Atto V

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Atto IV Nota storica

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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Damone e Servi, i quali preparano i sedili ed altre cose
occorrenti per la manomissione di
Terenzio.

Damone. Faticate, servacci, schiavacci, animalacci,

Arabi, persi e greci, bruttissimi mostacci.
Or che Terenzio passa ad altra condizione,
Io sol di questa casa sarò vicepadrone.
(i servi, fatte le loro incombenze, partono)
Ma qui starò per poco. Terenzio m’ha promesso...
Oh, la sarebbe bella ch’i’avessi a cambiar sesso!
Difficil non mi pare. La barba già non ho.
La voce è femminina; le furberie le so.
Per donna farmi credere potria passabilmente
In parte la natura, in parte l’accidente. (parte)

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SCENA II.

Creusa, poi Livia.

Creusa. Parla di sposo meco Lucan, quando mi vede.

S’inganna, se capace d’amor per lui mi crede,
E più se si lusinga, offrendomi l’onore
Di nozze sì sublimi, di vincere il mio cuore.
La libertade accetto dalla pietà del cielo,
So che contribuito v’ha di Terenzio il zelo;
Se suo fu questo cuore finor per mio piacere,
Ora sarà di lui per legge e per dovere.
Livia sen vien; se meco segue ad essere altera,
Vo’ contro al mio costume risponderle severa.
Livia. Fama, Creusa, è vera di te poc’anzi intesa?
Creusa. (Diasi al fasto egual pena). (da sè) Sì, libera son resa.
Livia. Franca rispondi, ardita.
Creusa.  Stile appresi romano.
Livia. Sposa sarai tu presto?
Creusa.   Sta l’esserlo in mia mano.
Livia. Di qual felice eroe dono sarà il tuo cuore?
Creusa. Forse di tal, per cui Livia ha rispetto e amore.
Livia. Di Terenzio?
Creusa.   Di lui dunque tu vivi amante?
Livia. Menti.
Creusa.   Mentir si dice chi maschera il sembiante.
Livia. Greca svelar mal puote delle Romane il fuoco.
Creusa. Di te la debolezza conoscesi per poco.
Livia. Tal favelli a Romana?
Creusa.   De’ fregi tuoi preclari
Sol duemila sesterzi mi rendono del pari.
Livia. Esser non puoi vantarti nata a’ sublimi onori.
Creusa. Chi sa che gli avi tuoi non fossero pastori?
Livia. Anche l’aratro in Roma ne’1 cittadini è degno.

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Creusa. Superbia in ogni stato è di viltade un segno.

Livia. Perchè in Grecia non torni?
Creusa.   Quivi restar consento.
Livia. Per far la tua fortuna?
Creusa.   Per fare il tuo tormento.
Livia. Libera ancor non sei, moglie non sei tu ancora.
Conoscerti, pentirsi di ciò può chi t’adora.
Ed io che agi’infelici avversa esser non soglio,
Giuro vendetta, e giuro frenar quel folle orgoglio.

SCENA III.

Damone e le suddette.

Damone. Che fai tu qui, Creusa? Va alle tue stanze: ansioso

Attendeti Lucano, con femmine pietoso.
La libertà ti dona per via del cieco nume;
Cambiar ti vuole il nome, giusta il roman costume.
Il suo diede a Terenzio da lungo tempo, il sai.
Tu in avvenir, Creusa, Livia ti chiamerai.
Livia. A greca il nome mio?
Creusa.   No, lo protesto ai numi:
Sdegno di Livia il nome, compiango i suoi costumi.
Il mio destin è incerto ancor più che non credi;
Nemica mi paventi, e serva ancor mi vedi.
Superbia nel mio seno sai che nutrir non soglio;
Mi fa pietà, non ira, il tuo soverchio orgoglio, (parte)

SCENA IV.

Livia e Damone.

Livia. (Perfida! Ma in tal guisa sensi pronunzia oscuri,

Che ancora i suoi diletti non sembrano sicuri), (da sè)
Damone. Livia, con lei fa d’uopo cambiar l’usato stile;
Parlare io ti consiglio più docile ed umile.

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Chi sa che ritornata nel libero suo stato...

Chi sa che non la sposi Lucano innamorato?
E s’ella si rammenta quel che facesti a lei,
Ti tratterà in vendetta da vipera qual sei.
Di far un po’ all’amore avendole impedito,
Languir ti farà in corpo la voglia di marito;
E collo sposo accanto, da’ figli circondata,
Rabbia faratti e invidia, morirai disperata.
Per te son sì pietoso, che prenderei l’incarco,
Ma son guerrier senz’armi, son cacciator senz’arco.
Livia. No, non sarà giammai che un senator romano
Veggasi ad una schiava a porgere la mano.
E se Lucan per lei fosse di ragion privo,
Chiamarlo sdegnerei per mio padre adottivo.
T’inganni, se tu credi che arda nel seno mio
D’un sesso lusinghiero il debole desio. (a Damone)
(L’unico mal ch’io temo, è ch’a Terenzio è unita,
Trionfi a mio dispetto questa superba ardita.
Raro, chi il mal figura, trova il pensier fallace;
Ma vendicarmi io spero d’una rivale audace).
(da sè, e parte)

SCENA V.

Damone, poi Fabio.

Damone. Rider mi fan le figlie che han voglia d’esser spose,

E colla bocca stretta von far le vergognose;
Rider mi fan volendo noi uomini sprezzare,
E per un poco d’uomo si sentono crepare.
Fabio. Lucan se tutto è pronto a riveder mi manda, (a Damone)
Damone. Aiutami tu ancora a servir chi comanda.
Fabio. Mio uffizio non è questo. Un cittadin cliente
Non serve.
Damone.   Sì, gli è vero: scrocca, e non fa niente.

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Fabio. Invidioso schiavo morde il freno e punzecchia.

Damone. Ti vo’ corbellar bene, se arrivo a far da vecchia.
Fabio. Che dici?
Damone.   M’intend’io.
Fabio.   Non favellar fra’ denti.
Damone. Non ho timor, sebbene mi mancano i clienti.
Fabio. Parla con più rispetto; non irritar procura
Un che albergar vedrai fra poco in queste mura.
Damone. Tu di Lucano in casa?
Fabio.   Sì, di Lucan che mi ama,
Che sposo oggi mi vuole, che amico suo mi chiama.
Damone. Sposo di Livia?
Fabio.   O d’essa, o d’altra, a te non preme.
Damone. Ti sposerà a Creusa; la sposerete insieme.
Fabio. Frena l’audace labbro, o proverai la sferza.
Damone. No, Fabio, si perdona, quando dall’uom si scherza.
Fabio. Lisca dov’è?
Damone.   In cucina.
Fabio.   Che fa?
Damone.   Pentole odora;
Ch’abbiano il loro gusto vuol le narici ancora.
Fabio. Corteo2 faccia a Lucano, prendasi anch’ei tal pena.
Damone. Basterà ch’egli venga a corteggiarlo a cena.
Fabio. Chi d’altrui pan si pasce, se ciò trascura, è stolto.
Stan Lucano e Terenzio in mezzo al popol folto.
Qui attendesi il pretore per Terenzio invitato.
Damone. Cotai manomissioni non fansi3 in magistrato?
Fabio. Che sai tu di tai riti? Si dà la libertade
In tempio, al campo, in case, e in pubbliche contrade.
Ergere può per tutto con pompa e con splendore
Suo tribunale in Roma il console e ’l pretore.
Damone. Quand’è così, non parlo; venero il lor decreto,
Ancor quando il facessero in un luogo segreto.

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Fabio. Timpani sento e tube; odo tibia giuliva;

Sappia da me Lucano che ’l magistrato arriva. (parte)
Damone. Le sportule son quelle che fan brillar lo zelo;
Se grasso è l’animale, ciascun vuol del suo pelo, (parte)

SCENA VI.

Precedono i Suonatori con timpani, colle tube o sien corni, e colle tibie, specie d'oboè antichi; indi seguono i Littori del pretore, uno Scriba, indi il Pretore medesimo, con seguito di Romani.

Escono dalla scena opposta, incontrandosi coi suddetti, Lucano e Terenzio, seguitati da Lelio, Fabio e Damone, Servi, Clienti e Popolo.

Schierati tutti all’intorno, restano nel mezzo, il Pretore a diritta, Lucano a sinistra, Terenzio in mezzo di loro. Da una parte lo Scriba, e dall’altra il Capo de’ littori.

Pretore. Delle fasciate verghe, littor, sciolgansi i nodi.

Littore. (Scioglie il fascio delle Verghe e ne presenta una al Pretore.)
Pretore. Chiedi tu, e le parole serba usitate e i modi. (a Lucano)
Lucano. Libero questo i’ chiedo, che servo ora m’additi, (al Pretore)
Pretore. (Pone la verga sul capo di Terenzio.)
Libero lui dichiaro col poter de’ Quiriti.
Frangasi la vendetta. (rendendo la verga al littore)
Littore. (Percuote colla verga tre Volte il capo a Terenzio, indi la spezza.)
Pretore. Faccia percuoti e tergo. (al littore)
Littore. (Batte col pugno leggiermente la faccia e la schiena a Terenzio.)
Damone. (Presenta una tazza con entro del vino a Lucano.)
Lucano. Le tue con sacra tazza labbra onorate aspergo.
(beve dalla tazza, indi la porge a Terenzio)
Terenzio. (Beve, indi rimette la lazza a Damone.)
Pretore. Abbia il tuo nome. (a Lucano, accennando Terenzio)
Lucano.   Ei l’ebbe.
Pretore.   Tre ne porta un romano.
(a Lucano)

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Lucano. Son due Publio Terenzio: terzo sia l’Africano.

Pretore. Scriba, lui fra’ liberti ne’ dittici fia scritto, (allo scriba).
(Lo scriba registra il nome di Terenzio collo stile in una tavoletta.)
Pretore. L’ultimo rito adempi dalle leggi prescritto. (al littore)
Littore. (Copre il capo a Terenzio; indi, prendendolo per la mano, lo conduce in giro, facendolo vedere a ciascheduno degli astanti. Per ultimo vien condotto a Lucano; vuole scoprirsi il capo in atto di riverenza, Lucano lo trattiene.
Lucano. Serba a’ tuoi crini il fregio di libertate in segno,
Di tua virtute il premio, di mia pietade un pegno.
Terenzio. (Tornando al suo posto di prima.)
Almo pretor di Roma. (al Pretore)
  Padre eccelso, conscritto,
(a Lucano)
Gente illustre togata, popol romuleo invitto,
Dono è sublime, illustre, della pietà di Roma,
Poter de’ padri in faccia coprir libera chioma.
Volgo le luci in giro, e veggo a mio rossore
Fra Roma e fra Lucano gara per me d’amore:
Oh, fosse a me concessa facondia che a’ dì nostri
Odesi al roman foro dagli orator sui rostri,
Da cui, contro i nemici nell’animar le squadre,
Demostene fu vinto, dell’eloquenza il padre.
Ma se a comico vate sono i topici ignoti,
Da me, dell’arte invece, Roma gradisca i voti.
Serbino i numi eterno al popolo latino
Il don riconosciuto da Bruto e Collatino,
Dono di libertade, per più di trecent’anni
Al popolo concesso, scacciati i re tiranni.
Delle nazion nemiche, de’ barbari l’orgoglio
Veggasi ha catene deposto al Campidoglio;
E ’l teschio rinvenuto di quello alle pendici,
Di sangue sia presagio, ma sangue de’ nemici.
Deh, patria mia, perdona. Chi veste lazia tunica,
A te non può felice pregar la guerra punica;

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Facciano di Cartago, faccian del Tebro i numi,

(Che alfin sono gli stessi culti in vari costumi)
Che dell’aquile invitte Africa non sia preda,
Ma inchinisi al destino, Roma rispetti, e ceda.
Capo dell’orbe intero, che pesi, gradi e onori
Parti, disponi, alterni fra consoli e pretori,
Tribuni, magistrati, padri, edili, censori,
Decurioni, maestri, comizi e dittatori;
Tuoi cittadin concordi, diretti ad un sol polo,
Negli animi diversi serbino un pensier solo;
Ogni passion privata, vinta nel seno e doma,
Fondino i beni loro nella gloria di Roma.
Godi perpetua pace, regna del Tebro in riva,
Fin là dove il tuo fato scritto nel cielo arriva;
E se dai numi al Lazio fosse prescritto il fine,
La libertà di Roma passi ad altro confine,
Dove con gloria pari, con pari legge alterna,
Abbia l’Italia onore di Repubblica eterna.
Pretore. Eco a’ fausti presagi al ciel salga giuliva.
Lucano. Viva, Romani, il vate.
Lelio.   Viva Terenzio.
Tutti.   Viva.
(Al suono degli stromenti parte il Pretore con tutti quelli che lo seguirono.)

SCENA VII.

Lucano, Terenzio, Lelio, Fabio, Damone,
Clienti e Servi; indi Livia.

Livia. Ai plausi degli amici, ai viva degli eroi,

Permettasi che Livia possa accordare i suoi.
Lucano. Vieni, o tu di Lucano figlia d’amore, a parte
D’onor, di cui tu stessa godrai la miglior parte.
Altro fregio non manca al cittadin novello,
Che far con degne nozze il suo destin più bello.

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Ecco una maggior prova dell’amor di Lucano:

Figlio a me sia Terenzio, dando a Livia la mano.
Terenzio. (Che farò?) (da sè)
Livia.   (Che risponde?) (da sè)
Terenzio.   Signor, bastanti pregi
Non ha Terenzio ancora per meritar tai fregi.
Chi i propri beni al censo vantar non può ne’ lustri,
Ottar sai che non puote fra candidati illustri.
Livia è nata agli onori; d’un misero privato
Sdegna la sorte umile chi è nata al consolato.
Livia. Padre, Terenzio il merta. Forma il censo al liberto:
Tua bontà si coroni, abbia l’onore offerto.
Lucano. Facciasi. I doni vari, schiavo, a te pervenuti,
Liberi a tua virtute fur del cuor mio tributi.
Altri aggiunger non nego, fino che l’uopo il chieda;
Ma l’uso che facesti de’ beni tuoi si veda, (a Terenzio)
Terenzio. Sì, lo vedrai. Concedi brevi momenti; io torno.
Verrò forse, tornando, di maggior gloria adorno.
Celare un’opra ardita dovrebbesi a Lucano,
Ma son l’eroiche prove familiari a un romano. (da sè)

SCENA VIII.

Lucano, Livia, Lelio, Fabio e Damone.

Livia. (Qual mistero nasconde?) (da sè)

Lucano.   (Terenzio, io non intendo), (da sè)
Fabio. (Sai tu che dir si voglia?) (piano a Lelio)
Lelio.   (Sì, lo so, lo comprendo).
(piano a Fabio)
Damone. Signor, signor mio caro, dolce signor clemente,
A tutti generoso, e a Damone niente? (a Lucano)
Lucano. Libertà per legato alla mia morte spera.
Damone. Deh, mi facciano i numi la grazia innanzi sera.

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SCENA IX.

Terenzio, Creusa ed i suddetti.

Terenzio. Ecco, signor, miei beni, de’ miei sudori il frutto.

Quanto a me tu donasti, ecco in Creusa è tutto.
Lucano. Come?
Terenzio.   Il vecchio infelice che a te, giusta il contratto,
Venuto è di Creusa a chiedere il riscatto,
Perduto ogni suo bene del mar tra’ flutti rei,
Il prezzo convenuto ebbe dagli ori miei:
Ai duemila sesterzi quel che avanzar mi puote,
In dono alla donzella died’io per la sua dote.
Pietà dell’infelice sentii destarmi in cuore;
Alla pietate aggiungi, non so negarlo, amore.
Ma nel seguir le leggi del cieco Dio bendato,
Animo in me non ebbi di divenirti ingrato.
So che Creusa adori; a te si chiede invano.
Dispon,4 s’ella il consente, di lei, della sua mano.
Sciolta per me Creusa della servile insegna,
Merto maggiore acquista, sarà di te più degna.
Costar mi può la vita sì rio distaccamento,
Di te, di Roma i doni mi recano tormento;
Che se la libertade dal fianco suo mi toglie,
La servitù più cara godrei fra le tue soglie.
Figura in me una colpa. Torni il liberto ingrato
A norma delle leggi nel pristino suo stato;
Ma pensa che la colpa, che tu mi trovi in cuore,
Sarà di troppa fede, sarà di troppo amore.
Livia. Odi, signor, l’indegno, odi lo schiavo audace.
Miralo se in te merta cuor di pietà ferace.
Torni alla sua catena chi de’ tuoi doni abusa,
A’ tuoi voler risponda lieta o mesta Creusa.
Le nozze stabilite per tuo volere espresso

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Tra Fabio e tra colei s’hanno a compire adesso.

Fabio, sei pronto?
Fabio.   Il sono.
Terenzio.   (Qual novello accidente?) (da sè)
Damone. (Avrà sportula doppia colla sposa il cliente). (da sè)
Lucano. Livia, tu da me apprendi, apprenda il Lazio istesso
Da Lucan la virtude di superar se stesso.
Ama Terenzio, ed offre l’amore in sacrifizio;
Non sia men generoso d’un liberto un patrizio;
E Fabio, a cui interesse parla in cuor, non amore,
Apprenda al Tebro nostro a far men disonore.
Staccar da me Creusa è un trarmi il cuor dal petto,
Ma peggio è averla meco con rossor, con dispetto.
Mille gli esempi al mondo della romana istoria
Pongonsi ad altrui norma, narransi a nostra gloria.
Sparse per questa Orazio della germana il sangue,
Voragine profonda Curzio ha per questa, esangue
Di Colatin la sposa5 s’aprio col ferro il seno;
Quando di duol morissi, di lor non farei meno.
Libero per mio dono Terenzio abbia in isposa
Costei libera fatta da un’alma generosa.
Dote a lei fe’ lo sposo col don de’ beni sui;
Con parte de miei beni censo farassi a lui.
Vivete ambo felici, in dolce nodo uniti,
Abbia virtute il premio, a gloria de’ Quiriti.
Africa e Grecia vostre apprendano che in noi
Germoglia in ogni petto il seme degli eroi;
Che a noi render non cale solo i nemici oppressi,
Ma vincere sappiamo anche il cuor di noi stessi.
Creusa. Fortunato amor mio!
Terenzio.   Bella di cuor pietade!
Livia. Itene, fortunati, in barbare contrade.

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Ditelo per ischerno ai popoli nemici:

La gloria de’ Romani è l’essere infelici.
Vanta Atene gli atleti nell’olimpico agone;
Qui vantasi l’orgoglio di vincer la passione.
Il pugno, il cesto, il disco altrui servon di giuoco;
Qui l’anime diletta ferro, veleno e foco.
Ma se di gloria carche van l’anime latine,
E vergini e matrone son femmine eroine,
Noi pur della virtute sappiamo usar i modi,
Odiar d’Africa l’arte, odiar le greche frodi;
Sappiam nostre sventure mirar con ciglio lieto.
(Andiam, cuore infelice, a fremere in segreto).
(da se, indi parte)

SCENA X.

Lucano, Terenzio, Creusa, Lelio, Fabio e Damone.

Terenzio. (Cela negli aspri detti sdegno, vendetta, orgoglio), (da sè)

Damone. (Anche la volpe dice, quando non può, non voglio), (da sè)
Creusa. Alto signor, che al mondo sei di pietate esempio, (a Lucano)
Degno che a te fra i numi ergasi in Roma un tempio,
(Parlo con cuor sincero, che i titoli son vani
Dati al popolo greco dai rapitor Troiani):
Grata al tuo don, se al piede laccio vil non m’aggrava,
Di te l’alma onorata sempre fia serva e schiava.
Di me, de’ figli miei, di lui ch’ave il mio cuore,
Sarai, più che non fosti, l’amabile signore.
E a tua virtù più dolce recar potran diletto
Anime a te soggette per obbligo ed affetto.
So con chi parlo. In seno vil desio non contrasta...
Lucano. Non cimentar, Creusa...
Creusa.   Non avvilirti...
Lucano.   Basta.
Terenzio. Basta, gentil Creusa, grazie per me si renda,
Da me d’entrambi ai doni gratitudine attenda.
Andiam l’avolo afflitto a sollevar di pene.

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Lucano. Dove condur pretendi la tua sposa?

Terenzio.   In Atene.
Lucano. Darla a Criton promisi.
Terenzio.   Bene, il vecchio canuto...
Lucano. Venga egli stesso in Roma.
Terenzio.   Signore... egli è venuto.
Lucano. Come? dov’è?
Terenzio.   Ti è in grado ch’egli a te venga?
Lucano.   Sì.
Terenzio. Vieni, Critone, a noi. (verso la scena)
Lucano.   Come sì tosto?
Terenzio.   È qui.

SCENA ULTIMA.

Critone ed i suddetti.

Lucano. M’ingannasti, Terenzio?

Terenzio.   Non t’ingannai, se meco
Venne a chieder la schiava col tuo contratto un Greco.
Più del mercante estinto avea ragion sul patto
L’avolo, che il contante offriati del riscatto;
Ma l’amor tuo sapendo... deh mi perdona... in parte
Mi suggerì il ripiego al cuor la comic’arte:
Quell’arte onde più volte lodasti in me l’ingegno,
Di sostenere in scena qualche simile impegno.
Signore, alla catena torno, se reo in ciò sono...
Lucano. No, la colpa felice approvo, e ti perdono.
Damone. Signor, pronta è la cena. (a Lucano)
Lucano.   Ite contenti e lieti.
Damone. (Si passano gran cose ai comici poeti!) (da sè)
Lucano. Roma lasciar destini? (a Terenzio)
Terenzio.   Andrò, se tu ’l consenti,
A raccor di Menandro i sparsi monumenti;
Cento commedie ha scritto l’autor greco divino,
Degne d’esser tradotte al popolo latino.

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Salvo s’io torno in Roma, qua i dolci carmi io reco;

Quando perir dovessi, in mar periran meco.
Lucano. Tolgano i Dei gli auguri. Vanne, ritoma, e vivi.
Suda per la tua fama, medita il mondo, e scrivi.
Mira, la tua virtute qual ti ha acquistato onore,
Spera che il tempo e l’uso rendalo a te maggiore.
Terenzio. Fine han qui le vicende di Comico Poeta;
Peripezia sospesa, catastrofe più lieta.
Terenzio a’ suoi Romani dir soleva: Applaudite.
A’ nostri ascoltatori diciam noi: Compatite.

Fine della Commedia.

Note

  1. Zatta: de’.
  2. Zatta: corte.
  3. Zatta: si fanno ecc.
  4. Zatta: a le si chiede invano — Dispor ecc.
  5. Pare che così si deva leggere. Nell’ed. Pitteri è stampato: ha per questa esangue. - Di Colatin la sposa ecc. Nelle edd. posteriori, invece del punto fermo dopo esangue, c’è la virgola.