa, come sta qui da capo, et etiam te mandarimo el contrasigno te havimo dato de nostra propria mano, senza el quale non volimo accepti alcuno, se bene havessi tucti l’altri contrasigni. Quando vero te scriveremo per lettere sottoscripte de nostra propria mano et signate de mano de uno de dicti nostri secretarii, et sigillate del nostro ducale sigillo, et te mandarimo el contrasigno te havimo dato de nostra propria mano, allora faray quello te scriveremo, se bene non havessi l’altri contrasigni.
    Quarto. Volimo che tucte le nostre mnnitione troveray in dicto nostro castello, aut li farimo mettere per l’avenire, le debij ben guardare et conservare, et de quelle non ne dare, nè consumare cosa alcuna, nè picula, nè grande, per lettere te fossero scripte o comandamenti te fossero facti, se non haveraj licentia da nuy de propria bocca, aut in scripto, et sottoscripta de nostra propria mano, signata de mano de uno de dicti nostri secretarli et sigillata del nostro ducale sigillo. Quinto. Volimo che ultra, diete nostre munitione habj, continuamente in dieta fortezza tante victualie delle tue che bastano per ti e per li toy al mancho per uno anno, videlicet moza tre di frumento, stara IIII de farina de frumento, carro uno de vino, brenta una de aceto, stara IIII de legumi, peso uno de carne salata, peso uno de olio, peso uno de formagio, libre due di candele di sevo, stara uno de sale, carro uno de legna, paro uno de calze, para due de scarpe per cadmio compagno et bocca, tutti alla mesura et peso milanese.
    Sexto. Volimo deby tenere alla guardia de dieta nostra fortezza tutte le tue paghe per la mittà balestrieri et l’altra mittà pavesari, et de quelli ne faci la scriptione et monstre secundo l’ordine de bancho nostro di soldati, et che siano apti forasteri fidati et apparescienti, che non siano del dominio de Venetiani, nè habiano in Trezo, nò appresso a Trezo mancho de XX miglia, patre, matre, fratelli, figlioli, sorelle, nè parenti, et de quelli non ne lassi uscire del castello alcuno, nè de di, nè de nocte, senza nostra licentia. De dì siamo ben contenti che per tuo et loro bisogno ne lassi uscire cum tua licentia, et andare per la terra tri o IIII, con questo che alle XXIII hore se trovano tutti in castello alle sue guardie, et sei te accaderà mandare fora per victualie, et munitione et per fare le tue rasone, siamo contenti possi mandare uno o duy delli toy che stiano absenti per qualche di che non excedano la summa de uno mese, l’andare, stare et ritornare computati, fazendo notizia al potestà de Trezo del dì se’ partirano, et del dì ritornerano, quale per sue lettere ne avisa li nostri collaterali, alli quali commandiamo observano questa nostra licentia senza retentione alcuna del suo soldo.
    Con li provisionati nostri che starano lì volimo habij bona intelligentia, et solliciti che fazano le guardie et debito loro, non ne cassando, nè remettendo alcuno senza nostra licentia.
    Septimo. Siamo contenti che in dicto castello alli toy compagni possi vendere pane, vino et carne senza datio alcuno, ma in quello non lassaray zogare ad zogo alcuno dishonesto, nè li lasarai prestare usura, nè per quello consentiray se inganano li nostri datii, immo alli datieri presteray ogni aiuto et favore honesto; nè volimo li faci, nè lassi fare arte de lanificio, nè altra arte dove concorre moltitudine di gente, nè per alcuni delli toi non li lasseray tenire femine, nè concubine. Semo ben contenti che alli compagni et provixionati possi lassare tenire le mogliere de octo fin in X ad tua ellectione, dummodo non habiano in Trezo, nè li presso mancho de XX miglia, patre, matre, fratelli, figlioli, sorelle, nè parenti.
    Octavo. Non volimo che in quelle fortezze accepti presone alcuno senza nostra licentia, aut se da nostri officiali non te saranno consigliati per casone de Stato o altra cosa importante, et quelli accepteray per quale se sia de diete casone, non li lasseray, senza nostra licentia sottoscripta de nostra propria mano, signata de mano de uno de dicti nostri secretarij, et sigillata del nostro ducale sigillo.
    Nono. Non volimo che tu, nè alcuno de li tuoi faci parentato con alcuno senza nostra licentia, et alla porta et rastello de diete forteze teneray tal guardia et ordine che veruno non li possi entrare senza tua saputa et secundo questi nostri ordini o altri te darimo in l’avenire, non tenendo ti, nè alcuno delli toy possessione ad fleto appresso Trezo mancho de XX miglia.
    Decimo. Quando per modo o via alcuna ti accadesse sentire cosa alcuna che fusse contra el Stato, honore et persona nostra o de nostri figlioli, non lo consentiray, imo con tutti li toy sentimenti et forza lo devederay, et subito per tue lettere o messi ne aviserai in ogni loco dove saremo, et quelle cose te commetteremo le teniray secrete et exequiray fidelmente, et faray tutte l’altre cose è obligato fare caduno vero castellano et fidel servitore verso el suo signore, Dat. Mediolani, XV aprilis 1467.

    Galeaz Maria Sfortia Vicecomes

    manu propria. — Cichus.

    La pratica generalmente seguita nel dominio Sforzesco nella consegna dei forti dall’uno all’altro castellano era la seguente. Colui che usciva di carica consegnava al nuovo custode il castello insieme con tutte le munizioni da offesa e da difesa già state a lui rimesse in nome del principe, facendo stendere delle medesime un inventario che si riduceva a publico istrumento notarile, di cui si mandava una copia autentica alla corte. — Il contrassegno dato all’Arcimboldo simile a quello con cui il principe avrebbe suggellate le sue lettere dirette ad esso castellano, fu in cera nera con la testa di una serpe.

  5. V. lettera ducale del 3 di ottobre 1467.
  6. Desumiamo queste notizie biografiche da un Memoriale (14 di giugno, 1475) di Francesco Isolano da Trezzo, diretto al duca di Milano e letto nel Consiglio secreto.
  7. Noi siamo d’avviso che la Drusiana qui accennata sia quella figlia naturale di Francesco Sforza che sposò Giano di Campo Fregoso di Genova, e, dopo la costui morte, Jacopo Piccinino fatto spegnere nel 1465 dal re Ferdinando di Napoli. Durante la sua vedovanza si era ritirata a Milano, donde probabilmente si sarà più volte recata a Trezzo per diporto.
  8. Il Bombognini nel suo Antiquario della diocesi di Milano riporta testualmente la risposta di Vercellino alla duchessa Bona sull’aver ricevuto prigione que’ due personaggi.
  9. Ecco i nomi dei fidejussori per il Ricano: — Giovanni Angelo de’ Talenti, ducati CC — Giovanni Pietro Panigarola, C — Bartolomeo de’ Zenio, C — Lanzalotto de’ Figino, C — Paolo de’ Schiaffinati, CC — Jacopo de’ Bigli, CC — Giovannino da Casate, CC — Stefano da Brivio, C — Giovanni Battista da Cajmi, CC — Ziliolo Oldoino, CC — Giovanni Matteo Butigella, CC — Antonio de’ Pozzobonello, CC — Pietro Galeazzo de’ Trechi, CC — Bartolomeo Maggi da Cremona, CC — Francesco de’ Peso, CC — Giovanni Battista della Cella, CC — Cristoforo Stanga, C. — Paolo de’ Schizi, C.
  10. L’ordine di estrarre dal castello Antonio Simonetta fu spedito al 1.° di novembre, allorchè a Cicco suo padre era già stato mozzo il capo.
  11. Vedi la lettera ducale del 9 d’aprile, 1481.
  12. Dopo varie vicende, che non è del nostro istituto il raccontare, Vercellino morì verso il 1505. Vuoisi altresì notare a sua lode che egli fece scavare nel castello di Trezzo a sue spese un pozzo. Questo senza dubio era allora un grande beneficio, e ne consacrò la memoria anche la poesia. Ecco alcuni versi relativi.

    Arx olim Tritii puteo praeclara carebat,
    Quem bibit illa, suus non erat ante latex
    Vercellinus eques qui præfuit anguiger arci,
    Viscera telluris fodit et hausit aquam;
    Ille vir egregius limphas e Manibus emit,
    Et puteum grandi condidit aere suo.
                                       Puricelli, Nazariana, p. 13.

    Il pozzo, che è profondo a pelo d’aqua anche in oggi 34 metri, porta un sasso forato di un sol pezzo e della circonferenza di 2 metri. La larghezza della fascia è di 45 centimetri.