Tigre reale/V
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V.
La Ferlita sarebbe stato sorpreso se alcuno avesse affermato che egli faceva la corte alla contessa. Se quello era fare la corte, era fare una corte molto magra. Avea cominciato dall’amarla, è vero, come un ragazzo, come uno studente, ma sin dalla prima visita ella gli aveva messo del ghiaccio sulla testa, e aveano riso francamente di quel ch’era stato di quella sciocchezza; non l’amava affatto, ne era ben certo, ma stava volentieri vicino a lei. Ella era tutt’altra donna di quella che avea creduto conoscere: una donna a quarti d’ora, tutta nervi e capricci, trasformantesi ad ogni momento — giammai la stessa — senza artificio e senza affettazione, forse anche senza averne coscienza; una donna cui non si sapeva su qual tono rispondere ad una domanda fatta da lei all’istante medesimo. Come amante ella non valeva la marchesa, nè la bionda Targotti, nè Palmira, non valeva gran cosa insomma; ma come amica era impareggiabile, non fosse altro che non ci si annoiava mai un momento in casa sua, neanche a star zitti e musoni, non fosse altro quella birichina curiosità che vi prendeva di sapere come l’avreste trovata — chè il suo umore era sempre cangiante e bizzarro — al momento di metter piede a terra al cancello del suo villino. Anche quale amica metteva sempre senza avvedersene nella loro intimità un po’ dell’ignoto della sconosciuta che si voltava a guardarlo quando l’incontrava in via Calzaioli. L’imprevisto era la sua maggiore attrattiva.
Nata aveva delle ore in cui irrompeva la sua natura selvaggia, specialmente quand’era sola; allora passava delle ore rannicchiata nella sua poltrona dinanzi al fuoco, cogli occhi spalancati ed astratti, senza pensare a nulla, sentendo solo con voluttà carnale le aspre punture della fiamma. Alcune volte stava ad ascoltare La Ferlita senza dire una parola, colle labbra leggermente contratte e la fronte corrugata, vagabondando col pensiero, rispondendo per monosillabi, spesso a sproposito, col capo appoggiato alla spalliera della poltrona, stanca o annoiata. Giorgio credeva che fosse ora di andarsene, e allorchè prendeva commiato ella, gli domandava perchè volesse partire così presto, e lo pregava di rimanere. La scena non mutava però; la conversazione languiva come il fuoco che spegnevasi nel camino, e allorchè si sorprendevano entrambi dopo una mezz’ora di silenzio, ella si alzava e gli dava la buonanotte freddamente.
La Ferlita qualche volta, senza volerlo, diveniva triste anche lui; il suo buon umore, i suoi frizzi, i suoi aneddoti della giornata gli morivano sulle labbra, e il fantasma di quel male terribile che ella non poteva dissimulare a sè stessa assorbiva anche lui. La guardava alla sfuggita, quasi di furto, e cercava d’indovinare tutte le segrete e profonde amarezze di lei, e sembravagli di seguire il suo pensiero che doveva vedere dappertutto la tisi, nell’allegro fuoco del caminetto, in mezzo ai fiori del salotto, fra le cortine di broccato, fra tutte le pompe e i sorrisi della beltà e della giovinezza. Allora la donna del passato gli tornava un istante dinanzi agli occhi, fuggevole e luminosa, colle curiosità irritanti che ella gli avea comunicato e le pungenti attrattive che avea avuto. Ei rimaneva sorpreso, imbarazzato dinanzi a lei; quando non si udiva più la sua parola ironica o ghiacciata l’illusione facevasi ancor più completa; egli non osava più parlare, assorbivasi in una profonda astrazione contemplando tacitamente le trecce bionde di lei allentate sulla nuca, le mani candide incrociate sulle ginocchia e il viso pallido su cui la fiamma alternava dei toni ardenti e dei lividi chiarori. Ella serbava inalterabile il suo viso di marmo e la sua indifferenza profonda e glaciale. Qualche volta, mentre discorrevano, quasi sempre allorchè Giorgio sembrava più spensierato od allegro, ella gli piantava in volto que’ suoi occhioni grigi, dalla pupilla larga e fosforescente, e rimaneva a fissarlo così due o tre secondi senza che un sol muscolo del suo viso si muovesse; quegli occhi riboccanti di vita su quel viso impassibile facevano un effetto singolare, e Giorgio non poteva sostenerne la tenacità penetrante, come se avessero a rimproverargli qualche cosa. Ella lo ascoltava per lo più in silenzio, sembrava attenta; quand’egli stornava gli occhi le labbra di lei si agitavano impercettibilmente, come se avessero mormorato qualche cosa. Ei le trovava sempre la stessa fisonomia fredda e marmorea.
— A che pensa? le domandò un giorno.
Ella lo guardò con tale aria di sorpresa che Giorgio si pentì della domanda fatta.
— A nulla... a cercar di sapere se mi sono divertita ieri al ballo in casa de Rancy, e se la musica del Don Carlos mi sia piaciuta.
Allorchè gli dava una di quelle risposte sembrava a Giorgio che gli buttasse in faccia come un’ondata dell’ignoto della sua vita, piena di acri profumi e di inesplicabili attrattive, che lo stordiva. Egli allora ammutoliva, e sembravagli di immergersi di botto, con un vago sentimento di voluttà aspra e dolorosa, nel passato di quella donna così impenetrabile. Sentiva una simpatia amara e un’avida curiosità per colei che gli era così straniera e tanto lontana in tanta intimità, e per uno strano fenomeno, quei sentimenti ch’ella gli nascondeva più gelosamente e che erano più alieni da lui, erano appunto quelli che l’attraevano dippiù. In certi momenti, senza menomamente dubitare che fosse perchè l’amava, avrebbe voluto ch’ella gli avesse raccontato tutto il suo passato, che si fossero confidati l’una all’altro tenendosi abbracciati, avessero dovuto poi piangerne in seguito.
— Vorrei essere suo fratello!» le disse una volta che avea il cuore più pieno.
Nata si voltò bruscamente, come se l’avesse punta.
— Perchè? domandò — Per non lasciarla mai sola con sè stessa, come adesso.
— Ma io sono in buona compagnia invece.
— Mi perdoni se ho troppo osato! diss’egli seccamente.
— Al contrario. Perchè non sarebbe mio fratello? Giacchè non siamo ancora amici, giacchè non possiamo essere camerati, giacchè non saremo mai altro, siamo pure fratello e sorella.
— Vorrei avere il diritto di leggerle nel pensiero. Vorrei avere il diritto di stringerle la mano in certi momenti...
— Proteggermi, assistermi, alleviare le mie pene, e tutelarmi, da vero fratello maggiore. Mi chiami Bebè, caro La Ferlita e mi regali dei confetti.
— Ho torto, lo confesso! disse Giorgio bruscamente ritirando la mano.
— Davvero? le sembro così malata? e crede che pensi alla morte come Maria Maddalena? Se ciò fosse, vorrei godermi la vita e aver degli amanti... Allora naturalmente lei sarebbe il primo... Alcune altre volte invece ell’era di un’allegria matta e rumorosa, e allora non c’era follia che non osasse fare. Una sera rimandò la sua carrozza e si fece accompagnare a piedi sino alla sua abitazione. Faceva un freddo da lupi, ed ella tremava tutta, imbacuccata com’era. Giorgio era di cattivissimo umore, e avea tentato tutti i mezzi per dissuaderla; ella, pur sbattendo i denti dal freddo, rideva di lui e gli diceva che si divertiva mezzo mondo. La notte era serena e stellata, e fuori porta San Gallo non c’era più anima viva; Nata doveva stringersi un po’ nelle vesti e contro di lui. Quel silenzio profondo, quell’aria frizzante, quell’oscurità punteggiata dalla doppia fila dei fanali schierati sul viale deserto, quella solitudine, l’allettavano, sembravano eccitarla.
— Che peccato non ci sia neppur un briciolo di colpa in quel che stiamo facendo!» gli disse con voce vibrante, e i suoi occhi luccicavano nell'ombra, ebbe due o tre colpetti di riso nervoso. Coloro che ci incontreranno ci prenderanno per due amanti, non è vero, Giorgio?... Orsù, non mi tenete il broncio; diamoci del voi a quest’ora, lasciatemi fare; voi stesso avete detto che ho poco da vivere.
Anche motteggiando aveva sempre di queste lugubri allusioni.
Spesso invitava La Ferlita a colazione, da sola a solo, si faceva servire nel suo salotto, sul tavolino posto dinanzi alla finestra del giardino, cercando dare un sapore di cena sospetta a quella colazione fatta alla gran luce del sole, rosicchiando, mangiucchiando di tutto, bevendo a piccoli sorsi il bordò prescritto dal medico nel bicchiere da sciampagna. Poi, colla tazza colma davanti, appoggiava i gomiti sulla tovaglia alquanto in disordine, e si metteva a chiacchierare, confidente ed espansiva come un buon camerata. Si raccontavano ridendo le loro conquiste, le loro civetterie, e le loro follie di giovinezza; tempo addietro, gli raccontava, si era invaghita di un giovane studente, proprio quel che si dice un gran monello, ma bello, bello da dipingere, con occhi neri grandi così, e un collo fatto come quello dell’Antinoo, un collo che bisognava vedere allorquando snodava la sua cravatta rossa e sbottonava il colletto della camicia per giocare alla palla fuori porta San Gallo; ella montava a cavallo tutti i giorni e andava a caracollare nel viale per vederlo e per farsi vedere, e lui, duro e dispettosaccio, faceva il superbo e fingeva di non accorgersi che quella bella signora veniva lì apposta per fargli la corte. Infine quel restio amor proprio ne fu lusingato; e non solo ei cominciò a guardarla, ma non giocò più alla palla, cercò di vestirsi meglio, ed ella se lo trovava sempre fra i piedi al passeggio e nei teatri. Allora non le piacque più e non lo guardò più. Peccato! non era più quello senza la sua giacchetta di velluto!
La contessa e Giorgio, in quei momenti erano a mille miglia dal pensiero che si fossero amati, che potessero amarsi; egli trovavasi quasi sempre più imbarazzato di lei, chè sentiva di essere ridicolo se non riusciva a mettersi all’unisono, e quelle volte ella lo impacciava, gli faceva un effetto singolare, gli rendeva difficile la sua parte; ella no, ella quando voleva avea sempre l’epigramma incisivo e pronto, qualche volta amaro. Gli diceva: — Ah! se fossi un uomo! Se fossi un uomo come credete che sarei? Povero Giorgio, non sarei certo come voi, veh! — La tosse spesso le soffocava il riso.
E tutto ad un tratto, dopo essere stata così carezzevole, diventava dispettosa ed inquieta, guardava lui di soppiatto e quasi con una espressione di rancore; avea delle irritazioni sorde e contenute, delle selvaggie aspirazioni verso non so che, e quando aggrottava le ciglia il suo occhio diventava cattivo.
Una sera, in una festa da ballo, colle guance leggermente incarnate e gli occhi sfavillanti, respirando una qualche ebbrezza violenta, gli premette la mano di nascosto in mezzo al turbine del cotillon, aveva la mano secca e calda.
— Non avete visto come Brenti mi fa la corte?» gli disse.
— Povero Brenti! Non vorrei che diceste la medesima cosa di me, con quel risolino che avete in bocca.
Ella si strinse nelle spalle, nelle sue belle spalle bianche e delicate, che sembravano sbocciare fuori dal busto con quel movimento.
— Preferisco il modo in cui me la fa quell’altro, guardate, quel giovanettino che sta lì, presso quell’uscio; vedete con che occhi! e così tutta la sera! Avrà quindici anni tutt’al più... bell’età! vorrei essere dentro il suo petto e sentire come gli batte il cuore quando rivolgo gli occhi su di lui! Davvero, mi piace, colla sua aria timida e i suoi sguardi di fuoco.
— Egli si è accorto che parliamo di lui.
— Come sarà commosso, povero bambino!... Vi assicuro che ho provato più di una volta la tentazione di passargli accanto, senza guardarlo, e di stringergli la mano tra la folla.
— Perchè non rapirlo addirittura nella vostra carrozza?
— Perchè no? replicò ella con un sorriso nervoso. Ci son dei momenti in cui mi sento montare alla testa il sangue tartaro che ho nelle vene.
— Ma sentite! alla fin fine tutto ciò non sarebbe mica gentile per me... se fossi innamorato di voi.
— No, rispose ella in aria distratta; è vero, ma siccome non lo siete, e non lo siamo, e non lo saremo, e siamo invece buoni camerati... Dite un po’, se tutti costoro conoscessero le follie che facciamo insieme, voi così serio, così elegante... Come siete elegante stasera! raffermate meglio la vostra camelia... Non è vero che ho un po’ della monella, io?
Verso quell’epoca ella avea avuto un capriccio per il saltimbanco di una compagnia equestre, e avrebbe voluto andare al Politeama tutti i giorni. La Ferlita se n’era accorto trovandosi per caso nel suo palchetto, vedendola fissare lungamente il binoculo sulla scena; da buon camerata le fece delle osservazioni alquanto pungenti; ella gli tenne il broncio. — Vedete come siete ingiusti voi altri! se una ballerina vi piace padronissimi d’andare a vederla e di sbracciarvi in applausi! o che credete un bell’uomo non possa piacere al pari di una bella donna? e che i ballerini e i saltatori di corda siano fatti per essere ammirati da voi altri signori? Non andate in un museo a vedere l’Apollo ed il Bacco? e quel lì, guardatelo, non è una bella statua di uomo? Io non lo vorrei nella mia anticamera, ma sulla scena mi piace.
A La Ferlita saltò la mosca sul serio stavolta, ma Nata non se ne diede per intesa; era delle prime ad applaudire, ella che non soleva applaudire giammai, e non lasciava mai col cannocchiale. Infine quel povero diavolo s’accorse dell’effetto che facevano su quella gran dama le sue pagliuzze d’oro e la sua zazzera lustra e inanellata, e perdette la testa; non aveva più la solita disinvoltura e la solita smorfia sorridente ed eguale per tutti, salutava sempre una sola parte del pubblico plaudente; quello di sinistra, spesso s’imbrogliava negli ordegni e nei cordami. Una volta nel saltare sui due piedi con una graziosa riverenza capitombolò goffamente; tutti gli spettatori non ebbero che un movimento di simpatia e di commiserazione, solo la contessa scoppiò a ridere talmente che dovette nascondere il viso nel fazzoletto. Il poveretto non osò più comparire sulla scena.
— Ecco cos’è la gloria!» esclamò gaiamente, e scorgendo che anche Giorgio rideva. — Vedete come vanno a finire i miei entusiasmi?
Poi l’indomani Giorgio la incontrava in un ballo, o la vedeva nel suo palchetto alla Pergola, scollacciata, coperta di pizzi, carica di brillanti, elegante, freddamente altera, coll’ironia sulle labbra, il ventaglio in mano come uno scettro, rispondendo appena con un cenno del capo agli inchini profondi, al più degnandosi di puntare il binoculo dal suo palchetto come un saluto; l’amico, il camerata del giorno innanzi confondevasi fra la folla che le faceva ressa attorno, ella lo distingueva appena con un mezzo sorriso, non gli apparteneva più, rientrava nella sua sfera a testa alta. Una volta, in mezzo ad un ballo, fu colta dalla tosse, e quando riapparve nella sala era pallida come cera, ma si rimise a ballare come prima. Giorgio l’accompagnò sino alla carrozza; mentre scendeva le scale, tutta imbacuccata nel suo mantello ovattato, col cappuccio sulla fronte, avvolto il capo nel velo a tre riprese, pallida ancora e silenziosa stavolta, gli disse con impercettibile aggrottamento di ciglia:
— Perchè mi guardate così? si direbbe che avete paura di accompagnare una moribonda.
Egli ebbe per tutta la notte quello sguardo e quelle parole nella mente. Fu malata per tre o quattro giorni, non ricevette nessuno, e poi riapparve nuovamente in mezzo alla folla dei teatri e delle feste un po’ più pallida, un po’ più dimagrata, ma assetata di vita e di piaceri più di prima. Avvicinandosi la primavera, cominciava a parlare di bagni e di viaggi, e faceva dei progetti coi suoi amici che contava d’incontrare alle acque o in Isvizzera.