Taras Bul'ba/III
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III
C’erano molti di quegli ufficiali che poi si segnalarono negli eserciti regi; c’era una quantità di persone che riuscirono esperti uomini di partito, uomini che per nobile convinzione pensavano essere del tutto indifferente da che parte si facesse la guerra, purché si combattesse, in quanto che non conviene a un uomo ben nato vivere senza battersi. C’erano anche molti di quelli che erano andati alla Sjec soltanto per poter poi dire che essi erano stati alla Sjec, ed erano induriti nella vita delle armi. Ma che cosa mai non c’era? Quella strana repubblica era evidentemente un’esigenza di quell’età. Gli aspiranti alla vita guerresca, i cacciatori di coppe d’oro, di ricchi broccati, di ducati e di reali, in ogni tempo, potevano lí trovare da lavorare. Soltanto gli adoratori delle donne lí non trovavano niente, perché perfino nel sobborgo della Sjec nessuna donna ardiva farsi vedere.
Ostap e Andrea trovavano specialmente strano il fatto che dopo il loro arrivo giungeva alla Sjec un’infinità di gente, e qualcuno almeno avrebbe dovuto chiedere: «Di dove viene questa gente? chi sono? come si chiamano? Giungevano lí come se tornassero alla loro propria casa, da cui si fossero allontanati appena un’ora prima. Il nuovo venuto non faceva altro: che presentarsi al Koscevoj1, il quale secondo la consuetudine diceva:
— Salute! di’, credi in Cristo?
— Credo! — rispondeva il nuovo arrivato.
— E nella Santa Trinità credi?
— Credo!
— E vai in chiesa?
— Ci vado!
— Bene, fatti il segno della croce!
Il nuovo arrivato si segnava.
— Va bene! — rispondeva il Koscevoj — va’ pure nella kurjenja che già tu conosci.
Con ciò finiva tutta la cerimonia. E tutta la Sjec pregava in una sola chiesa, ed era pronta a difenderla fino all’ultima stilla di sangue, sebbene non volesse neppur sentir parlare di digiuni e di astinenze. Solo Ebrei, Armeni e Tartari, indotti dall’avidità del guadagno, osavano vivere e trafficare nel sobborgo, giacché i Saporogini non amavano mai di contrattare, e quanti danari la mano tirava fuori dalla tasca, tanti ne davano per pagare. Del resto, la sorte di questi avari mercanti era molto triste: essi somigliavano a coloro che si sono stanziati alle falde del Vesuvio; perché bastava che i Saporogini non avessero piú denaro, perché gli arditi sfasciassero loro le botteghe e prendessero sempre a ufo. La Sjec era composta di oltre sessanta kurjenje, che somigliavano molto a tante distinte repubbliche indipendenti, e anche piú a una scuola e ad un collegio di ragazzi tenuti a pensione intera. Nessuno aveva provviste del suo, nessuno teneva niente presso di sé: tutto era nelle mani dell’ataman 2 della kurjenja, il quale perciò comunemente era chiamato babbo. Egli aveva nelle sue mani i danari, gli abiti, tutte le vettovaglie, la farina d’orzo, la polenta e perfino il combustibile; e a lui davano in consegna i loro danari. Non di rado sorgeva una contesa tra certe kurjenje e le altre; in tal caso, immediatamente si veniva alle mani. I contendenti invadevano la piazza, e a furia di pugni si fracassavano l’un l’altro le costole, fino a che da ultimo gli uni prevalevano e prendevano il sopravvento, e allora cominciava la baldoria. Cosí era fatta quella Sjec che aveva per la gioventú tante attrattive.
Ostap e Andrea si lasciarono andare con tutto l’ardore della gioventú in quel mare di sfrenata libertà, e in un attimo dimenticarono e la casa paterna e il collegio e tutto ciò che prima agitava l’anima loro, e si abbandonarono alla nuova vita. Ogni cosa attirava la loro attenzione; le libere usanze della Sjec e il suo diritto non molto complicato e le sue leggi, che parevano loro talvolta anche troppo severe in mezzo a siffatte repubbliche fondate sull’assoluta libertà. Se un cosacco si rendeva colpevole di furto, se rubava una bagattella qualsiasi, questo fatto si considerava già come un’offesa a tutta la società cosacca; egli, come uomo disonorato, veniva legato alla colonna infame, e gli si metteva accanto un randello, con cui ogni passante aveva l’obbligo di dargli un colpo, finché in tal modo lo finivano a colpi di bastone. Chi non pagava un debito veniva legato con una catena a un cannone, e lí doveva restare fino a quando qualcuno dei camerati non si risolveva a riscattarlo pagando il debito per lui. Ma piú di tutto fece impressione ad Andrea la terribile pena fissata per punire l’omicidio. Lí, sotto i suoi occhi, fu scavata una fossa, in cui fu sepolto vivo il corpo dell’uccisore e sopra di esso fu deposta la bara contenente il cadavere dell’ucciso, e poi li coprirono di terra tutti e due. Per lungo tempo in seguito gli apparve in sogno l’orrenda cerimonia di quel supplizio, e sempre gli si presentava alla mente l’immagine di quell’uomo sepolto vivo insieme con quell’orrenda bara.
Ben presto i due giovani cosacchi si acquistarono la stima di tutta la comunità cosacca. Spesso, insieme con altri compagni della loro kurjenja, e talora con tutta la kurjenja e con le kurjenje vicine, andavano nella steppa per tirare all’innumerevole quantità di tutti i possibili uccelli della steppa, ai cervi e alle capre, o anche si recavano ai laghi, ai fiumi e ai canali, assegnati a sorte a ciascuna kurjenja, per calarvi le reti e prendere una buona provvista di pesci per il rifornimento di tutta la loro kurjenja. Quantunque non fossero quelle le scienze in cui si mette alla prova il cosacco, pure essi erano già segnalati in mezzo agli altri giovani per il loro sicuro ardimento e per il successo che li accompagnava in ogni impresa. Con agilità e fermezza tiravano al bersaglio, e nuotavano nel Dnjepr contro corrente; impresa, questa, per la quale il novizio era accolto trionfalmente nella società cosacca.
Ma il vecchio Taras preparava per essi un’attività ben diversa. Non andava a sangue, a lui, quella vita inconcludente: un’azione viva e vera gli ci voleva. Egli non faceva che pensare al modo d’impegnare la Sjec in qualche impresa importante, in cui un guerriero potesse sbizzarrirsi a dovere. Finalmente, un giorno si recò dal Koscevoj e gli disse a bruciapelo:
— Eh, Koscevoj, sarebbe tempo per i cosacchi di prendersi un po’ di spasso.
— Niente spasso! — rispose il Koscevoj, togliendosi dalla bocca una sua piccola pipa e sputando da un lato.
— Come niente? Si potrebbe andare contro i Turchi, oppure contro i Tartari.
— Non si può né contro i Turchi né contro i Tartari — e si metteva di nuovo la pipa in bocca con molta flemma.
— Come non si può?
— Cosí. Abbiamo promesso al Sultano la pace.
— Ma se sono dei pagani? E Dio e la Santa Scrittura comandano d’ammazzare i pagani.
— Non ne abbiamo il diritto. Se non avessimo giurato sulla nostra fede, allora, magari, sarebbe possibile; ma ora no, non si può.
— Come non si può? Come tu dici: «non ne abbiamo il diritto»? Ecco qua: io ho due figli, giovani tutti e due. Ancora neppure una volta sono stati alla guerra né l’uno né l’altro, e tu dici: «non ne abbiamo il diritto»; e tu dici: «non occorre che i Saporogini si muovano».
— Appunto, ora non conviene codesto.
— Sicché, a quanto pare, conviene che si consumi inutilmente la forza dei cosacchi; conviene che un uomo finisca come un cane, senza compiere una bella impresa; che né la patria né tutta la cristianità ricavino da lui alcun vantaggio? Dunque a che scopo viviamo? per che diavolo mai siamo al mondo? Dimmelo tu. Tu sei un uomo assennato, non per niente ti elessero Koscevoj: spiegami, che ci stiamo a fare al mondo?
Il Koscevoj non diede risposta a questo quesito. Era un cosacco caparbio. Stette un po’ silenzioso, poi disse:
— Ma la guerra a ogni modo non ci ha da essere.
— Sicché, niente guerra? — domandò ancora una volta Taras.
— No.
— Sicché non ci si deve neppur pensare?
— A codesto non occorre neppur pensare.
«Lascia fare a me, dannato incettatore» disse Bul’ ba fra sé «tu saprai qualcosa dei fatti miei!» e immediatamente decise di vendicarsi del Koscevoj.
Passò parola a questi e a quelli, diede da bere largamente a tutti, e i cosacchi avvinazzati, in un certo numero, affluirono direttamente alla piazza, dove, legati a una colonna, si trovavano i timpani con cui si soleva battere l’invito per l’adunanza del consiglio. Non avendo trovato il bastone, sempre custodito dal tamburino, presero un pezzo di legno per ciascuno e cominciarono a battere sui timpani. Al rumore accorse prima d’ogni altro il tamburino, un uomo alto, con un occhio solo, che, a parte questo, era anche terribilmente insonnolito.
— Chi ardisce percuotere i timpani? — cominciò egli a gridare.
— Zitto! Prendi i tuoi bastoni e batti, quando ti si dà l’ordine — risposero gli anziani ubbriachi.
Il tamburino cavò dalla tasca i bastoni, ch’egli aveva presi con sé, conoscendo molto bene come andavano a finire simili avvenimenti. I tamburi rullarono, e presto, come sciami di pecchioni, cominciarono a raccogliersi nella piazza i neri gruppi dei Saporogini. Tutti s’adunarono in cerchio, e dopo il terzo rullo, finalmente, comparvero gli anziani: il Koscevoj portando in mano la mazza come segno della sua dignità, il giudice col suggello della comunità cosacca, lo scrivano col calamaio e l’esaul con la bacchetta. Il Koscevoj e gli anziani si cavarono il cappello e s’inchinarono da tutti i lati ai cosacchi, i quali stavano lí tutti alteri coi pugni puntati ai fianchi.
— Che vuol dire quest’adunanza? Che volete, signori? — domandò il Koscevoj. Le invettive e le grida non gli permisero di parlare.
— Lascia la mazza! Lascia, figlio del diavolo, immediatamente la mazza! Non ti vogliamo piú! — gridavano i cosacchi dalla folla. Alcuni, provenienti dalle kurjenje che non avevano bevuto, volevano, a quanto pareva, opporsi; ma le kurjenje tra loro, le sobrie e le ubbriache, vennero ai pugni. Le grida e il frastuono si fecero generali.
Il Koscevoj avrebbe voluto parlare, ma sapendo che per questo la folla irritata e sfrenata avrebbe potuto percuoterlo a morte, cosa che avveniva quasi sempre in simili casi, fece un profondo inchino, depose la mazza e si nascose nella turba.
— Comandate, signori, che anche noi deponiamo le insegne della carica? — dissero il giudice, lo scriba e l’esaul, e si prepararono subito a deporre il suggello cosacco, il calamaio e la bacchetta.
— No, voi rimanete al vostro posto! — presero a gridare dalla folla. — Avevamo bisogno solamente di scacciare il Koscevoj, perché è una femminuccia, e a noi occorre per Koscevoj un uomo!
— Chi eleggete ora alla carica di Koscevoj? — dissero gli anziani.
— Eleggiamo Kukubjenko! — gridò una parte.
— Non vogliamo Kukubjenko! — gridò un’altra parte. — È troppo presto per lui: non gli s’è ancora asciugato sulle labbra il latte della nutrice.
— Scilo sia fatto capitano! — gridarono alcuni. — Insediamo Scilo come Koscevoj!
— Che ti venga nelle reni un punteruolo3 — gridava accanita la folla. — Che razza di cosacco egli è, se ha rubato, figlio d’un cane, come un tartaro? Vada al diavolo, dentro un sacco, Scilo l’ubriacone!
— Borodatyi, Borodatyi, mettiamo per Koscevoj!
— Non vogliamo Borodatyi! Alla versiera Borodatyi!
— Gridate Kirdjaga — sussurrò Taras Bul’ ba ad alcuni.
— Kirdjaga! Kirdjaga! — gridò la folla. — Borodatyi, Borodatyi! Kirdjaga, Kirdjaga! Scilo! Andate al diavolo con Scilo! Kirdjaga!
Tutti i candidati, come udivano pronunziare i loro nomi, immediatamente uscivano dalla folla per non dare a qualcuno motivo di pensare che essi con la loro partecipazione personale influissero sulla elezione.
— Kirdjaga! Kirdjaga! — si sentiva gridare piú forte degli altri nomi. — Borodatyi! — Presero a decidere la questione a furia di pugni, e Kirdjaga trionfò.
— Andate da Kirdjaga! — si cominciò a gridare. Una decina di cosacchi si staccarono dalla folla all’istante; alcuni di essi a fatica si reggevano in piedi, tanto si erano avvinazzati, e andarono difilati da Kirdjaga per annunziargli la sua elezione.
Kirdjaga, un cosacco intelligente, benché molto vecchio, già da un pezzo era andato a sedersi nella sua kurjenja, e pareva che non sapesse niente di ciò che accadeva.
— Che c’è, signori? Che desiderate? — egli chiese.
— Vieni, ti hanno eletto Koscevoj!...
— Per carità, signori! — disse Kirdjaga. — Dove mai io sono degno di un tale onore? Dove mai posso essere un Koscevoj? A me manca l’intelligenza necessaria per reggere questa carica. Non s’è trovato proprio niente di meglio in tutto l’esercito?
— Vieni via! si dice a te! — gridarono i Saporogini. Due di loro lo presero a braccetto e, per quanto egli puntasse i piedi, fu trascinato infine sulla piazza, accompagnato da improperi, spinto di dietro a calci e pugni, e da ammonizioni come queste. — Non indietreggiare, figlio del diavolo! Prendi l’onore, cane, quando te lo danno! — In tal modo Kirdjaga fu condotto in mezzo all’assemblea cosacca.
— Ebbene, signori — gridarono a tutta la folla quelli che l’avevano accompagnato — siete d’accordo che questo cosacco sia il nostro Koscevoj?
— Tutti d’accordo! — gridò la folla, e di quel grido risonò a lungo tutta la campagna intorno.
Uno degli anziani prese la mazza e la portò al nuovo eletto Koscevoj. Kirdjaga, secondo la consuetudine, immediatamente la rifiutò. L’anziano gliela portò una seconda volta, e Kirdjaga rifiutò di nuovo; ma la terza volta, infine, prese la mazza. Un grido di approvazione uscí da tutta la folla, e daccapo risonò in lontananza per quel grido dei cosacchi tutta la campagna. Allora si fecero avanti, uscendo dal centro della folla, quattro dei piú vecchi, cosacchi dai baffi grigi e dai ciuffi grigi (troppo vecchi alla Sjec non se ne trovavano, perché nessuno dei Saporogini moriva di morte naturale); ognuno di essi prese in mano della terra — terra che in quel momento, per la pioggia cadutavi, si era trasformata in fango — e gliela misero sulla testa. La terra bagnata grondava giú dalla testa, colava sui baffi e sulle guance, e tutto il viso gli s’imbrattò di fango. Ma Kirdjaga stava lí fermo, senza muoversi dal suo posto, e ringraziava per l’onore che gli si rendeva.
In tal modo terminò la tumultuosa elezione, di cui non si sa se gli altri furono cosí contenti come ne fu contento Bul’ ba: con ciò egli si vendicava del Koscevoj precedente; e inoltre, anche Kirdjaga era uno dei suoi vecchi camerati, e aveva fatto con lui gli stessi viaggi di terra e di mare, compiendo le dure gesta e sostenendo le fatiche di una vita di battaglie. La folla si sbandò immediatamente per festeggiare la nuova elezione, e sorse una baldoria generale, quale non avevano ancora veduta sinora Ostap e Andrea. Furono sfasciate le bettole; idromele, acquavite e birra si portavano via senza complimenti, a ufo; i bettolieri si contentavano di non essere malmenati essi stessi. Tutta la notte passò tra le grida e i canti celebranti le gesta dei cosacchi; e la luna, levatasi, contemplò a lungo la folla dei suonatori che procedeva per le vie, con pandore, mandolini, chitarre, e coi cantanti di chiesa, che nella Sjec erano mantenuti non solo per cantare in chiesa, ma anche per celebrare le gesta dei Saporogini. Da ultimo l’ebbrezza e la stanchezza cominciarono ad aver ragione delle teste forti. Or qua, or là si vedeva cadere un cosacco e restare per terra; o un compagno, dopo aver abbracciato il compagno ed essersi intenerito, e magari con le lagrime agli occhi, si rotolava giú insieme con lui. Talora si sdraiava in massa tutto un gruppo: tal’altra qualcuno sceglieva il posto migliore ove giacere, e si stendeva senz’altro sopra un tronco d’albero. L’ultimo, ch’era il piú forte di tutti, andava ancora pronunziando non so quali discorsi sconnessi; ma in fine anche a lui la forza della sbornia fiaccò le gambe; si rotolò giú anche lui — e tutta la Sjec fu immersa nel sonno.