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xviii | m. tabarrini |
le prodezze della cavalleria già ridotta a favola dall’Ariosto, e gli entusiasmi della fede in mezzo a gente che più non pensava al Sepolcro di Cristo. Tutti gli altri appariscono decoratori di quel grande festino, nel quale nè il paganesimo risorgeva, nè il cristianesimo si purificava. Così nella politica la scaltrezza era tenuta scienza di Stato, e l’Italia, alle potenti monarchie d’Europa che ne facevano il campo delle loro ambizioni, rispondeva non con armi concordi, ma con sotterfugi di leghe e di trattati oggi conclusi, domani disdetti; ma tutte le astuzie e le furberie non le bastarono, e cadde preda del vincitore.
Leonardo da Vinci è forse il solo grand’uomo che rileghi il rinascimento ai tempi moderni. Il suo genio universale, che in sè congiungeva quanto ha di più peregrino l’arte e di più applicativo la scienza, presentiva il grande moto scientifico che si sarebbe destato in un prossimo avvenire. Egli invocava l’esperienza come interprete dei segreti della natura; la quale teneva come maestra delle superiori intelligenze. Per queste intuizioni delle quali abbondano i suoi trattati ed i suoi appunti, ove egli pose quasi senza saperlo i germi dell’ottica, dell’idraulica e della meccanica, Leonardo si può dire che dia la mano a Galileo.
Ma anch’egli come dovè sentire la miseria del suo tempo! Non curato dai Medici a Firenze, male accetto a Leone X a Roma, egli dovè acconciarsi con Lodovico il Moro a Milano, che non aveva neppure la prodezza ed il coraggio che erano virtù della sua schiatta. Caduto il Moro, non trovò miglior partito che quello di porsi ai servigi di Cesare Borgia, altro scellerato della risma dello Sforza; e lo seguì, come ingegnere militare, nella impresa delle Romagne. Mancatogli anche questo, si ridusse ad allogarsi con Francesco I, che ambiva portare in Francia la cultura italiana, e morì in terra straniera, a Cloux presso Amboise, nel 1519.