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prefazione xvii

e ritrovo geniale di artisti e di poeti. Le fantasie del Pulci e dell’Ariosto riflettevano la vita spensierata di quelle Corti, le quali nulla avevano del feudale, come le Corti di Francia e di Alemagna; ma, venute su nelle città da supremazie più o meno consentite di cittadini potenti, avevano serbato il carattere civile ed erano aperte a tutti gli uomini d’ingegno senza privilegi di caste, senza predominio di spade. Anche il cristianesimo sembrava aver rimesso della sua austerità e dei suoi terrori, e la Corte dei Papi era tutta piena dello spirito del secolo. E questo spirito era tanto civile e tanto innovatore, da non sembrare temerario il pensare che forse, se non era la riforma teologica di Martino Lutero, molte rivendicazioni di libertà in Italia si sarebbero potute conseguire per il solo effetto della cultura universalmente diffusa, della potenza dell’ingegno universalmente riconosciuta.

Ma perchè il rinascimento, con tanto splendore di conati, oltre i miracoli dell’arte, non produsse nulla di grande nelle istituzioni politiche? Perchè si consumò senza lasciare dietro di sè altro che poemi, quadri e statue? Perchè l’Italia ne uscì più misera, più serva, più corrotta?

Fra le molte ragioni che si potrebbero addurre di questo fatto capitalissimo nella nostra storia, ci fermiamo a questa sola che ne comprende molte altre. Al rinascimento mancò un’alta idea morale che facesse mirare ad un fine degno l’opera di tanti ingegni, mancò il concetto d’una patria grande che rendesse operative nel campo dei fatti le forze che si perdevano nelle vane speculazioni.

Quelle generazioni educate all’eleganza non avevano il sentimento della forza che produce l’azione, un fine alto da raggiungere che nobilitasse i prodotti dell’ingegno. Michelangelo era un gigante solitario in mezzo alle rovine, pensoso sui destini del mondo; Torquato Tasso, forse il solo vero poeta del rinascimento, cantava sul serio