Trattato di architettura civile e militare I/Trattato/Libro 3/Capo 7

Trattato - Libro 3 - Capo 7

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CAPO VII.

Delle trabeazioni ed analogia di esse col capo umano. Delle gocciole ossiano peducci.

Gli epistili sono certi ornamenti di cornici, posti sopra le colonne, comunemente detti architravi, e alcuni li chiamano cardinali, dei quali è da dichiarare l’altezza e sporto e altre qualità e parti loro. Dove è da sapere, secondo la sentenza di Vitruvio confermata per le opere, che se l’altezza della colonna fusse da 12 in 15 piedi, l’altezza dell’epistilio debba essere la metà del diametro suo da piedi: e se fusse alta da 15 in 20, l’altezza dell’epistilio debba essere un decimoterzo [p. 211 modifica]dell’altezza della colonna: se fusse di 20 in 25, quella dell’epistilio sia due vigesimiquinti della predetta altezza: e se da 25 in 30 sia l’epistilio un decimo sesto; più oltre non si distende. Dove è da avere avvertenza che non volendo lasciare imperfetta l’opinione di Vitruvio, bisogna proporzionalmente meno diminuire secondo che esso ha dichiarato nelle predette quantità1, benchè difficile sia il trovar quella proporzione. Ma la larghezza, ovvero grossezza, dello epistilio debba essere quanto il diametro della colonna sottoposta da capo, però cioè di quella parte che immediate è sottoposta al capitello, e questa parte si chiama sommoscapo. E la ragione è in pronto, perchè se fusse maggiore non poseria in sul vivo della colonna. La proporzione delle parti sue infra sè in questa forma si conosce: dividasi l’epistilio o architrave in sette parti eguali2, delle quali sempre sporta più la superiore dell’inferiore, e la suprema parte, chiamata cimazio, debba essere la settima parte di tutto l’architrave, e tanto debba eziandio aver di proiettura; onde perchè esso cimazio ha più sporto che ciascun’altra parte dell’epistilio, segue che tanta proiettura abbia esso cimazio quanto tutto l’architrave. E dopo questi gli altri sei settimi dell’epistilio si devono dividere in parti dodici, e di queste, tre sene dia alla faccia inferiore che posa sopra al capitello, quattro alla seconda immediata, e cinque alla terza superiore sottoposta immediate al cimazio, detta fastigio (sic), e sopra di questo epistilio si posa il zoforo comunemente detto fregio, il quale può essere di due differenze, cioè con figure o senza. Se fusse figurato ovvero intagliato, debba essere il quarto più alto dell’epistilio, acciocchè le figure meglio discernere si possano: ma se fusse semplice senza figure, debba essere la quarta parte meno dell’epistilio, cioè i tre quarti; onde la prima quantità del fregio a quella dell’epistilio è sesquiquarta, e la seconda subsesquiterza3. Sopra di questo fregio si loca il cimazio il quale debba essere alto la settima parte d’esso zoforo, e sopra a quello il denticulo si pone alto il mezzo del fastigio del suo [p. 212 modifica]architrave, il quale tanto debba avere di proiettura, ovvero sporto, quanto d’altezza. I denti del denticulo devano essere larghi il mezzo dell’altezza, sicchè sieno in duplo lunghi che larghi: e la profondità loro debba esser li due terzi della larghezza loro. Il cimazio posto sopra al denticulo debba esser la sesta parte d’esso denticulo. La corona dipoi sopra a questo col suo cimazio debba esser tanto alta quanto il mezzo dell’epistilio: tutto lo sporto della corona col suo cimazio e col denticulo di sotto debba essere quanto l’altezza del zoforo. Sopra a queste parti poi si pone l’astragalo, il quale in questo loco è conferente a quello del capitello, perocchè qui si debba intendere per astragalo quella parte che è sopra alla corona dove si formano i fusaroli: e questo debba essere alto il nono della corona dagli ultimi cimazi. Sopra a questo dipoi si loca la gola ovvero sima, che debba essere un ottavo più alta che la detta corona di sotto. Gli acroteri, cioè le sommità angolari di sopra tutte le dette parti, sono il mezzo alti del timpano. Ma a più perfetta notizia delle predette regole e proporzioni è da notare che tutte le dette parti assegnate, eccetto il zoforo, debbano tanto sportare, o avere di proiettura, quanta è l’altezza loro: ed è da sapere che tutte le dette parti devono avere la duodecima parte di smusso, ovvero d’inclinazione; sicchè le parti inferiori abbiano minore proiettura, acciocchè da basso quelle meglio si possano comprendere. Le quali parti e regole osservate, avranno le cornici la proporzione loro secondo Vitruvio e l’antica forma.

Alcune altre specie di cornici assai antiche si trovano, difficili, ad intendere per scritture per la oscurità dei vocaboli, benchè rare fussero, dalle quali era ornato nel terzo cinto il Campidoglio di Roma4, e un altro edificio desolato appresso alla chiesa di S. Adriano in Roma5, [p. 213 modifica]e delle simili ho visto in uno edifizio in una selva non molto di lunge da Aquino6, e la simetria di queste è questa. In prima, lo epistilio d’esse in luogo del cimazio ha la tenia, cintura, ovvero benda con le sue gutte: la tenia è la settima parte del fastigio: la larghezza delle gocciole sotto la tenia all’incontro de’ tigrafi (sic) pende la settima parte dell’epistilio: la larghezza di sotto dell’epistilio risponde al diametro da capo della colonna, ovvero strettezza dell’ipotrachelio, cioè il diametro più arcto della colonna: sopra all’architrave si trovavano i tigrafi nella larghezza dello zoforo con le sue metope, cioè spazio fra l’uno e l’altro tigrafo, alti essi tigrafi quanto lo zoforo e larghi in subduplo: e questi tigrafi nelle colonne angolari e mezzo colonne son posti all’incontro de’ mezzi, tre tanti gli spazi. Gli spazi fra l’uno e l’altro tigrafo sono quadrati e hanno i lati eguali. I cimasii dei tigrafi sono alti il sesto di tutto il tigrafo; sopra il cimasio del tigrafo è locata la corona con tanto di sporto quanto è i due terzi del zoforo, e la sua altezza è il mezzo della sua proiettura. Sopra alla corona dipoi si pone le gole, timpani e cimasii, come meglio appare per il disegno7. Ma perchè alle dette simetrie sono state per gli esperti aggiunte molte parti per le quali più e più varie forme di cornici si può componere, quelle insieme con molte altre di mia invenzione porrò nel disegno, senza spiegare con parole le forme loro (Tav. II, 7, 8).

Alcuna volta imaginando e investigando se la proporzione della cornice si potesse ridurre a quella della testa dell’uomo, e commensurando più varie specie di cornici, ho visto di molte essere impossibile, benchè grande similitudine si trovi: manifestamente però molte altre, le quali non solo sono simili, ma della medesima proporzione come appare [p. 214 modifica]per la figura (Tav. II. 9)8. Perocchè l’epistilio è in luogo del petto, il fregio in luogo della gola, l’astragalo invece del mento, il denticulo dei denti, l’ovolo ovvero echino è il naso, la corona ovvero gocciolatoio in cambio della fronte e cigli, e ultimatamente la sima in cambio della sommità e arco del capo. Dunque appare che siccome le spalle sono un sostegno del pondo superiore, così lo epistilio è sostentacolo del pondo della cornice, e per conseguenza tutto il resto del corpo è in luogo della colonna ovvero faccia del tempio; le quali proporzioni, ricercando le antiche opere, è trovato a questo avere corrispondenza. Dopo questo è da intendere che le gocciole, le quali hanno conformità con i capitelli e base9, e partecipano dell’uno e dell’altro, devono esser messe sotto le volte a lunette, e con le proporzioni del capitello o cornici. E di queste nessun autore antico fa menzione, nè mai ne ho potuto vedere in alcun edifizio antico, se non in un tempio guasto in Veios ovvero Civita Castellana10 dove ne era due bellissime e vetustissime. E così sia terminato il parlare delle colonne, cornici e altre parti, supplendo per il disegno in molte parti che il dichiarare saria prolisso.

Note

  1. Vitruvio (III, 3) suggerisce anzi che l’altezza dell’architrave vada aumentando in ragione della maggiore elevazione in cui si trova.
  2. Vitruvio, l. cit.
  3. Sesquiquarta, : : 5 : 4. Subsesquiterza : : 3 : 4.
  4. Quello che qui l’autore chiama terzo cinto (supposto che ve ne fossero altri due esteriori) è il muro del Tabulario Capitolino del quale dà la pianta, ed a f.° 81 v.° (codice membran. Saluzziano) la elevazione a due ordini ambedue dorici e facendoli architravati in piano, la qual cosa è inesatta. V’è scritto: Faccia del champitolio sicchome in buona parte si uede quantunche hocchupata da moderne mura sia.
  5. Leggerebbe forse meglio chi leggesse: Edificio isolato presso alla chiesa di S. Adriano. Questo tempietto d’ordine dorico, quadrato in pianta, era ad una estremità del Foro palladio o transitorio. I disegni esistono presso Antonio Labacco (Libro d’architettura, Roma 1559, Tav. XVII e XVIII). Metà della facciata è ritratta nell’ora citato codice di monumenti antichi del nostro autore a f.° 79 r.° senza alcuno scritto, ed il cornicione è qui disegnato in calce al cod. Magliabechiano f.° 36 v.°: io lo ometto potendosi vedere, ed anche più esatto, nella Tav. XVIII del Labacco.
  6. Dalla descrizione unita, risulta che dorico era quest’edifizio d’Aquino. Due bellissimi cornicioni corintii, che erano in alcuni ruderi presso questa città, vedonsi disegnati dal Ligorio al vol. III A. delle antichità sue (MS. de’ RR. Archivi di Torino).
  7. Manca il disegno del cornicione d’Aquino: gli altri due sonsi tralasciati perchè meno esatti.
  8. Questa figura l’ho tolta dal cod. membr. I, quantunque ripetuta si trovi nel cod. Sanese delle macchine, e quindi nel Magliabechiano. La chimera di trovare le parti e le proporzioni di ogni cosa architettonica nelle parti e proporzioni dell’uomo nacque nel XV e XVI secolo dalla poco saggia lettura di Vitruvio. Appena v’è di que’ due secoli trattato alcuno nel quale le stesse assurde opinioni non siano ripetute a sazietà e colle parole medesime: di questi paralleli se ne ride il Milizia, ed è fra le poche volte che rida a ragione.
  9. Gocciole e peducci chiama il nostro autore que’ capitelli di pilastro di quasi nissuno aggetto e sovrapposti ad una mensola schiacciata, sui quali usavasi di impostare il nascimento delle lunette. Sono frequentissimi negli edifizi del XV secolo, e molto ragionevoli e belli.
  10. Veramente gli antichi architetti non usavano peducci, i quali ebbero origine negli edifizi de’ tempi bassi. L’esatta lettura degli autori antichi, e, meglio, le lapidi trovate frequentissime all’Isola Farnese attestano che qui fu, e non a Civita Castellana, la città di Veio: questo sbaglio si condoni all’autore, poichè l’errore era di tutti, sinchè sorse nel XVII secolo a combatterlo il Nardini (Veii antica) contro Iacopo Mazzocchi. Pure nel 1825 il Morelli comparve con una dissertazione per far rivivere la vecchia e fallace opinione. Non potè combattere la verità de’ fatti. L’edificio qui mentovato più non esiste in Civita.