Sulle frontiere del Far-West/CAPITOLO X - Le miniere di Mogallon

CAPITOLO X - Le miniere di Mogallon

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CAPITOLO X.


Le miniere di Mogallon.


I rossi guerrieri delle immense praterie giungevano schiamazzando, pronti a far larga messe di capigliature umane ed a sfogare la loro rabbia inestinguibile, contro la razza conquistatrice che si avanzava, di giorno in giorno, attraverso i territorî di caccia che il buon Manitou aveva esclusivamente destinati alle facce ben cotte.

Erano più di duecento e, giunti ormai a buon tiro, erano balzati o meglio rimontati in sella, agitando forsennatamente le lucenti scuri, i terribili tomahawah, le carabine, le lance e gli scudi di pelle di bufalo adorni di capigliature umane.

Non avevano la statura imponente dei Corvi e degli Sioux, quantunque fossero tutti piuttosto alti di statura, ben fatti, con ampii petti e braccia muscolose.

I loro visi nulla avevano di feroce, salvo il lampo degli occhi, un lampo ardente che tradiva un odio spietato.

Avevano i lunghi, ruvidi e neri capelli stretti intorno alla fronte da luride fasce, abbellite però da perle di vetro, da specchietti e da penne di falco; i petti nudi e qua e là tatuati, riparati in parte da scudi rotondi di piccole dimensioni; le cosce strette da calzoni di tela verde ed azzurra, adorni sulle cinture di capigliature e che si affondavano per lo più in bellissimi mocassini di pelle di daino non conciata e ricamata dalle donne della tribù.

Quelli che più impressionavano erano i capi, per le loro stravaganti acconciature, consistenti in giganteschi ornamenti di penne di tacchino selvatico, che partivano dalla testa e scendevano alle ànche, stendendosi perfino sulle groppe dei cavalli.

Quei curiosi trofei svolazzanti producevano un effetto strano perchè davano, a coloro che li portavano, delle dimensioni straordinarie.

Al grido lanciato da John, i due scorridori della prateria, gli squatters, le donne e perfino i fanciulli che potevano reggere un’arma da fuoco, avevano cominciato a sparare, un po’ all’impazzata, colla speranza di fermare quella carica furiosa che pareva non dovesse arrestarsi che addosso ai furgoni.

Tutti quei rifles sparati insieme a molte pistole, dovevano produrre un effetto non molto gradito agli assalitori.

[p. 102 modifica]Parecchi cavalli indiani erano andati a gambe levate trascinando seco i cavalieri, e gli altri, spaventati dal fragore della fucileria, malgrado le grida dei loro proprietarî, avevano dato di volta appena giunti a duecento metri dai furgoni.

— Tenete duro!... — gridò John, il quale sparava alla testa dei volontari della stazione. — Cerchiamo di decimarli prima che facciano uso dei loro tomahawah. —

Approfittando di quella momentanea ritirata, i carri si erano rimessi in marcia, quantunque anche gl’Indiani avessero cominciato a far fuoco, maltrattando non poco i cavalli dei furgoni.

Quella corsa non doveva durare molto. Il fuoco s’avanzava sempre più rapido, spingendo fino sopra i furgoni ondate di scintille, e i pelli-rosse, niente scoraggiati da quel primo scacco, tornavano alla carica con maggior furore, impazienti di finirla, prima che l’incendio divorasse ogni cosa e li costringesse, a loro volta, a battere in ritirata.

L’indian-agent scosse il capo con un fare desolato.

— Triste giornata! — mormorò. — Sarebbe stato molto meglio che questi uomini fossero rimasti alla stazione. Questo combattimento finirà in uno spaventevole macello. —

La lotta era ricominciata con grande furia d’ambo le parti. Gli squatters, vedendosi ormai perduti, non avevano che un solo pensiero: atterrare quanti più nemici potevano prima di cadere.

Le scariche si succedevano alle scariche. Molti pelli-rosse, che si erano spinti troppo innanzi, vuotavano l’arcione crivellati di palle coniche, ma anche molti squatters stramazzavano fra le erbe o fra le zampe dei cavalli.

John, Harry, Giorgio ed anche il gambusino, questo però molto di malavoglia, di quando in quando facevano delle cariche disperate alla testa del piccolo gruppo dei volontari, per sbarazzare i furgoni che si trovavano troppo alle strette. Erano però vani sforzi.

I terribili guerrieri, se si ritiravano dinanzi a quei fulminei attacchi, non tardavano a radunarsi, e dopo d’aver scaricate le loro armi da fuoco tempestavano i carri coi loro tomahawah che lanciavano con una destrezza incredibile, spaccando non poche teste.

Ben presto un furgone, che già cominciava ad essere avvolto dal fumo che il vento spingeva, fu isolato, ed allora successe un massacro orrendo. Gli squatters che lo difendevano, cinque o sei in tutto, furono atterrati a colpi di fucile, di scure e di lancia e subito scotennati; le donne furono strappate, malgrado la loro feroce resistenza, gettate attraverso le gualdrappe dei mustani e portate via; i fanciulli gettati prima in aria e poi sbatacchiati contro le ruote del furgone fino a spaccare i loro crani.

Nessuno aveva potuto accorrere in aiuto dei disgraziati, avendo [p. 103 modifica]tutti un gran da fare a difendersi. Nemmeno John ed i suoi compagni, trattenuti all’avanguardia da un contrattacco d’una banda di nemici, che tentava di tagliare alla carovana la ritirata verso la Sierra, avevano il modo di sbarazzarsi da quella torma e di tornare indietro.

Un momento dopo un altro furgone veniva preso d’assalto, i difensori uccisi e regolarmente scotennati, le donne rapite, i fanciulli massacrati.

Ormai gl’Indiani erano padroni del campo e si slanciavano da tutte le parti alla carica, con urla spaventevoli fra i primi nembi di scintilla che cominciavano a cadere sulle tende dei furgoni, incendiandole.

Non vi era più nulla da tentare da parte dei visi-pallidi. Era giunto, purtroppo, il momento inesorabile del «si salvi chi può».

John, sfuggito miracolosamente alle palle ed ai tomahawah degli Indiani, con uno sforzo disperato era riuscito, spalleggiato dai suoi tre compagni, a sfondare la banda che tentava di ributtarlo contro i furgoni.

— Fuggite!... — gridò egli. — Ognuno pensi alla propria salvezza!... —

I quattro uomini avevano caricato a fondo, mentre Minnehaha, aggrappata a suo padre, si rannicchiava su sè stessa per evitare di farsi ammazzare da qualche palla o da qualche tomahawah.

John credeva di essere seguito, se non da tutti, almeno da una parte degli squatters e dei volontari; ma s’ingannò.

Gl’Indiani avevano tornato a stringere, con rapidità fulminea, le loro linee dinanzi ai furgoni, impedendo così ai disgraziati che erano rimasti indietro, di disperdersi per la prateria.

Allora ricominciò un combattimento furioso, senza quartiere nè da una parte nè dall’altra.

Gli squatters, trinceratisi nei carri, opponevano l’ultima e purtroppo inutile resistenza, poichè venivano fucilati quasi a bruciapelo dalle carabine indiane.

Alcuni di essi, condotti dal vecchio sergente e da qualche volontario, avevano invece tentato di forzare le linee per salvarsi nella prateria, ma, traditi dai loro cavalli, ai quali le forze erano mancate nel momento supremo, erano caduti l’uno sull’altro, finiti quasi subito a colpi di tomahawah e poi scotennati.

John, i due scorridori di prateria, il gambusino e la giovane indiana, dopo una corsa di tre o quattrocento passi, si erano arrestati per sparare sui massacratori alcuni colpi ancora. Anche il capo dei Corvi, la Nuvola Rossa, faceva di quando in quando fuoco; ma non erano certamente gli alleati degli Sioux, dei guerrieri di sua moglie, quelli che cadevano sotto i suoi colpi.

Il bandito mirava sui furgoni, e siccome nessuno poteva seguire [p. 104 modifica]la direzione delle sue palle, non poteva neanche correre alcun pericolo di destare qualche sospetto.

Le urla delle donne che venivano portate attraverso la prateria a corsa sfrenata e quelle degli ultimi squatters stavano per spengersi, quando una banda formata d’una quarantina di pelli-rosse, guidata da un capo che si pavoneggiava nel suo strano e pittoresco trofeo di penne di tacchino selvatico, si staccò dai furgoni e si mise in corsa dietro i cinque fuggiaschi.

Ai terribili guerrieri della prateria occorrevano, a quanto pareva, anche quelle cinque capigliature, come se non ne avessero ormai raccolte abbastanza.

— Camerati!... — gridò John, il quale aveva gli occhi umidi ed era pallido come un cencio lavato. — Tutto è finito!... Risparmiate i cavalli più che potete e non vi allontanate da me. Se fra qualche ora non giungeremo alla miniera, anche noi saremo morti!... —

Le urla di guerra della banda avevano soffocato le sue ultime parole.

I quattro cavalli, sentendo allentare le briglie; avevano fatto un rapidissimo dietro fronte ed avevano ripresa la corsa verso la sierra Escalada, mentre le prime colonne di fumo si abbattevano sui furgoni che i pelli-rosse stavano già saccheggiando frettolosamente, dopo aver finiti gli ultimi difensori.

La caccia cominciava, una caccia commoventissima, attraverso l’ultimo lembo della prateria, che i fuggiaschi stavano attraversando.

La banda indiana aveva subito tentato di disporsi ad arco, colla speranza di raccogliere molto presto le due ali e di chiudersi in un cerchio, però si era subito accorta che aveva da fare con dei cavalieri troppo forti ed audaci per lasciarsi facilmente prendere, e si era messa in fila.

Infatti i quattro cavalli, montati dall’indian-agent, dai due scorridori e da Nuvola Rossa, avevano ancora del vigore da vendere, nonostante la lunga marcia notturna, compita però quasi sempre al passo.

Erano mustani scelti con gran cura, allenati perfettamente, abituati alle lunghissime corse come ai lunghi digiuni.

Con uno slancio impetuoso avevano subito distanziata la banda di altri cinque o seicento passi, così che i loro padroni potevano ritenersi quasi fuori di portata dalle armi da fuoco che gl’Indiani non avevano ancora imparato a maneggiare con grande profitto.

— Non pensiamo che a noi, — disse John ad Harry ed a Giorgio, che gli stavano ai fianchi, mentre Nuvola Rossa si teneva una decina di passi più indietro, per essere più libero di parlare con Minnehaha. — Un giorno il nostro Governo vendicherà quei disgraziati.

— Che non ne abbiano lasciato nemmeno uno vivo? — chiese Giorgio.

[p. 105 modifica]— Forse qualcuno, per legarlo al palo della tortura e fargli rimpiangere amaramente di non essere stato ammazzato sul posto.

— Riusciremo, John, a salvarci almeno noi? — domandò Harry, il quale si volgeva di frequente indietro, per vedere se gl’Indiani guadagnavano terreno.

— Io non dispero, — rispose l’indian-agent, che cominciava a rassicurarsi. — Anche i cavalli dei Chayennes devono aver compiuta una lunga marcia e non si troveranno in migliori condizioni dei nostri.

— Hai detto che fra un’ora possiamo giungere ai pozzi.

— Lo credo.

— I nostri cavalli potranno resistere e conservare la distanza.

— E poi saremo costretti a perderli, — disse Giorgio. — Sarà impossibile farli scendere nella miniera.

— Accontentati per ora di salvare la pelle, camerata.

— E dopo come andremo innanzi? Il Lago è ancora lontano e l’hacienda pure.

— In qualche modo ci giungeremo egualmente. Forse non abbiamo i nostri lazos e nelle praterie non si trovano ancora in buon numero i mustani selvaggi?

— Hai ragione, John, — rispose Harry. — Per ora pensiamo a mettere in salvo le nostre capigliature. —

Una scarica in quel momento partì e parecchi proiettili passarono, fischiando, sopra ed intorno ai cavalli.

— Corna di bisonte!... Grandina e bene!... — gridò John. — Spronate, camerati!... Cento o centiquanta metri di vantaggio ancora e noi saremo completamente fuori di tiro. Hallo!... Hallo!... Via!... —

I quattro mustani, già spaventati da quei colpi di fucile e soprattutto dall’incendio che guadagnava sempre e che avvampava ormai sopra i furgoni, scacciando i saccheggiatori, fecero un altro supremo sforzo, sostenuto però anche da vigorosi colpi di sperone, e guadagnarono un altro centinaio di metri.

Gl’Indiani, sempre più furiosi, avevano mandato delle urla terribili e si erano provati a riconquistare la distanza perduta, ma solamente il capobanda, che faceva sventolare il suo trofeo di penne di tacchino, era riuscito a spingersi innanzi ed a mantenere la corsa.

— Ah!... Verme!... — urlò John, furibondo, armando rapidamente il rifle. — Io non potrò avere la tua capigliatura, però la tua vita la conterò insieme a tante altre.

Si era voltato, frenando il mustano.

Il capo si avanzava velocissimo, stringendo una grossa carabina che forse era solito ad usare per la caccia dei bisonti o degli orsi grigi, animali che non cadono se non sono colpiti da una buona dose di piombo.

— Non perdere il tuo tempo!... — gridò Harry.

[p. 106 modifica]— Non domando che pochi secondi, — rispose l’indian-agent. — Non succede tutti i giorni di uccidere un sakem!...

— Tira dunque.... —

Uno sparo rimbombò quasi subito. Il mustano del capo si era violentemente inalberato, tentando di sbarazzarsi del cavaliere; poi era caduto di quarto, affondando in mezzo alle erbe che erano ancora altissime.

Il sakem, accortosi a tempo d’esser preso di mira, si era riparato dietro la testa del povero animale, poi con un volteggio meraviglioso si era slanciato a terra.

— Cane!... — urlò John, il quale molto difficilmente sprecava i suoi proiettili.

Poi seguì una salve di bestemmie che si confusero in parte fra le urla feroci della banda, la quale cominciava ad ingrossarsi, poichè anche quelli che avevano saccheggiati i furgoni, spinti dal fuoco che avanzava sempre, tutto divorando sul suo passaggio, accorrevano a prender parte alla caccia.

— Un buon cavallo vale un indiano, — disse Harry. — Se il capo è a piedi non varrà meglio d’una coyote.

— Non credevo però che avesse una così gran fortuna, — rispose l’indian-agent, che aveva riconquistato subito il suo posto e ricaricato prontamente il rifle.

— Lo manderai più tardi a passeggiare fra le smaglianti praterie che il Grande Spirito, il buon Manitou, ha serbato per la razza rossa.

— Uhm!... Avrei preferito gettarlo giù subito.

— Uno più uno meno a che gioverebbe? Ecco tutti gli altri che accorrono.

Se non trovi i pozzi, noi nulla avremo da invidiare a quei disgraziati squatters.

— La miniera è più vicina di quello che tu credi, — rispose l’indian-agent, il quale spingeva i suoi sguardi verso i primi contrafforti della sierra.

I quattro cavalli, che conservavano ancora un vigore meraviglioso, e tale da far stupire perfino gl’Indiani, avevano allora attraversato l’ultimo lembo della prateria e galoppavano sfrenatamente fra i boschetti della pianura alta.

Neanche il fuoco poteva ormai raggiungerli, quantunque la prateria fosse diventata un vero oceano di fiamme che solo i fiumi potevano arrestare.

La sierra Escalada era ormai vicinissima. Non era già una grande catena, imponente come la Nevada, o come quella del Laramie, tuttavia aveva alture notevoli e picchi che si slanciavano a considerevoli altezze.

John che, come abbiamo detto, conosceva a meraviglia tutti quei luoghi che aveva percorsi in tutti i sensi per venti e più anni, e che [p. 107 modifica]aveva il dono dell’orientazione, si era messo in testa al drappello e guidava la corsa sfrenatamente, poco importandogli ormai di rovinare completamente i cavalli che sapeva di non poter salvare.

Gl’Indiani non avevano cessato l’inseguimento, però erano rimasti indietro e non si vedevano quasi più, perchè riparati dietro le prime boscaglie. Le loro urla, sempre furibonde, giungevano agli orecchi dei fuggiaschi, quantunque più fioche.

Per una mezz’ora ancora John continuò la corsa, salendo i primi contrafforti della Sierra, anche quelli coperti di piante che diventavano sempre più folte, poi si arrestò sul margine di una radura che gli si era improvvisamente aperta dinanzi, priva di verdura e cosparsa invece tutta di polvere nera.

Alcune tettoie, quasi sfasciate, occupavano un lato; un altro era ingombro di traverse di ferro e di legno accumulate alla rinfusa e di vagoncini sgangherati e colle ruote in aria.

Qua e là poi si vedevano ancora ammassi di carbone, che più nessuno si era curato di portare via.

— La miniera? — chiese Harry.

— Tutti a terra!... — comandò l’indian-agent. — Prendete le armi, le munizioni, le coperte e soprattutto non dimenticate i lazos.

— Ed il secondo zampone d’orso che costituisce l’unica nostra risorsa, — aggiunse Giorgio.

In un baleno furono tutti a terra.

John si mise in ascolto.

Le grida degl’Indiani echeggiavano sempre, ma ben lontane.

— Togliete le selle e gettatele in mezzo ai carboni, — comandò l’indian-agent.

— Anche le briglie ed i morsi? — chiese Harry.

— Tutto: presto, non abbiamo un minuto da perdere. —

I quattro cavalli furono rapidamente spogliati delle loro bardature.

John, un po’ commosso, si accostò al suo cavallone, lo accarezzo sul muso, poi gli disse:

— Va’, mio bravo compagno di fatiche. Chissà che non ci ritroviamo un giorno, se gl’Indiani non ti pretenderanno. —

Poi si slanciò verso un’armatura di ferro, in forma di triangolo, alta parecchi metri e che allargava le sue estremità inferiori intorno ad un pozzo tenebroso, dove vedevasi un’ampia botte sospesa, con solide catene di ferro, ad un verricello.

— Siamo salvi!... — gridò John. — La gabbia dei minatori non è stata levata.... Amici, montate e tenete strette le catene, poichè dovremo calarci da noi. —

Harry, Giorgio, Nuvola Rossa e Minnehaha entrarono, non senza una certa impressione, nella botte oscillante nel vuoto.

[p. 108 modifica]John diede un ultimo sguardo al suo cavallo, il quale lo guardava con occhio triste, stringendosi addosso agli altri, sciolse la catena del verricello tenendola ben stretta fra le robuste mani e raggiunse i compagni, dicendo:

— Silenzio: aiutatemi o precipiteremo tutti, e la miniera è profonda. —

In quel momento gl’Indiani, schiamazzando e sparando, attraversavano l’ultimo tratto del contrafforte boscoso.