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per la figura (Tav. II. 9)1. Perocchè l’epistilio è in luogo del petto, il fregio in luogo della gola, l’astragalo invece del mento, il denticulo dei denti, l’ovolo ovvero echino è il naso, la corona ovvero gocciolatoio in cambio della fronte e cigli, e ultimatamente la sima in cambio della sommità e arco del capo. Dunque appare che siccome le spalle sono un sostegno del pondo superiore, così lo epistilio è sostentacolo del pondo della cornice, e per conseguenza tutto il resto del corpo è in luogo della colonna ovvero faccia del tempio; le quali proporzioni, ricercando le antiche opere, è trovato a questo avere corrispondenza. Dopo questo è da intendere che le gocciole, le quali hanno conformità con i capitelli e base2, e partecipano dell’uno e dell’altro, devono esser messe sotto le volte a lunette, e con le proporzioni del capitello o cornici. E di queste nessun autore antico fa menzione, nè mai ne ho potuto vedere in alcun edifizio antico, se non in un tempio guasto in Veios ovvero Civita Castellana3 dove ne era due bellissime e vetustissime. E così sia terminato il parlare delle colonne, cornici e altre parti, supplendo per il disegno in molte parti che il dichiarare saria prolisso.

  1. Questa figura l’ho tolta dal cod. membr. I, quantunque ripetuta si trovi nel cod. Sanese delle macchine, e quindi nel Magliabechiano. La chimera di trovare le parti e le proporzioni di ogni cosa architettonica nelle parti e proporzioni dell’uomo nacque nel XV e XVI secolo dalla poco saggia lettura di Vitruvio. Appena v’è di que’ due secoli trattato alcuno nel quale le stesse assurde opinioni non siano ripetute a sazietà e colle parole medesime: di questi paralleli se ne ride il Milizia, ed è fra le poche volte che rida a ragione.
  2. Gocciole e peducci chiama il nostro autore que’ capitelli di pilastro di quasi nissuno aggetto e sovrapposti ad una mensola schiacciata, sui quali usavasi di impostare il nascimento delle lunette. Sono frequentissimi negli edifizi del XV secolo, e molto ragionevoli e belli.
  3. Veramente gli antichi architetti non usavano peducci, i quali ebbero origine negli edifizi de’ tempi bassi. L’esatta lettura degli autori antichi, e, meglio, le lapidi trovate frequentissime all’Isola Farnese attestano che qui fu, e non a Civita Castellana, la città di Veio: questo sbaglio si condoni all’autore, poichè l’errore era di tutti, sinchè sorse nel XVII secolo a combatterlo il Nardini (Veii antica) contro Iacopo Mazzocchi. Pure nel 1825 il Morelli comparve con una dissertazione per far rivivere la vecchia e fallace opinione. Non potè combattere la verità de’ fatti. L’edificio qui mentovato più non esiste in Civita.