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argine al dilagare dell’idolatria, perchè l’amore e l’entusiasmo tornassero più vividi e gagliardi. E non si tornerà indietro oramai; giacchè al Manzoni avviene come ai veri sommi: più si allontana nel tempo, più la sua figura ingigantisce. Il Monte Rosa non è compreso in tutta la sua massiccia grandezza se non da chi lo contempla dalla pianura lombarda.

Non intendo dunque parlare di maltrattamenti letterarii. Non si tratta nè di aguzzini cólti, nè d’innocui colpi tirati metaforicamente addosso al Romanzo o alle Tragedie, agl’Inni sacri o alle Odi patriottiche. Accenno invece alla rivelazione singolare e sbalorditiva, fatta or ora, trentotto anni dopo la morte del vegliardo venerando e venerato, da uno scrittore che vive da moltissimi anni a Milano e di cose milanesi si è sempre occupato con simpatia, e che ammira degnamente l’opera manzoniana.

Nel suo recentissimo volume, ove son raccolte e narrate Grandi e piccole memorie, Raffaello Barbiera, a proposito di altro, discorrendo cioè di Tommaso Grossi, il poeta, com’egli con frase manzoniana intitola il suo scritto, «cui

    sulle paludose rive del Semèni, in Albania, combattendo, con l’audacia e l’entusiasmo che gli erano proprie, insieme col secolare nemico d’Italia il terribile morbo insidioso che mieteva le giovani vite affidate al suo comando. È ora sepolto laggiù, presso l’infida Valona, tra una selva sterminata di croci. Ancora a capo e in riga coi suoi soldati che l’adoravano, pare ammonisca i sopravvissuti dell’opposta sponda: Ecco, noi abbiamo compiuto il nostro dovere fino all’estremo sacrifizio; non mancate voi di compiere il vostro! — Era figliuolo d’un mio fratello materno: si chiamava Paolo della Valle. Il prof. Francesco d’Ovidio, che lo commemorò poi all’Accademia dei Lincei, mi scrisse dal Senato il 23 ottobre ’18 queste righe, che lo ritraggono fedelmente: «Apprendo or ora la sciagura tremenda. Ne sono profondamente accorato. Che caro figliuolo, che brav’uomo, che bella promessa per l’avvenire, che forza già fin d’ora per gli studi italiani e per tutto! Non so che dirvi. Quando lo vidi l’ultima volta da me, tutto infervorato per gli studi che faceva in Macedonia sul rumeno, e per tanti interessi politici che egli intravedeva per noi in quel rimasuglio di romanità nelle giogaie del Pindo, io lo ammiravo, lo confortavo a proseguire, gli diedi i ragguagli che mi chiedeva per proseguire, ma insieme il cuore mi si stringeva, e nell’abbracciarlo da ultimo pensavo mestamente: lo rivedrò più? Ora ripensando a tanto fiore di gioventù spezzato, e a quel povero padre e a quelle buone sorelle, io ne resto smarrito. Mi condolgo vivamente anche con voi. Addio, addio».