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FRANCESCO MIO...
Aveva tanta sensibilità e fantasia così primitiva, tanta cedevolezza alle impressioni e ingenuità di commozioni che gli bisognava umanare tutte le cose; e se queste doti bastassero da sole a fare un poeta, sarebbe stato un poeta ammirato fors’anche dai critici e dagli editori, ricco e felice. Mancandogli quel che gli mancava era invece soprannominato Mattucco, e campava di piccole mance e di carità.
Di solito, badava ai birocci e alle birocce che si fermavano davanti alle osterie e alle botteghe del paese, e, deriso dagli uomini, si intratteneva in seri colloqui con i buoi, i cavalli e gli asini.
Delle bestie interpretava a meraviglia i moti del cuore e del cervello, per non dire l’animo e le idee; e nelle bestie trasferiva l’animo suo e il suo pensiero con semplicità adeguata: poteva così indovinarne e riferirne a sè stesso, a voce alta e chiara, domande e risposte. E chi si doleva con lui del padrone manesco, e chi dei tafani tormentosi, e chi del carico soverchio. Capitavano mamme che avevano il vitellino o il cavallino o l’asinino a casa e gli confidavano le materne ansie, ed egli ne ammirava l’affezione; le consolava. Capitavano manzoli o puledri irrequieti, ed egli ne rimproverava i capricci; li esortava ad esser bravi. Capitavano vecchie rozze, e il dialogo assumeva una simpatia fraterna.
Se per improvviso miracolo uno di quei buoi o di quei cavalli o di quegli asini avesse acquistata davvero la favella, a discorrere con lui non avrebbe potuto usar modi e toni diversi da quelli che egli gli attribuiva.
Nè avrebbe inorridito, Mattucco, al fenomeno mostruoso: gli sarebbe anzi parsa la cosa più naturale del mondo, appunto per quell’intima cordialità di rapporti fra lui e gli animali.
Rari i malintesi; e dopo, più amici di prima! Per poco non gli toccava la cornata, o il calcio, o il morso che era rivolto a una mosca proterva o a un’ombra fugace o a un’avversione istantanea? Chiarito l’equivoco, subito la pace era fatta; sancita, magari, da un bacio.
Gli uomini, invece!
Sempre in guerra: sempre accuse, provocazioni, proteste, minacce, offese, violenze. Senza tregua, mai, dalle osterie, dal mercato, dalle strade, dalle case giungevano all’orecchio dello scemo voci d’irosi dissidi, di contratti stentati, di promesse strappate a forza, di inganni scoperti a caso; di frodi; di tradimenti; d’infamie; e nel suo cervello, sì tenero alle apparenze e alle sensazioni della vita estranea, la turbolenta umanità si confondeva tutta in un litigio unico, tremendo, continuo, enorme, insopportabile. Che cattiveria! Ne soffriva sebbene non ci avesse nè arte nè parte, e con i nervi eccitati e il batticuore si rifugiava al convento, là, fuori di porta.
A mezzogiorno i frati gli davano un mestolo di zuppa, e l’ingollava seduto sul gradino, alla cella di San Francesco. Dormendo, dopo, sul gradino, chetava in sè il tumulto della vita sociale; e risvegliandosi e rialzandosi restava a conversare un po’ col santo, che lo rincorava, da buon amico anche lui, nei dialoghi immaginari.
Pater, Ave e Gloria. Poi Mattucco tornava in paese, a intrattener le bestie — che bontà! — , e a paventar gli uomini — che cattiveria!
II.
Sotto il portico, a un lato della chiesa francescana, era la cella del Santo e della Pietà.
La Madonna, assisa su di un masso, reggeva il capo al divin figliuolo e piangeva: giaceva, morto, il Signore; livido e sanguinante. E, separato, di contro, San Francesco con la faccia benigna volta a coloro che sopravvenivano, tendeva la destra accennando al sacrificio e con un mesto sorriso significava ai visitatori giudiziosi:
— Guardate e pregate, fratelli!
I visitatori guardavano e talvolta pregavano. E poichè le statue erano colorate al vivo, alte come persone vere e umane nel sacro aspetto, e l’ombra inclusa nel portico e l’interna penombra della stanza accrescevano il senso del dramma arcano, qualche cuore rimaneva preso e compunto. Alle preghiere seguivano le offerte.
Raccogliendo queste a intervalli, fra’ Pasquale, portinaio e sagrestano, lasciava tuttavia alcuni soldi in terra esempio e invito ad altra elemosina; e così la carità del Signor morto e di San Francesco rendeva abbastanza bene.
Or avvenne che lo scemo si destò un giorno dal solito riposo mentre due monellacci osservavano dentro la cella, e dicevano tra loro:
— A un’asta impegolata in cima, i soldi s’attaccherebbero.
— E i frati? E fra’ Pasquale?
— Hai ragione. Meglio starne alla larga, da quell’accidente!
Temevano il bastone dei frati, non il sacrilegio, i gaglioffi! E se n’andarono. Lo scemo, però, aveva capito. Canaglie, che idea! Rubare a San Francesco! i soldini di San Francesco! — E stette là, immoto, come immersa l’anima in un pensiero profondo. Pensava con faticosa connessione d’idee: — Elemosine. — A chi vanno? Chi se le gode? — Soldini e... bicchierini: soldini e pane.
Poi Mattucco guardò alla statua del santo quasi si aspettasse di vederla turbata. Ma no: non aveva perduta l’abituale bonomia: anzi sembrava che il dolce sorriso s’effondesse vieppiù dagli occhi per le guancie.
San Francesco parve dire — e Mattucco disse infatti per lui:
— Son da compatire anche i bricconi, se i frati non fan le cose giuste! Fra’ Pasquale non aiuta chi n’ha più bisogno.
— È vero — aggiunse Mattucco da parte sua. — A me non mi dà mai un soldo.
— Prendine — gli disse San Francesco. — Adesso hai imparato come si fa.
— Prenderne? E l’inferno?
San Francesco sorrideva semore. — Non ci son io a farti perdonare; io, San Franceschino?
Ma lo scemo non era ancora persuaso. Dimandò:
— E fra’ Pasquale? Se mi arriva addosso quell’accidente?
— Non c’è qui il Signore con la Madonna a proteggerti, a difenderti dalle bastonate?... Pater Ave e Gloria.
Allora Mattucco recitò le orazioni. E si avviava, persuaso, per andar a cercare l’asta e la pece.
Ricordandosi però di quanto avveniva tra gli uomini, in paese, tornò indietro a stringere il patto, a prender garanzia.
— D’accordo? Siam d’accordo, San Franceschino mio? Sì? proprio davvero?
— D’accordo!
— Parola?
— Parola di galantuomo!
III.
Fra’ Pasquale non tardò ad accorgersi del furto, sebbene avvenisse a intervalli lunghi; e di quando in quando, nel tempo che aveva libero, stette in agguato dietro la porticina della cella.
Ed ecco, un pomeriggio, vide entrar l’asta per l’inferriata e contemporaneamente udì una voce che diceva:
— San Franceschino mio, son qui! Ho voglia d’un bicchier di vin buono. Voi badate a fra’ Pasquale.
Chi era il ladro! Lui, Mattucco, rubava! Povero mendico! E chi gli aveva insegnato il tiro? O forse la sete del vino gli aveva aguzzato l’ingegno? A ogni modo la scoperta fe’ sbollir subito l’ira al francescano; gli mise la voglia di seguitare il gioco per divertirsi. E pronto, in tono soave, senza mostrarsi, fece:
— Ah Mattucco! Mattucco! Io sono il tuo protettore, il tuo San Franceschino, e tu mi rubi le elemosine? Credi proprio che all’inferno ci si stia bene?
A queste parole lo scemo rimase stupito. Stupito, non spaventato. Non sbigottisce al portento: San Francesco ha parlato? La cosa più naturale del mondo! Ma gli è incredibile quel che ha udito, da lui.
Come? Il Santo adesso lo rimprovera? Io minaccia? E il patto conchiuso fra loro? La parola data: parola di galantuomo?
— All’inferno! — seguita con tono cupo il frate. — Povero te!
L’altro non si muove. Cerca chiarirsi in testa questo misterioso mutamento. Mancar di parola, adesso. Perchè mai?
Ah che pur troppo la trova la spiegazione! Sì: i santi furono uomini; e mutano di parola come gli uomini litigiosi e falsi!
E lo scemo s’arrabbia; e tutte le contumelie che ha appreso per le strade, per le osterie e nel mercato a mortificazione di chi manca ai patti, le scaglia contro San Francesco. E si spiega:
— Vergogna! Rimangiarsi la parola data! E pretender fede dai galantuomini, dai poveretti! E tradire! E chiamar in aiuto il diavolo, un santo!
Ma nella sua ira c’è, più profondo, il dolore; c’è l’amarezza di una delusione crudele; c’è una disperata angoscia. Gli pare, a Mattucco, d’impazzire! Un santo! Traditore! Oh!
Che mondo! Che onore! Che infamia! Oh scappar via! via! Scappare lontano, per sempre! fuggire dove non s’inganni e si tradisca! Non vedere nè un uomo, nè un santo, mai più! Via! ...Dove?
IV.
Si diede alla campagna. Bello vagare qua e là lungo i sentieri ombrosi o per le strade solitarie; bello mansuefare con le buone maniere i cani infuriati e chiamar con voci infantili i vitellini e i puledri; bello intendersi con le stelle o ridere con la luna.
Alle case le donne che lo riconoscevano gli chiedevano qual disgrazia lo avesse colpito; quali dispiaceri avesse. Una volta la sua faccia era così allegra! Adesso invece era così magro!
Si schermiva; ricevuto il tozzo di pane, scappava rapido. E finchè poteva resistere, preferiva la fame a mendicar dalla gente.
Ma ahimè! Mentre egli sfuggiva alla vita degli uomini, altra vita sfuggiva a lui. Quella sua sensibilità, quella sua intimità con gli animali e con le cose, comportabile nei limiti del paese, nel mondo sconfinato diventava faticosa troppo; un continuo sforzo; un esaurimento lungo e mortale.
Ed era tanto debole!; pativa la fame. E più che per la fame, pativa perchè in quel lento mancare di sè a sè stesso pareva venirgli meno il mondo, che già viveva con lui e di lui. A poco a poco gli si estingueva l’energia animatrice, povero Mattucco!
Un giorno giacque sotto un olmo in un campo deserto. Guardava con gli occhi languidi davanti e d’intorno, e non ci si trovava più. Tutte le cose ora vivevano per sè sole, in un egoismo mostruoso, in una indifferenza spaventevole, con una incuranza spietata.
Il grano alto e giallo aspettava l’ora di compiere il suo destino e si godeva il suo ultimo sole; il trifoglio si beava di essere tutto in fiore; le viti, distese fra gli alberi, bevevano i raggi ardenti e si mostravano intente solo a produrre; gli olmi o avevano molli dedizioni delle fronde più alte alle carezze dell’aria, o restavano immobili, alcuni in una letizia pacifica e sonnolenta, alcuni in una gravità solenne, come se muovendosi temessero — egoisti anch’essi — di nuocere a ciò che loro solo premeva: il nido che nascondevano nel folto. Nel cielo, a volo rotto i cardellini passavano rapidi e giulivi non conoscendo che la loro esistenza; non altro vedendo dell’universo che la loro letizia. A due a due, le farfalle apparivano e sparivano in una felicità lieve lieve, bianca e silenziosa; e le formiche, lì, in oscura fila... Che da fare! Potevano curarsi, loro, di un povero uomo? Peggio per lui se era nato uomo!
Peggio: Mattucco non aveva mangiato e non aveva da mangiare. E fin la terra gli pareva incresciosa di sostenerlo, perchè s’assopisse, quietasse nel sonno l’inedia, lo struggimento del totale abbandono, l’affanno dell’intero esilio in cui s’era perduto.
Quand’ecco fra i rami, proprio sopra al suo capo, vivacemente:
— Francesco mio!...
Come ferito al cuore, nella rimanente vitalità, Mattucco s’alzò in piedi. Come il vinto che raccoglie le forze estreme per ributtare l’ultima viltà prepotente, l’ultimo scherno, si chinò ad afferrare un pezzo di zolla; e l’avventò con un grido osceno in alto. E al crepitìo della polvere tra il fogliame, il fringuello volò ad un altro albero. E di là:
— Sì sì sì: Francesco mio...
Allora lo scemo ricadde e si mise a piangere.
Ma Colei che soffriva per il più atroce dolore umano, china nella penombra sul figlio livido e sanguinante, gli apparve; egli la scorse che piangeva tra le sue stesse lagrime. E parlava:
— Si sì sì, Francesco mio... Questo poverino muore, per te. Chiamalo! Fa che torni a prender la zuppa al convento: se no, muore, il poverino!
Ah Madonna santa! ah Madonna buona! Comprendeva lei, aveva compreso lei il torto di San Francesco, il male che aveva fatto!
Diceva soave:
— Vieni, Mattucco. Ritorna. Francesco mio ti dirà: «Sei qui?». Francesco mio! Francesco mio!...; e fra’ Pasquale t’accoglierà, buono, tra le sue braccia, e ti darà un mestolo di zuppa.
V.
Arrivò estenuato al convento.
— Son qui — disse con voce fioca, con un sospiro, affacciandosi alla cella del Signor morto; e guardò.
Ma San Francesco...
Ah! troppo a lungo il misero poeta scemo era rimasto fuori dalle illusioni antiche, troppo evidentemente la realtà si era sottratta alle sue fittizie animazioni!
Guardò; e vide sol quello che tutti vedevano, quel che vedevano i savi: San Francesco, muto, accennava al Signor morto, solo per dire: — Pregate, fratelli. — Null’altro. E la Madonna era anch’essa una statua muta. E il Signore, una statua. Null’altro! Null’altro! E tutte le cose, tutte le creature che egli aveva creduto vivessero come egli viveva, con i suoi pensieri, con il suo sentire, gli si presentarono, di subito, agli occhi e alla memoria, mute, senz’anima. Era finita! Finito l’incanto, si spegneva l’universo. Finito l’incanto, Mattucco diventava savio, e moriva davvero.
Si trascinò alla porta; tirò la corda del campanello; si abbandonò esanime nelle braccia di fra’ Pasquale.