Taras Bul'ba/I
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I
Che razza di cotte da preti avete in dosso? E cosí vanno vestiti tutti all’Accademia?
Con tali parole andò incontro il vecchio Bul’ba ai suoi due figli, ch’erano stati a studiare nel Collegio ecclesiastico di Kiev, ed erano giunti allora allora alla casa paterna.
Erano appena smontati dai loro cavalli: due bei giovanotti ben piantati, che guardavano ancora di sotto in su, proprio come collegiali licenziati da poco. I loro volti maschi e sani eran coperti d’una prima peluria, che il rasoio non aveva ancora toccata. Molto sconcertati da quella sorta d’accoglienza paterna, stavano lí immobili, col capo chino a terra.
— Fermi, fermi! Lasciate che io vi sbirci per benino — seguitava a dire, intanto che li rivoltava come piuoli — oh, che svitke1 avete in dosso! Che razza di svitke! Svitke come codeste non s’erano ancora mai viste al mondo. Su, pigli la corsa, l’uno o l’altro di voi. Voglio vedere se non dà un ruzzolone inciampando nelle falde.
— Non ridere, non ridere, babbo! — disse finalmente il piú grande dei due.
— Guarda un po’ che grand’uomo! O perché non si dovrebbe ridere?
— Perché no! È vero che mi sei babbo, ma se ridi, com’è vero Dio, ti picchio!
— Ohi! che razza di figlio tu sei! Come! A tuo padre? — disse Taras Bul’ba, mentre, per la sorpresa, faceva qualche passo addietro.
— Sí, magari a mio padre! Per un’offesa, non guardo e non rispetto nessuno.
— Ebbene, in che maniera ti vuoi battere con me? Vuoi che facciamo a pugni?
— Oh, bada! in qualunque maniera.
— Be’, dagli coi pugni! — dice Bul’ba mentre si rimbocca le maniche. — Starò a vedere che uomo sei nel fare a pugni!
Ed ecco padre e figlio, in cambio di saluti e carezze dopo una lunga lontananza, cominciarono ad assestarsi a vicenda pugni sui fianchi, sul petto e sulle reni, ora indietreggiando e guardandosi attorno, ed ora di nuovo passando all’assalto.
— Guardate, buona gente: il vecchio è impazzito! Proprio gli ha dato di volta il cervello! — diceva la pallida magra e buona mamma dei ragazzi, che s’era fermata sulla soglia e non aveva fatto in tempo ad abbracciare i suoi figli adorati. — I figli sono venuti a casa; è piú d’un anno che non li vedevamo; e lui va a pensare, indovinate un po’: di fare a pugni!
— Ohé, si batte a meraviglia! — disse Bul’ba, fermandosi. — Vivaddio, bravo! — continuò raddrizzando un po’ la persona. — Quand’è cosí, meglio non fare neppure la prova! buon cosacco sarà! Oh via, buon giorno, figliuolo! abbracciamoci! — E padre e figlio cominciarono a baciarsi. — Bene, figliuolo! Cosí picchia tutti, come hai sgrugnato me: non ti lasciare sfuggire nessuno! Ma dopo tutto, il tuo vestito è buffo. Che è codesta corda che ti penzola? E tu, prete, perché non ti movi, e stai costí con le braccia penzoloni? — disse poi, rivolgendosi al figlio minore — perché tu, figlio d’un cane, non mi picchi?
— Ecco un’altra bella pensata! — disse la madre, che intanto abbracciava il figlio piú giovine. — E come ancora gli viene in testa una cosa simile, che un figlio carnale percuota suo padre! Come se, poi, fosse questo il momento buono! Il figlio è piccolo, ha fatto un viaggio cosí lungo, è stanco... — quel figlio aveva vent’anni sonati e una statura d’una tesa 2 precisa — ha bisogno di riposarsi adesso e di mangiare qualcosa, e lui gli propone di battersi!
— Oh, ecco! tu sei un piccolo imbrattafogli a quel che vedo — disse Bul’ba. — Non dar retta, figlioletto, a tua madre: è una femminuccia, non capisce nulla. Che razza di delicatezza ci vuole per voi altri? La vostra delicatezza è un campo spianato e un buon cavallo: ecco la vostra delicatezza! La vedete questa sciabola? Questa è la vostra madre! E tutta codesta roba di cui vi riempiono la testa, è tutta spazzatura: e le accademie, e tutti codesti libri, abbeccedari e filosofia, e tutta codesta roba, to’... ci sputo sopra, a codesta roba! — E qui Bul’ba infilò nel discorso una certa parola, che nella stampa non si adopera. — Oh, ecco: per far meglio, in questa stessa settimana vi manderò a Saporog 3. Ecco dov’è la scienza, e che scienza! Là è la scuola per voi; là soltanto acquisterete l’intelligenza.
— E in casa devono rimanere una sola settimana in tutto? — disse tutt’afflitta, con le lagrime agli occhi, la vecchia madre sparuta — e non sarà loro permesso, poverini, di divertirsi un poco; non sarà permesso di conoscere la loro casa paterna? e a me non sarà permesso di starmeli un poco a guardare?
— Basta, basta di strillare, vecchietta! Il cosacco non è nato per trastullarsi con le femmine. Tu li nasconderesti volentieri tutti e due sotto la sottana, e ci staresti a sedere sopra come una chioccia sulle uova. Va’, va’, e portaci in tavola al piú presto tutto quello che c’è. Non occorrono né frittelle, né pan pepato, né capi di papavero, né altre ghiottonerie; tira in qua un montone intero, dacci una capra, e idromele di quarant’anni! E poi acquavite in quantità, non l’acquavite coi nuovi ritrovati, con l’uva passa e altri ingredienti, ma acquavite pura, spumante, che salti e strilli come un’indemoniata.
Bul’ba condusse i suoi figli nel salone, da cui frettolosamente fuggirono due belle ragazze di servizio, con monili d’oro zecchino al collo, che stavano preparando le camere. A quanto pare, esse furono spaventate dall’entrata dei signorini, che non avevano piacere di lasciar inosservato nessuno; o pure, semplicemente vollero seguire il loro costume femminile: mandare un grido e precipitarsi a rotta di collo, per aver visto un uomo, e poi durare un pezzo a coprirsi il volto con la manica, per la grande vergogna. Il salone era addobbato nel gusto di quel tempo, sul quale sono rimasti alcuni vivaci accenni soltanto nelle poesie e nei canti lirici popolari che oggi nell’Ucraina non si sentono piú, cantati da vecchi ciechi barbuti, con accompagnamento di un lieve tintinnío di pandora, al cospetto di un cerchio di popolo; nel gusto, dico, di quel tempo violento e difficile, in cui cominciarono a svolgersi scaramucce e battaglie nell’Ucraina a causa dell’Unione religiosa. Tutto era pulito, ricoperto d’un intonaco a colori. Sulle pareti: sciabole, scudisci, piccole reti da uccelli, reti da pesca e fucili, un corno abilmente lavorato, per la polvere, un morso dorato e pastoie con placche d’argento. Le finestre nel salone erano piccole, con vetri tondi opachi, quali oggi si trovano soltanto nelle chiese antiche, e non era possibile guardare fuori, se non sollevando un vetro mobile. Attorno alle finestre e alle porte c’erano delle riquadrature rosse. Sui palchetti negli angoli posavano boccali, bottiglie e fiaschi di vetro verde e turchino, coppe d’argento cesellate, bicchierini dorati di ogni sorta di fabbrica: veneziani, turchi, circassi, arrivati nel salone di Bul’ba per vie svariate, di terza e quarta mano, cosa del tutto usuale in quei tempi avventurosi. Banchi in legno di betulla erano disposti attorno a tutta la sala; un tavolo enorme sotto le immagini sacre, nell’angolo delle solennità; una larga stufa con i suoi annessi, sporgenze e gradini, coperta di quadrelli colorati e variopinti; tutto ciò era assai ben noto ai nostri due giovinotti, che ogni anno tornavano a casa a piedi nei giorni della canicola; a piedi, perché non avevano ancora dei cavalli, e perché non era nelle consuetudini il permettere agli studenti di andare a cavallo. Essi non avevano altro che i loro lunghi ciuffi, pei quali potevano essere acciuffati da qualsiasi cosacco armato di schioppo. Soltanto in occasione del loro licenziamento, Bul’ba aveva mandato loro dalla sua mandra un paio di stalloni giovani.
Bul’ba per festeggiare il ritorno dei figli, ordinò d’invitare tutti i sotniki4 è tutto il ceto militare che si trovava sul posto; e quando giunsero due di essi e l’esaul5 Demetrio Tovkac, suo vecchio amico, subito Bul’ ba presentò loro i figli dicendo: — Guardate un po’ che giovanotti! Alla Sjec6 li voglio mandare, subito. — Gli ospiti si congratularono con Bul’ ba e coi due giovani e dissero loro che avrebbero fatto bene, e che per un giovane non esiste una scienza migliore di quella della Sjec di Saporog.
— Oh via! egregi signori, sedete a tavola ognuno al posto che piú gli piace. Su, figliuoli! prima di tutto beviamo un po’ di acquavite! — disse Bul’ ba. — Dio vi benedica! Salute a voi, figliuoli: a te, Ostap, e a te, Andrea! In guerra Dio vi conceda di essere sempre fortunati, che possiate battere gl’infedeli, battere i Turchi, battere i Tartari; e quando i Ljachi7 cominciassero a fare qualche cosa contro la nostra fede, battere anche i Ljachi! Su, porgete il vostro bicchierino; è buona, eh, l’acquavite? Come si dice acquavite in latino? A proposito, figliuoli, che brutta gente i Latini! Non sapevano neppure che l’acquavite esistesse. E come si chiama quello che scrisse versacci latini? Io non sono forte in letteratura, e perciò non lo so: Orazio, forse?
«Guarda un po’ com’è fatto il babbo!» pensava tra sé il figlio maggiore, Ostap «sa tutto questa birba d’un vecchio, e sempre fa lo gnorri.»
— Secondo me, l’archimandrita non vi lasciava sentir neppur l’odore dell’acquavite — continuò Taras. — E invece, dite la verità, figliuoli, vi picchiavano ben bene con le bacchette di betulla e di ciliegio verde sulla schiena e su tutto ciò che ha un cosacco? E, chi sa? via via che divenivate un po’ troppo intelligenti, chi sa? vi frustavano anche con lo staffile? E, scommetto, non soltanto il sabato, ma vi toccava anche nel mercoledí e nel giovedí?
— Non giova, babbo, ricordare quel che fu — rispose senza riscaldarsi Ostap — il passato è passato!
— Fa’ che ci si provi adesso! — disse Andrea — lascia che uno qualunque si provi soltanto ad attaccar briga! Ecco, lascia che adesso ci capiti sotto una qualsiasi banda di Tartari, e s’accorgerà che cosa è una sciabola cosacca!
— Bravo, figlio! com’è vero Dio, bravo! E giacché siamo a questo punto, ebbene, verrò anch’io con voi! Com’è vero Dio, ci vengo. Che diavolo ho da aspettare qui? Di diventare mietitore di granturco, o mastro di casa, o guardare le pecore, o magari i porci, e ingrullire con la moglie? Ma lei vada pure in malora: io, cosacco, non voglio! Cosí, che monta se non c’è la guerra? Vengo lo stesso con voi a Saporog, per passatempo. Com’è vero Dio, ci vengo! — E il vecchio Bul’ba a poco a poco s’infiammò; s’infiammò e da ultimo s’infuriò addirittura, si alzò da tavola e mettendosi in posa, batté il piede a terra. — Domani proprio ci andremo! Perché rimandare? Che nemico possiamo stillare fuori restando qui? Che c’importa di questa baracca? Che c’importa tutta questa roba? Che ne facciamo di queste pentole? — E detto questo, cominciò a battere e a scaraventare le pentole e i fiaschi.
La povera vecchietta, già avvezza a siffatte gesta del marito, stava a guardare con tristezza, seduta su un banco. Non osava dire una parola; ma avendo udita quella decisione per lei tremenda, non poté trattenere le lagrime; guardava i suoi figli da cui una cosí rapida separazione la minacciava; e nessuno potrebbe descrivere tutta la forza silenziosa del suo affanno, che soltanto pareva guizzare nei suoi occhi e nelle labbra convulsamente serrate.
Bul’ba era un testardo da far paura. Era uno di quei caratteri che potevano sorgere soltanto in quel penoso secolo XV in quel seminomade angolo dell’Europa, quando tutta la parte meridionale dell’antica Russia, abbandonata dai suoi príncipi, fu devastata, arsa fino allo sterminio dalle infrenabili incursioni dei predatori mongoli; quando, spogliato d’una casa e d’un tetto, l’uomo qui divenne capace d’ogni ardimento; quando sui luoghi devastati dagl’incendi, al cospetto di vicini minacciosi e di un pericolo perpetuo, egli si stanziava e s’avvezzava a guardarli fiso negli occhi, avendo disimparato che potesse esistere al mondo la paura; quando una fiammata violenta investí lo spirito slavo pacifico dei vecchi tempi, e si formò il cosacchismo — quel vasto, irresistibile slancio della natura russa — e quando lungo i corsi dei fiumi e nei valichi e nelle piagge scoscese e in ogni posto favorevole s’erano stanziati i cosacchi, dei quali nessuno sapeva neppure il numero, e i loro arditi camerati avevano ragione di rispondere al Sultano, che desiderava di sapere in quanti fossero: «Chi lo sa? Da noi sono sparsi per tutta la steppa: sc’ to bajrak to kosak (dovunque è un piccolo rialzo di terreno, c’è già un cosacco)». Fu addirittura una straordinaria manifestazione della forza russa; la fece sprizzare dal seno della nazione l’acciarino delle sventure. Al posto degli antichi principati, delle piccole città, piene di allevatori di cani e piene di cacciatori, al posto dei signorotti che guerreggiavano o trafficavano con quelle città, sorsero formidabili stanziamenti, borgate di capanne e campi trincerati, tenuti insieme dal comune pericolo e dall’odio contro i predoni non cristiani. È noto già dalla storia come la loro eterna lotta e la loro vita irrequieta liberarono l’Europa dalle incessanti invasioni che minacciarono di distruggerla. I re polacchi, trovatisi a un tratto a sostituire gli antichi principi feudali, e vedendosi divenuti padroni di quegli ampi territori, pur lontani e deboli come erano, compresero il significato dei cosacchi, e i vantaggi di una tale vita da guerrieri e da sentinelle. Essi li aizzarono, e favorirono il loro singolare ordinamento. Sotto il loro lontano comando, gli atamani, scelti in mezzo agli stessi cosacchi, trasformarono i campi trincerati, le borgate di capanne, in reggimenti e regolari circoscrizioni militari. Non era un corpo d’esercito permanente, nessuno avrebbe mai visto una cosa simile; ma in caso di guerra o di una mobilitazione generale, in otto giorni, non piú, ognuno si presentava, a cavallo, in pieno assetto di guerra, riscuotendo dal re solo un ducato di soldo, e in due settimane s’adunava un tale contingente di truppe, quale non sarebbe stato in grado di raccogliere qualsiasi reclutamento di leva. Finita la spedizione, il guerriero si ritirava nei prati e nei campi, e ai valichi del Dnjepr, attendeva alla pesca o al commercio, fabbricava birra, ed era un libero cosacco. Gli stranieri contemporanei avevano ragione allora di ammirare le sue non comuni attitudini. Non c’era un mestiere che il cosacco non conoscesse: distillare l’acquavite, allestire un baroccio, fabbricare la polvere da fucile, impiantare un’officina da magnano o da falegname, e, per giunta a tutto questo, scorrazzare all’impazzata, bere e cioncare quanto solamente un russo è capace di fare; tutto ciò era un fardello leggiero per le sue spalle. Oltre i cosacchi iscritti al servizio, che si tenevano obbligati a presentarsi in tempo di guerra, era possibile in qualsiasi tempo, in caso di grande necessità, raccogliere intere masse di cavalleria volontaria: bastava che gli esaul andassero per i mercati e per le piazze di tutti i borghi e villaggi, e cominciassero a gridare a squarciagola, dall’alto del baroccio: — Olà voi altri, birrai, acquavitai! Basta per voi lo stare a cuocere la birra, e dondolarvi attorno alla stufa, e nutrire le mosche col vostro corpo ingrassato! Avanti, a guadagnarvi la gloria dei cavalieri e l’onore! Voi, aratori, mietitori di granturco, pastori di pecore, donnaioli! Basta per voi l’andar dietro all’aratro, e imbrattarvi nella terra i gambali gialli, e stare attorno alle donne, e perder la vostra forza cavalleresca! È tempo di acquistare la gloria dei cosacchi! — E queste parole erano come scintille cadute sopra un pezzo di legno secco. L’aratore rompeva il suo aratro, i fabbricanti di birra e d’acquavite abbandonavano le botti e i tini e fracassavano i caratelli; l’artigiano e il mercante mandavano al diavolo il mestiere e la bottega, rompevano in casa le pentole e, a qualunque costo, montavano a cavallo. In una parola, il carattere russo ebbe in quel tempo un potente e largo slancio, una grande vigorosa espressione.
Taras era uno del numero degli autentici vecchi colonnelli. Era tutto costruito per le agitazioni di guerra e si segnalava per la rozza tenacia del suo carattere. Allora l’influsso della Polonia cominciava ad apparire nella nobiltà russa. Molti assumevano già costumanze polacche, introducevano il lusso, il sontuoso sfarzo del servitorame, i falconieri, i cacciatori, i banchetti, le corti. A Taras tutto ciò non andava a sangue. Egli amava la vita semplice dei cosacchi e si disgustava di quei suoi amici che inclinavano dalla parte di Varsavia, e li chiamava i valletti dei signori polacchi. Perpetuamente irrequieto, considerava se stesso come legittimo difensore dell’ortodossia. Di suo arbitrio si recava nei villaggi in cui ci fosse soltanto qualche lamento per angherie da parte degli appaltatori o per l’aggiunta di nuove gabelle sull’azienda rurale. Da sé, coi suoi cosacchi, egli faceva giustizia, e aveva prescritto a se stesso la regola che in tre casi conviene appigliarsi sempre alla sciabola, vale a dire: quando i commissari non rispettavano il capoccia e stavano dinanzi a lui col cappello in testa; quando qualcuno si beffava dell’ortodossia e non teneva in onore i costumi degli avi, e, in fine, quando i nemici erano infedeli e turchi, contro i quali in ogni caso egli considerava lecito brandire le armi per la gloria della Cristianità.
Ora, egli si confortava anticipatamente col pensiero di come si sarebbe presentato coi suoi due figli alla Sjec e avrebbe detto: «Guardate un po’ che giovanotti vi conduco!» e come li avrebbe presentati a tutti i suoi vecchi amici induriti nelle battaglie; come sarebbe stato ad osservare i loro primi successi nell’arte della guerra e nel trincare, che egli considerava del pari come uno dei principali meriti di un cavaliere. Da principio avrebbe voluto mandarli là soli; ma alla vista della loro freschezza ed esuberanza fisica, e della loro potente bellezza, s’infiammò il suo spirito guerresco, e già nel giorno seguente egli risolse di andare insieme con loro, quantunque la necessità di ciò fosse soltanto nel suo capriccio testardo. Già egli si affaccendava e dava gli ordini, sceglieva i cavalli e le bardature per i giovani figli, andava anche a cercare e frugare nella rimessa e nel magazzino, designava i servi che all’indomani avrebbero dovuto partire con loro.
All’esaul Tovkac consegnò il suo comando, con la severa istruzione di presentarsi immediatamente con tutto il reggimento, appena gli mandasse un cenno qualsiasi dalla Sjec. Quantunque fosse molto allegro e ancora gli girasse per il capo la sbornia, pure non dimenticò niente; diede perfino l’ordine di abbeverare i cavalli e sparger loro nella greppia la biada grossa e della miglior qualità, e ritornò stanco da tutte queste sue faccende.
— Su, ragazzi, ora bisogna dormire, ma domani faremo quel che Dio vorrà. Non ci rifare il letto, ve’! Noi non abbiamo bisogno di letto; dormiremo nel cortile.
La notte aveva appena allora occupato il cielo; ma Bul’ba andava sempre a letto presto. Si stese sopra un tappeto, si coprí con una pelle di montone, perché l’aria della notte era abbastanza fresca, e perché Bul’ba amava di star caldo, quando dormiva in casa. Presto cominciò a russare, e a lui tenne dietro tutto il cortile; ogni essere giacente nei suoi vari angoli cominciò la sua musica russando. Prima di tutti s’addormentò il guardiano, perché piú di tutti s’era ubbriacato per l’arrivo dei padroncini.
La sola che non dormisse era la misera madre. China sul capezzale dei suoi cari figli, che giacevano l’uno accanto all’altro, ravviava con un pettine i loro giovani riccioli trascurati e arruffati, e li ammorbidiva con le lagrime. Era tutta intenta a guardarli, con tutti i suoi sentimenti li guardava, tutta se stessa aveva concentrato in quello sguardo, e non si saziava di contemplarli. Essa li aveva nutriti col proprio seno, essa li aveva tirati su, li aveva educati teneramente... e solo per un istante li vede dinanzi a sé. — Figli miei, figli miei cari! che sarà di voi? che sorte vi attende? — diceva, e le lagrime si fermavano tra le rughe che avevano alterato il suo volto già cosí bello! In realtà, essa era infelice, come ogni donna di quel tempo avventuroso. Per un momento solo aveva vissuto d’amore, solo nella prima febbre della passione, nella prima febbre della gioventú, e subito il suo rozzo seduttore l’aveva abbandonata per la sciabola, per i compagni, per le sbornie. Essa vedeva il marito due o tre giorni in un anno, ma in seguito, per parecchi anni, non aveva avuto neppur notizia di lui. E poi, anche quando si vedevano, quando vivevano insieme, che vita era la sua? Le toccava sopportare offese, perfino percosse; rassegnarsi a carezze offerte soltanto per compassione; essere qualcosa di singolare in mezzo a quell’accozzaglia di cavalieri scapoli, a cui la sfrenata vita di Saporog aveva impresso il suo colorito di rozzezza. La gioventú senza conforto svaniva dinanzi a lei; senza baci sfiorirono le sue belle guance fresche e il bel seno e si coprirono di rughe precoci. Tutto l’amore, tutti i sentimenti, tutto quel che c’è di tenero e appassionato in una donna, tutto in lei si trasformò nell’unico affetto materno. Con ardore, con passione, con lagrime, simile al gabbiano della steppa, essa roteava con le ali aperte sopra i suoi figli. I suoi figli, i suoi cari figli glieli portano via, glieli portano via per non lasciarglieli vedere mai piú. Chissà? forse al primo scontro coi Tartari, mozzeranno loro la testa, ed essa non saprà mai dove giacciono i loro corpi abbandonati, sui quali si poseranno a beccare nel loro passaggio gli uccelli di rapina! E dire che per ogni goccia del loro sangue essa avrebbe dato tutta se stessa! Singhiozzando, essa guardava nei loro occhi mentre il sonno invincibile li chiudeva, e le venne in mente: «Può darsi magari che Bul’ba, svegliandosi, rimandi di un paio di giorni la partenza. Forse quell’idea di partire subito gli venne perché aveva bevuto molto».
La luna dalla sommità del cielo già da un pezzo rischiarava tutto il cortile, pieno di dormenti, e il folto gruppo di salici e l’alta erba della steppa, in cui s’affondava lo steccato attorniante il cortile. Ella era ancora lí a sedere presso il capezzale dei suoi figli cari, e neppure per un minuto deviava da essi lo sguardo, e non pensava a dormire. Già i cavalli, sentendo il crepuscolo, s’erano tutti distesi nell’erba e avevano smesso di mangiare; le foglie piú alte dei salici cominciavano a bisbigliare, e a poco a poco la corrente di quel bisbiglio si calava in essi fino al basso. Ella continuò a sedere lí fino all’alba; non era affatto stanca, e in cuor suo desiderava che la notte durasse il piú possibile a lungo. Per la steppa si diffuse il sonoro nitrito di un puledro; strisce rosse s’accesero di viva luce nel cielo.
Bul’ba a un tratto si svegliò e saltò in piedi. Egli ricordava molto bene tutti gli ordini che aveva dati la sera avanti.
— Su, ragazzi, basta il dormire! È ora, è ora! Abbeverate i cavalli! E la vecchia dov’è? (con questo nome era solito chiamare sua moglie). Su, vecchia, piú svelta! preparaci da mangiare; il viaggio sarà lungo!
La misera vecchietta, perduto l’ultimo filo di speranza, si trascinò tutta addolorata nella capanna. Intanto che essa, tra le lagrime, preparava tutto il necessario per la colazione, Bul’ ba distribuiva i suoi ordini; andò nella rimessa e scelse da sé per i suoi figliuoli i migliori finimenti.
I collegiali in un attimo si trasformarono: in cambio degli scarponi inzaccherati che portavano prima, si videro loro addosso dei belli stivali di marrocchino rosso con i tacchi d’argento; brache larghe come il Mar Nero, con una infinità di sboffi e di pieghe, erano legate con un cordoncino d’oro; al cordoncino erano attaccati lunghi correggiuoli con fiocchi e altri ciondoli per la pipa. La casacca di colore rosso, di panno, acceso come il fuoco, era stretta alla vita con una cintura ricamata; delle pistole turche col calcio cesellato erano fermate alla cintura; la sciabola tintinnava presso le gambe. I loro volti, ancora poco abbronzati, parevano divenuti piú belli e piú bianchi; i piccoli baffi neri facevano spiccare anche meglio la loro bianchezza e il loro sano e vigoroso colore di giovinezza; erano belli sotto i loro berretti neri di pelle di montone, con la copertura d’oro. Povera madre! Essa, come li vide, non poté pronunziare una parola, e le lagrime s’arrestarono sui suoi occhi.
— Su, figliuoli, tutto è pronto; non c’è tempo da perdere! — disse finalmente Bul’ba. — Ora, si deve fare, com’è uso dei buoni cristiani, una piccola seduta prima di mettersi in cammino.
Tutti sedettero, non esclusi nemmeno i garzoni che stavano in atto d’ossequio sulla porta.
— Adesso, tu, benedici, o mamma, i tuoi figli! — disse Bul’ba. — Prega Dio che essi si battano da valorosi, difendano sempre l’onore dei cavalieri; che stiano sempre per la fede di Cristo, o altrimenti è meglio che periscano, che l’anima loro sparisca dal mondo! Accostatevi, o figli, alla mamma: la preghiera materna salva per mare e per terra!
La madre, debole come può essere una madre, li abbracciò, cavò fuori due piccole immagini e, singhiozzando, le mise loro al collo.
— Possa custodirvi... la Madre di Dio... Non dimenticate, figliuoli, la vostra mamma... mandatele almeno qualche piccola notizia di voi... — Altro non poté dire.
— Su, andiamo, figliuoli! — disse Bul’ba.
Presso la scala erano i cavalli sellati. Bul’ba saltò sul suo Diavolo, che sobbalzò furiosamente quando si sentí addosso il peso di dodici pud8, giacché Taras era straordinariamente pesante e grosso.
Quando la madre vide che anche i suoi figli erano già a cavallo, si accostò al piú piccolo, che nei tratti del volto pareva esprimere una certa maggiore tenerezza; lo prese per la staffa, gli si attaccò alla sella, e, con la disperazione negli occhi, non lo lasciava sfuggire dalle sue mani. Due robusti cosacchi la presero rispettosamente e la trasportarono nella capanna. Ma quando essi giunsero sul portone, essa, con tutta la sveltezza di una capra selvatica, cosa non conforme ai suoi anni, corse sul portone e con una forza irresistibile fermò un cavallo, e abbracciò uno dei suoi figli con una violenza furiosa e insensata. Di nuovo la menarono via.
I giovani cosacchi andavano innanzi turbati e trattenevano le lagrime, per paura del padre, il quale, del resto, era anche lui piuttosto commosso, sebbene cercasse di non farlo apparire. La giornata era grigia; il verde dei campi luccicava vivamente; gli uccelli cinguettavano quasi in falsetto. Dopo essere andati avanti per un pezzo, i due giovani si volsero a guardare addietro; pareva che la loro masseria fosse andata sotterra; al disopra del suolo non si vedevano che i due fumaioli della loro modesta casetta, e le cime di quegli alberi sui cui rami essi solevano arrampicarsi come scoiattoli; ancora si stendeva dinanzi a loro quel prato sul quale potevano ricordare tutta la storia della loro vita, dagli anni in cui si rotolavano nella sua erba molle di rugiada, agli anni in cui andavano lí ad aspettare una giovine cosacca dalle nere ciglia, che non senza paura era passata a volo attraverso il prato, con l’aiuto delle sue gambe fresche e svelte. Da ultimo, ecco soltanto la stanga al disopra del pozzo, con la ruota legata in cima, la ruota tolta da una teljega, si leva solitaria verso il cielo; ecco ormai la pianura da essi percorsa sembra da lontano un monte, e ha coperto tutto dietro di sé.
Addio, infanzia, e giuochi, e ogni cosa! Ogni cosa.
Note
- ↑ Soprabito usato dagli slavi meridionali.
- ↑ Sagen, una misura di lunghezza di m. 2,13356.
- ↑ Nome del campo libero e dello Stato franco che un tempo i cosacchi avevano al di là della rapida del Dnjepr.
- ↑ Capo di una sotnja, o centuria nell’esercito cosacco.
- ↑ Capitano cosacco.
- ↑ Nome di quella specie di scuola di guerra e di libera repubblica militare, che i cosacchi avevano costituito a Saporog.
- ↑ Nomignolo spregiativo per designare i Polacchi.
- ↑ Secondo il testo si dovrebbe dire «di venti», ma la cosa è troppo inverosimile. Un pud rappresenta un peso di kg. 16,375; sicché il peso di Taras avrebbe dovuto essere di kg. 337,50! Ho quindi supposto che dwadzati — nel testo — sia una svista invece di dwienadzati. Possiamo immaginare un gigante di kg. 197,50.