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206 Adolfo Albertazzi


erompe dalla inerte materia. È una squallida uguale tristezza. Eppure così bella!

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I calanchi — a cercarvi conchiglie fossili — furon la méta dei primi giuochi per me e Adriana: compagni d’infanzia.

E forse quell’asprezza del luogo nativo ci aveva come d’istinto allevati a una fiera puerizia, che contrastava all’educazione familiare.

Ma con l’aumentar dell’età preferimmo scendere per i campi nella Landa e là raccoglier fiori con lo spettacolo della montagna di fronte, così vario di tinte e di luci nel seguir delle ore. Giorni beati dell’anima ancor candida! giorni felici delle prime ingenue e pure tentazioni d’amore!

S’intende però che, con tutto il bene che ci volevamo, Adriana ed io ci accapigliavamo spesso; a volte più che lo sfogo di una bizza improvvisa era quasi una prova di ribellione. Avevamo l’arcana coscienza di esser legati dall’affetto per sempre, e ci bisognava anche la coscienza di poter divincolarci.

A volte diveniva fin necessario l’intervento di qualche amico per rimetterci in pace: a fatica sembravamo far grazia l’uno all’altra; e ne avevamo tanta voglia di sorriderci e di correr via insieme, incontro alla gioia, incontro a un non dubbioso avvenire!