Trattato della pittura (Leonardo da Vinci)/Prefazione di M. Tabarrini
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PREFAZIONE
Questa ristampa del Trattato della pittura di Leonardo da Vinci è il primo tentativo di una Società cooperativa di tipografi, i quali, lavorando a tempo avanzato per proprio conto, intendono di mettere in luce libri di facile smercio e di provata utilità. Questo fatto di operai intelligenti e laboriosi che si associano per produrre e porre in commercio i prodotti dell’arte loro, ci sembra che meriti di essere incoraggiato, più per il suo valor morale che per le sue conseguenze economiche, sulle quali non vogliamo qui disputare. E il valor morale del fatto sta nell’associarsi col capitale, frutto del risparmio, e coll’opera diretta da volontà concordi e ben disposte, al fine di far cosa utile agli associati e di giovamento all’universale. Ed infatti essi non intendono di sfruttare la malsana curiosità del tempo nostro divulgando colla stampa romanzi e novelle, ove col pudore sono offesi i sentimenti più nobili della natura umana, cose a cui non badano tipografi di nome e ricchi di capitali e di materiale tipografico, ma vogliono scegliere libri che onorino le lettere e intendano piuttosto a migliorare che a corrompere.
Promessa di questi lodevoli intendimenti è intanto questo primo volume, che essi offrono ai loro concittadini; e dal quale sperano onesto guadagno ed anche l’approvazione di quanti vedono negli umili principî delle cose l’importanza degli effetti che possono derivarne nell’avvenire.
Questa ristampa dell’opera di Leonardo, per quanto condotta accuratamente sulle migliori edizioni che se ne fecero in Italia, messe a riscontro col codice Vaticano, non ha l’ambizione di dare un testo genuino avvalorato da tutti i sussidi della critica moderna. Il fine che si proposero gli editori, di rendere il libro di Leonardo accessibile al maggior numero dei lettori, anche mezzanamente istruiti, e soprattutto agli artisti, condusse alla necessità di ammodernare l’ortografia e l’interpunzione, di togliere gli arcaismi che rendevano oltremodo difficile l’intelligenza del testo, seguendo per lo più la lezione adottata dal De Romanis nella edizione pubblicata a Roma nel 1817. Condotta così la stampa, non si fece nè più nè meno di quello che avevano fatto i precedenti editori italiani. Se non che si studiò con maggiore accuratezza la collazione del codice Vaticano, correggendo ovunque le altre edizioni se ne erano scostate, e ponendo ai loro luoghi le giunte che in quello confusamente si trovano. Chi guardi l’edizione del codice fatta con grande apparato di dottrina da Enrico Ludwig a Vienna nel 1882, si persuaderà facilmente, che il testo lasciato in quella forma antiquata e scorretta, se avrebbe appagato la critica, la quale esige oggi, non senza ragione, la fedele riproduzione dei testi, non avrebbe sicuramente cresciuto lettori a questa novella ristampa. E di questa opinione furono il comm. Filippo Mariotti ed il prof. Giovanni Mestica, che primi incoraggiarono l’Unione cooperativa editrice, e le consigliarono la riproduzione del libro della pittura di Leonardo.
Queste cose sulle intenzioni degli editori volevano esser dette sul bel principio, perchè questa ristampa venga giudicata per quello che è, non per quello che altri forse avrebbe potuto desiderare che fosse. Leonardo scrisse questo libro della pittura verso il 1498 per la scuola che Lodovico Sforza aveva fondata a Milano, dalla quale uscì quella bella schiera di pittori e scultori che fiorì per assai tempo in Lombardia, mantenendo sempre il suo carattere che partecipa insieme della scuola toscana del quattrocento e della romana di Raffaello e dei suoi imitatori. Chi volesse peraltro paragonare la scuola di Leonardo all’Accademia fondata più tardi dai Caracci a Bologna, troverebbe nel confronto che le differenze sono assai maggiori delle somiglianze. I Caracci intendevano di ritardare con norme convenzionali la decadenza dell’arte; mentre Leonardo mirava a dare all’arte fiorente il sussidio della scienza. E scienziato, nel senso che allora poteva darsi a questa parola, era veramente Leonardo, il quale col genio inventivo di cui era dotato, nelle sue osservazioni sui fatti naturali, anticipò alcune delle scoperte moderne. Questo libro della pittura, come gli altri sulla prospettiva e sulla luce e sulle ombre, sono raccolte di precetti pratici dedotti con grande acutezza dai teoremi della geometria, dell’ottica e della meccanica, scienze non formate ai suoi tempi in corpo di dottrina, ma che egli intravvedeva in embrione cogli occhi della mente.
Si dirà forse che tutti questi precetti riguardano piuttosto la parte tecnica che il concetto dell’arte; ma è appunto la parte tecnica che può formar soggetto d’insegnamento, mentre tutto quello che è idealità e sentimento, se l’artefice non l’ha dentro di sè, nessun maestro sarà capace d’insegnarglielo. Leonardo applicava alle sue opere gli insegnamenti che dava ai suoi allievi, e quali effetti sapesse ritrarne lo dicono i suoi quadri divini, che in tutti i tempi formarono la meraviglia del mondo; lo dice il disprezzo in cui quegli insegnamenti si tengono oggi da coloro che ingombrano le sale delle pubbliche esposizioni con dipinti tirati giù alla brava senza studi e senza concetto, che sono oltraggi alla natura ed all’arte. Con tutti i progressi che hanno fatto ai dì nostri le scienze applicate alle arti, i precetti di Leonardo crediamo che abbiano sempre un valore grandissimo; e sebbene alcuni si potessero oggi dimostrare con maggior rigore di principi scientifici, pure è sempre vera l’osservazione del fatto da cui sono dedotti. E non è da meravigliare che questo maestro dell’arte tanto studiasse nei minimi particolari i suoi dipinti, da parere ai contemporanei che perdesse il tempo ninnolandosi in apparecchi senza costrutto; perchè è soltanto con questo studio e con questi avvedimenti scrupolosi che si può fare d’un ritratto di donna, come la Gioconda, un capo d’opera da stare a pari coi dipinti di grandiosa composizione.
Leonardo è veramente una delle più grandi e geniali figure del rinascimento, uno degli ingegni più universali e originali che abbia avuto l’Italia. In quell’epoca singolare che non ha riscontro altro che nel più bel secolo della Grecia antica, l’Italia ebbe una fecondità portentosa d’uomini di genio che le assicurarono il primato nelle lettere e nelle arti, mentre il resto d’Europa stentava ad uscire dalle tenebre del medio evo. Il carattere di quell’epoca era la bellezza e l’eleganza che scaturivano da tutte le manifestazioni della vita. Il brutto e il deforme, non che rappresentarsi, neppure si concepivano. Era una fioritura spontanea d’ingegni che sentivano tutte le armonie del bello e sapevano rappresentarlo in tutte le sue forme.
L’arte era il lusso di quei tempi, e le Corti dei Medici, degli Estensi, degli Sforza, dei Gonzaghi erano scuole di costumi gentili e ritrovo geniale di artisti e di poeti. Le fantasie del Pulci e dell’Ariosto riflettevano la vita spensierata di quelle Corti, le quali nulla avevano del feudale, come le Corti di Francia e di Alemagna; ma, venute su nelle città da supremazie più o meno consentite di cittadini potenti, avevano serbato il carattere civile ed erano aperte a tutti gli uomini d’ingegno senza privilegi di caste, senza predominio di spade. Anche il cristianesimo sembrava aver rimesso della sua austerità e dei suoi terrori, e la Corte dei Papi era tutta piena dello spirito del secolo. E questo spirito era tanto civile e tanto innovatore, da non sembrare temerario il pensare che forse, se non era la riforma teologica di Martino Lutero, molte rivendicazioni di libertà in Italia si sarebbero potute conseguire per il solo effetto della cultura universalmente diffusa, della potenza dell’ingegno universalmente riconosciuta.
Ma perchè il rinascimento, con tanto splendore di conati, oltre i miracoli dell’arte, non produsse nulla di grande nelle istituzioni politiche? Perchè si consumò senza lasciare dietro di sè altro che poemi, quadri e statue? Perchè l’Italia ne uscì più misera, più serva, più corrotta?
Fra le molte ragioni che si potrebbero addurre di questo fatto capitalissimo nella nostra storia, ci fermiamo a questa sola che ne comprende molte altre. Al rinascimento mancò un’alta idea morale che facesse mirare ad un fine degno l’opera di tanti ingegni, mancò il concetto d’una patria grande che rendesse operative nel campo dei fatti le forze che si perdevano nelle vane speculazioni.
Quelle generazioni educate all’eleganza non avevano il sentimento della forza che produce l’azione, un fine alto da raggiungere che nobilitasse i prodotti dell’ingegno. Michelangelo era un gigante solitario in mezzo alle rovine, pensoso sui destini del mondo; Torquato Tasso, forse il solo vero poeta del rinascimento, cantava sul serio le prodezze della cavalleria già ridotta a favola dall’Ariosto, e gli entusiasmi della fede in mezzo a gente che più non pensava al Sepolcro di Cristo. Tutti gli altri appariscono decoratori di quel grande festino, nel quale nè il paganesimo risorgeva, nè il cristianesimo si purificava. Così nella politica la scaltrezza era tenuta scienza di Stato, e l’Italia, alle potenti monarchie d’Europa che ne facevano il campo delle loro ambizioni, rispondeva non con armi concordi, ma con sotterfugi di leghe e di trattati oggi conclusi, domani disdetti; ma tutte le astuzie e le furberie non le bastarono, e cadde preda del vincitore.
Leonardo da Vinci è forse il solo grand’uomo che rileghi il rinascimento ai tempi moderni. Il suo genio universale, che in sè congiungeva quanto ha di più peregrino l’arte e di più applicativo la scienza, presentiva il grande moto scientifico che si sarebbe destato in un prossimo avvenire. Egli invocava l’esperienza come interprete dei segreti della natura; la quale teneva come maestra delle superiori intelligenze. Per queste intuizioni delle quali abbondano i suoi trattati ed i suoi appunti, ove egli pose quasi senza saperlo i germi dell’ottica, dell’idraulica e della meccanica, Leonardo si può dire che dia la mano a Galileo.
Ma anch’egli come dovè sentire la miseria del suo tempo! Non curato dai Medici a Firenze, male accetto a Leone X a Roma, egli dovè acconciarsi con Lodovico il Moro a Milano, che non aveva neppure la prodezza ed il coraggio che erano virtù della sua schiatta. Caduto il Moro, non trovò miglior partito che quello di porsi ai servigi di Cesare Borgia, altro scellerato della risma dello Sforza; e lo seguì, come ingegnere militare, nella impresa delle Romagne. Mancatogli anche questo, si ridusse ad allogarsi con Francesco I, che ambiva portare in Francia la cultura italiana, e morì in terra straniera, a Cloux presso Amboise, nel 1519.
Da queste considerazioni sul rinascimento di cui Leonardo fu una delle figure più originali, non sarà inutile trarre qualche conseguenza. E la più evidente è questa: che gli uomini d’ingegno non bastano a salvare le nazioni quando è smarrito il principio morale direttivo delle azioni umane. Vera rerum nomina amisimus, gridava Catone nel Senato di Roma quando Catilina trovava apologisti; e lo stesso si poteva dire all’Italia del secolo xvi, quando in Cesare Borgia si sperava un salvatore. Allorchè sono alterate le nozioni del bene e del male, l’anarchia delle menti si fa strada all’anarchia dei fatti. E all’anarchia dei fatti pose fine la spada di Carlo V. — Se ne può dedurre anche questo: che una civiltà non si rinfranca se non tornando al principio che l’ha generata. Il rinascimento volle evocare almeno nelle forme la civiltà pagana dimenticando il cristianesimo, e per questo l’opera sua riuscì infeconda di grandi effetti, nè fu difesa contro la forza incivile che la oppresse. Le nazioni che abbracciarono la Riforma uscirono dalla lotta più ritemprate e più forti di noi Latini, perchè la civiltà che istaurarono era in fondo cristiana. È inutile cavillare sui fatti; la civiltà nostra, fondata sul cristianesimo, non può altro che fiorire o perire con lui.
Tornando ora al principio donde mossero le nostre parole, osserviamo che Leonardo da Vinci nel rinascimento rappresenta la divinazione dell’avvenire, e in questo senso egli è forse il più gran genio di quel secolo meraviglioso. Che se anch’egli dovè piegarsi alle miserie morali del tempo, dipingendo i ritratti delle donne amate dallo Sforza ed aiutando le imprese del Valentino, serbò nell’anima una virtù che lo inalzava al di sopra della più gran parte dei suoi contemporanei.
Se il risorgimento, almeno nella sua forma esteriore, ci si rappresenta un gioioso carnevale di principi, di politici, di poeti, di artisti, gente spensierata che sciupa tanto ingegno quanto sarebbe bastato a molte generazioni, non era sicuramente nato per divertire la folla chi scriveva queste parole, che ripetiamo volentieri alla gioventù nostra, come conclusione di questo nostro discorso: «Non allegate mai la vostra poverezza che non vi permetta di studiare e di rendervi abili: lo studio delle virtù serve di nutrimento all’anima e al corpo».
M. Tabarrini.