Sull'erronea attribuzione al Francia delle monete gettate al popolo
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- Questo testo fa parte della rivista Rivista italiana di numismatica 1897
SULL'ERRONEA ATTRIBUZIONE AL FRANCIA
delle monete gettate al popolo
NEL SOLENNE INGRESSO IN BOLOGNA DI GIULIO II
per la cacciata di GIO. II BENTIVOGLIO
Giuliano Della Rovere, riescito alla perfine, nel quarto conclave, dopo diciannove anni di speranze e d’intrighi a farsi eleggere pontefice, pigliando il nome di Giulio II, rivolse ogni pensiero, appena sbarazzatosi de’ nemici che l’attorniavano nella stessa Capitale, a ricuperare le città smembrate dal dominio della Chiesa, e a discacciare dall’Italia gli stranieri, o barbari, com’ei li appellava; salvo però di chiamarli egli stesso all’occorrenza per giovarsene a ridurre in atto i suoi disegni. Determinatosi di cominciar la campagna contro Perugia e Bologna, tenute in signoria da Giampaolo Baglione e da Giovanni II Bentivoglio, partì da Roma il 26 agosto del 1506, accompagnato da nove Cardinali, alla testa di soli 500 uomini d’arme. Ad Orvieto viene ad accordi col Baglione, affine di valersi di lui e de’ suoi soldati nell’impresa contro il Bentivoglio. Rassicurato lungo il viaggio della cooperazione di Luigi XII, al quale si era affrettato Giulio di conceder la facoltà da lui richiesta di disporre dei benefizi del Ducato di Milano, continua animoso la sua marcia verso la città nostra. Avuta contezza il Bentivoglio della sommessione del Baglione e della defezione del Re di Francia e degli altri antichi suoi alleati, invia ambasciatori al Pontefice, i quali non riescono a rimuoverlo menomamente dal proposito di ottenere la sottomessione assoluta di Bologna all’autorità diretta della Santa Sede, pronto ad aggiungere a tal uopo all’azione dei soldati l’effetto, non meno temuto in allora, delle armi spirituali. Il che pochi giorni appresso ei fece, lanciando da Forlì la famosa bolla, che fu chiamata una vera crociata1. In tale condizione di cose perduta il Bentivoglio ogni speranza di aiuto e di ragionevole difesa, si procacciò dal Signore di Francia un salvocondotto, e la sera del primo novembre, a ore tre di notte, al segnale di colpi di bombarde dato dai francesi mandatigli incontro dal Chaumont, viceré di Milano, uscì coi figli e molti aderenti da Porta S. Mamolo, dove trovò l’Allegre, Galeazzo Visconti e Antonmaria Pallavicino con ottocento cavalieri, che li condussero al campo francese, e d’indi a Busseto, castello del Pallavicino.
Partiti i Bentivogli, furono tosto spediti quattro oratori ad Imola, acciò facessero dedizione della città al Pontefice, e lo pregassero a levar l’interdetto, e dar ordine che le truppe francesi si allontanassero da Bologna. Intanto la Città, benché sprovvista di capo, rintuzzava con energia gli sforzi dell’esercito assediante, quando, per consiglio di un popolano, calata la saracinesca di ferro alla Grada, le acque rigurgitanti del Reno allagarono le campagne circostanti a Val di Ravone per modo, che le milizie francesi dovettero abbandonare l’assedio, e ripararsi a Castel Franco; donde, riscattate le artiglierie, si ritirarono oltre Scoltenna lasciando hbero il territorio bolognese.
Erano in questo mezzo venuti a Bologna il Cardinale Frangiotti, destinatovi a Legato, e il Cardinale di Rohans a togliere l’interdetto, e ad annunziare l’ingresso del Pontefice pel giorno di s. Martino. Il popolo, che avea già destituito l’antico magistrato de’ Sedici, e creatone un nuovo di Venti, intese con gioia quest’annunzio, posò le armi e riprese i consueti esercizi della vita, attendendo con impazienza l’arrivo del nuovo Principe. A questo fine si stavano arredando le vie, per le quali doveva passare, quantunque la piovosa stagione non concedesse di mettere in decoroso assetto, a seconda del desiderio.
Giunto il Pontefice la sera del 10 alla casa suburbana dei Crociferi, ove lasciò buona parte del suo seguito, egli con pochi famigliari a tarda ora entrò privatamente per la Porta Maggiore a prender stanza nella Commenda de’ Cavalieri Gerosolimitani, detta la Magione, sprezzando i sinistri pronostici degli astrologi, onde lo volevano dissuadere dall’entrare in quel giorno. Saputosi l’arrivo suo, un’ingente moltitudine di popolo corse ad incontrarlo e ad applaudirlo, mentre dal pubblico Palazzo e dalle torri della città il rimbombo delle artiglierie e il suono delle campane davano segnali di esultanza e di festa.
Il giorno appresso, a quattro ore prima di sera, i Venti nuovi eletti del popolo in sulla soglia della casa, ove il Papa aveva pernottato, gli presentarono le chiavi della Città, alla presenza del Vescovo di Bologna, che gli diede a baciare la croce, come di rito; quindi salito sopra la sedia gestatoria, preceduto e seguito da numerosissimo e splendido corteo, del quale facevan parte ventidue cardinali, i duchi di Mantova e di Urbino, il prefetto di Roma, gli oratori dell’Impero, di Francia, di Spagna, di Venezia, di Firenze, di Genova, ed altri molti illustri personaggi, fu portato lungo le vie che da Porta Maggiore conducono alla Cattedrale, e da questa al pubblico Palazzo, passando sotto tredici archi trionfali, alla sommità de’ quali si leggeva; — A Giulio II trionfatore de’ Tiranni. — Bologna liberata dalla Tirannide. — A ciascun lato della strada sorgevano palchi a foggia di gallerie, ne’ quali vegliardi, matrone e fanciulle stavano ad ammirare la pompa. Armi, divise, pitture, festoni e fiori pendevano dalle finestre; tappeti coprivano le vie. Cento giovinetti patrizii uniformemente vestiti di seta, aventi nella destra un bastoncello dorato, alla cui sommità era una ghianda, emblema dell’impresa gentilizia del Pontefice, stavano attorno al magnifico baldacchino di broccato d’oro, sotto il quale seduto era il Pontefice; sotto altro baldacchino di seta bianca ricamato in oro era portato il Sacramento. Una selva di stendardi, nuvoli d’incenso, ceri, inni e concerti tutto concorreva a rendere splendidissima la solennità. A settantamila persone a piedi, oltre a dodici mila a cavallo fa ascendere il numero degli astanti Paride Grassi, che diresse il cerimoniale della festa, e che ce ne ha lasciato nel suo Diario una particolareggiata relazione. Quasi a notte pervenne il corteo alla chiesa di s. Pietro, dove il Pontefice, ricevuto colle cerimonie di rito, impartì l’apostolica benedizione al popolo festante. Poscia, deposti gli abiti sacri, fu trasportato sulla sua sedia al pubblico palazzo nella piazza maggiore della città; dove al suo apparire, secondochè narra con enfatiche parole il predetto Grassi, al suono delle trombe, delle tibie e delle campane tutte della città e al rimbombo delle artiglierie pareva scindersi il cielo. In mezzo però a tanto frastuono e popolare tripudio, confuso tra la folla stava silenzioso un uomo in abito ecclesiastico, di aspetto grave e ammalaticcio, che più tardi doveva esser chiamato l’astro della Germania, il quale paragonando questo trionfo del Vicario di Cristo colla maestà degh Apostoli, che evangelizzarono il mondo, preferiva la grandezza di quelli al trionfale spettacolo, al quale egli assisteva, non senza mestizia2.
Per rendere più fastosa e lungamente memorabile la solennità del suo trionfo pensò Giulio a far coniare speciali monete d’oro e d’argento con leggende allusive all’avvenimento. Nei tempi antichi v’era certamente una regola determinata per la distinzione dell’uso dei due metalli in siffatte largizioni principesche. È Giustiniano istesso, che ce lo attesta nella centesima-quinta delle sue Novelle3: " Al solo imperatore spetta il privilegio di sparger l’oro sul popolo, imperocché a lui solo concede sprezzarlo l’apice della fortuna; ai consoli poi è dicevole poter far uso dell’argento, che è ciò vi è di più prezioso dopo l’oro „. Anche a’ tempi de’ Carolingi perdurava siffatta distinzione; perocché, avendo Clodoveo, a pompa della sua proclamazione, come patrizio e console, fatto gettare al popolo monete d’oro4, un tale atto fu riguardato come una vera usurpazione dei privilegi imperiali. Quanto ai Papi, si ha memoria fino da Celestino II, eletto pontefice nel 1143, di limosine fatte distribuire da lui, quando dalla Basilica Vaticana si recava alla Lateranense a pigliare possesso; nella qual circostanza si faceva getto di monete in cinque luoghi determinati. Nelle descrizioni di possessi posteriori si legge che il Maresciallo della Curia, chiamato Soldano, cavalcava dietro il magistrato romano, avente ai lati della sella due sacchi di monete, carlini, baiocchi e quattrini, e ne faceva getto a Monte Giordano, presso s. Marco, vicino a s. Adriano e altrove, e segnatamente per allontanare la folla dalla persona del Pontefice. E, per accostarsi a tempi pili vicini a quelli di Giulio, togliamo dalla descrizione dell’incoronazione di Innocenzo VIII, dataci dal Burchard i seguenti tratti: Recedente Pontifice de platea s. Petri, Soldanus fecit tres iactus pecuniarum populo, ut Papa liberius procedere posset .... e più oltre: Soldanus iterum iactus pecuniarum faciebat. Idem fecit in Monte Jordano, apud s. Marcum, ad s. Adrianum, et alibi, ubi populi oppressionem videbat: strano modo per verità di far larga la strada al Pontefice dalla folla; parrebbe invece che la si avesse a serrarvisi attorno più spesso, per provocare una gettata di monete. Pervenuto il Pontefice all’altar maggiore, prosegue il Burchard, ascendit ad sedem eminentem marmoream in tribuna solita paratam. . . . Quo sic sedente, Cardinales omnes eum honorifice elevarunt dicentes: Suscitat de pulvere egenum, et de stercore erigit pauperem, ut sedeat cum principibus, et solium gloriae teneat. Quo facto, Pontifex accepit de gremio d. Falconis thesaurarii sui tres pugillatas quatrenorum et denariorum minutorum successive, et inter populum proiecit, dicens: argentum et aurum non est mihi, quod autem habeo hoc tibi do.
Tutt’altro carattere adunque avea la suntuosa largizione di Giulio, la quale anzi faceva manifesto contrasto con quelle prescritte dal cerimoniale dell’incoronazione e del possesso. Egli intese più tosto con tale atto di munificenza e liberalità ad ingraziarsi il popolo, come al medesimo fine non indugiò nei giorni appresso a sospendere dazii e gabelle, a diminuire i prezzi delle carni, del vino e d’altri generi.
Le monete gettate al popolo dal Datario di Giulio sono le due riportate nella Tav. I ai n, 2 e 3; l’una in oro del valore di un ducato, del peso di grammi 3,40, l’altra in argento del valore di un bolognino e del peso di gr. 1.30; l’una e l’altra avente nel diritto l’arme del Pontefice sormontata dal triregno e dalle chiavi decussate, e la leggenda: IVLIVS · II · PONT · MAX., e nel rovescio BON · P · IVL . A · TIRANO · LIBERAT’ (Bononia per Julium a tyranno liberata) colla figura in piedi di s. Pietro, che tiene le chiavi nella d. e il libro nella s. Il Cinagli5, oltre le indicate due monete, riporta eziandio il mezzo grosso, colle stesse leggende e cogli stessi tipi, se non che la figura di s. Pietro è detta seduta, anziché in piedi. Non so indurmi veramente a prestar fede all’esistenza di questa moneta, stantechè il cerimoniere Paride Grassi, che le fece coniare, siccome vedremo, non parla nel suo Diario che di due sole, de utroque numismate; tuttavolta per accertarmi dell’indicata varietà di tipo e del peso, se veramente rispondente a un mezzo grosso, non ho omesso di fare reiterate ricerche per conoscere in quali mani era trapassata detta monetuccia dalla raccolta Briganti-Bellini di Osimo, dove si trovava a’ tempi del Cinagli; ma finora non mi è riuscito di scoprirne notizia; laonde sarei oltremodo grato al fortunato possessore di essa, se mi fosse cortese dei desiderati ragguagli.
Quanti hanno parlato di queste monete, e biografi del Francia, e scrittori d’arte e numismatici insigni, tutti ad una voce ripetono che sono desse opera del Francia; e ciò sulla fede del Vasari, che primo diffuse questa notizia nella vita di lui. Ecco le sue parole: " Tenne continuamente mentre che e’ visse la Zecca di Bologna: et fece le stampe di tutti i conij per quella, nel tempo che i Bentivogli reggevano; et poi che se n’andarono, ancora mentre che visse Papa Julio, come ne rendono chiarezza le monete che il Papa gittò nella entrata sua; dove era da una banda la sua testa naturale e dall’altra queste lettere: Bononia per Julium a tyranno liberata. Et fu talmente tenuto eccellente in questo mestiere, che durò a far le stampe delle monete fino al tempo del Papa Leone „.
Questo passo è uno de’ più errati dello storico aretino; posciachè inesatta, come vedremo, è l’asserzione che il Francia tenesse continuamente mentre ch’ei visse la Zecca di Bologna; non consentanea al vero, siccome dimostrerò, l’attribuzione al medesimo delle monete gittate al popolo nell’entrata in Bologna di Giulio II; ed è manifestamente sbagliata la descrizione di esse. Quest’ultimo granchio preso dal Vasari fu avvertito, nè poteva non esserlo, dal Cavedoni6, dal Giordani7, e ultimamente dal Friedlaender8, senza però che si dessero cura i medesimi d’indagare dond’era provenuto l’avvertito errore; il quale innanzi a loro avea indotto il Cicognara9 a niegare perfino l’esistenza delle monete con la leggenda allusiva alla cacciata del Bentivoglio, riferendo invece ad essa circostanza la medaglia di Giulio II col motto: Cantra stimulum ne calcitres. Ma di questa avrò a fare parola più avanti. Intanto torna in acconcio ricordare che fino dall’anno 1857 in un articolo, che pubblicai sulla nostra Zecca, avvertii per la prima volta l’erronea attribuzione fatta dal Vasari al Francia delle monete in discorso, e mi riserbai di addurne le prove, allorchè avessi avuto a mia disposizione il bolognino d’argento, già della collezione Schiassi, ora pervenuto al nostro Museo Civico, per riportarne il disegno a maggior dimostrazione del mio assunto. Più tardi nel 1869, richiesto in proposito dal sig. cav. Morbio, gliene significai sommariamente le principali in una lettera, ch’egli rese di pubblica ragione nel suo libro: Opere storico-numismatiche a pag. 84. Ciononostante anche nella nuova edizione del Vasari gli si è menata buona questa erronea attribuzione, cui ripetè puranco l’illustre Armand nell’opera sua: Les Médailleurs italiens. Tom. I, pag. 104, n. 510. Nè è a maravigliarsene: gli errori, quanto più autorevole è lo scrittore che li divulga, e più lungo il tempo dacché han messo radice, altrettanto è più malagevole lo sradicarli interamente.
Che il Francia non fosse addetto all’officina della zecca all’epoca dell’ingresso di Giulio, e meno poi che la tenesse continuamente, come dice il Vasari, parmi si abbia ad arguirlo dalla seguente deliberazione del Senato bolognese, che leggesi nel Vol. XIII Partitorum, in data 19 novembre del 1508: Item per decem et novem fabas albas et sex nigras obtentum fuit, quod solvantur de pecuniis extraordinariis Camerae magistro Francisco Franciae aurifici ducati quinquaginta auri pro mercede sua duarum stamparum sculptarum cum imagine sanctissimi D. N. et insignibus Communis Bononiae pro cudendis monetis novis, et pro mercede quarumcumque aliarum stamparum, quae conficiendae forent pro Cecha predicta; ad quas omnes faciendas teneatur et obligatus sit, prout sic ipse facere promittit: quae pecuniae deinde exigantur ac repetantur per ipsam Cameram a magistro Cecchae, qui ad impensam confectionis stamparum ipsius Cecchae tenetur et obbligatus est. Il tenore di questa deliberazione prova, a mio avviso, che il Francia fu allora eletto a incisore della nostra Zecca. E di vero, s’egli fosse stato coniatore in essa anche per l’innanzi, qual ragione vi sarebbe stata di stabilirgli uno stipendio sui fondi straordinarii della Camera, e sottometterne a scrutinio nel 1508 l’elezione di lui a siffatto incarico?
Ciò posto, se il Francia non era coniatore nella Zecca all’atto della venuta in Bologna di Giulio II, si rende vieppiù improbabile ch’egli così devoto al Bentivoglio e da lui cotanto riamato e protetto pigliasse incarico, non costretto per debito di ufficio, di condur opera, che tornava a perpetuo disdoro del suo mecenate, e quando le sorti di lui negli animi de’ suoi aderenti non dovevano essere per anco totalmente diffidate. E vieppiù improbabile ancora si rende l’ammettere in lui una tale riprovevole condotta dietro le testimonianze, che ci hanno tramandato della sua bontà scrittori contemporanei. Burzio nella Bononia perlustrata11 infra le doti dell’animo, che gli appropria, gli dà pregio eziandio di costanza di carattere; e Bartolomeo Bianchini nella vita di Codro lo chiama " amore e delizia nostra, artefice di specchiata virtù, cui tutti amano e ammirano e come nume adorano „12. E qui è veramente a dolersi che sia ora smarrito o perduto il registro, che teneva il Francia delle proprie memorie, nel quale non potevano mancare tratti, donde tralucesse l’immagine dell’animo suo. La sola annotazione, a mo’ d’esempio, della partenza dal suo studio del discepolo Timoteo Viti, ricordata dal Malvasia:13 — 1495 adì 4 aprile, partito il mio caro Timoteo, che Dio le dia ogni bene e fortuna — non ci rivela tutta la soavità del suo animo? Soavità che traspare eziandio in ogni opera del suo pennello e in quelle care imagini, di cui il Sanzio in una lettera a lui diretta gli scriveva " non vederne da nessun altro più belle e più divote e ben fatte „14. E di quanto affetto e di quanta estimazione non lo ricambia l’Urbinate in detta lettera; della quale piacemi riferire le ultime parole, porgendomi esse argomento ad un’osservazione in conferma del mio assunto. " Fatevi animo, gli scrive Raffaello, valetevi della vostra solita prudenza, et assicuratevi che sento le vostre afflizioni come mie proprie. Seguite ad amarmi come io vi amo di tutto cuore „. Dove non credo arrischiata la supposizione che il Sanzio lo conforti a tollerare le dispiacenze derivategli dalla perdita del suo mecenate e conseguentemente dal mutato ordine di cose e per parte dei nuovi Signori; di che rende indubitata testimonianza anche il ricordato squitinio per la sua elezione a coniatore della Zecca; nella quale circostanza sei dei nuovi reggitori, messa in non cale la molta valentia del Francia, non seppero tenersi dal manifestargli nell’urna la loro avversione per la passata divozione al Bentivoglio.
Appresso le addotte testimonianze contemporanee riesce non poco spiacente che patrii scrittori, giurando ciecamente sulla fede del biografo aretino, gli rinfaccino " di non aver avuto rossore di lavorare nella Zecca a contumelia del Bentivoglio, di colui che solo valse a farlo grande, che gli allogò lavori di cesello, e niello, di dipintura a gran numero, che gli fu protettor munifico, e del quale esistono pur anche i frutti della protezione principesca, onde volle favorirlo. Per certo Michelangelo non avrebbe operato così „15. Con parole meno dure ricorda questo fatto altro scrittore16, il quale anzi, per attenuarne la sinistra impressione, finisce coll’ascriverglielo a virtij. Né di minore contraddizione dà prova lo stesso Vasari, il quale, dopo aver esposto il Francia a immeritati rimproveri, designandolo capace di tanta ingratitudine verso il suo principale benefattore, poche righe appresso dichiara che " egli ebbe grandissimo dolore de la partita di messer Giovanni Bentivogli, perchè havendogli fatti tanti benefizj gli dolse infinitamente. „
Ma proseguendo le nostre osservazioni, noterò ancora essere inverosimile che il Francia potesse eseguire quattro conii in meno di otto giorni, quanti ne trascorsero dalla partenza del Bentivoglio all’entrata del Pontefice, non computato il tempo occorrente alla battitura delle monete. Molto più consentaneo al vero si è che i conii già preparati portasse seco qualche ufficiale della Corte, o se furono lavorati nella nostra Zecca, siccome narra Alamanno Bianchetti nella sua Cronaca di Bologna mss. a pag. 800, si valessero in parte di punzoni già esistenti; asserzione non destituita di fondamento, se si confrontano attentamente le figure di s. Pietro delle monete di Giulio con quella del ducato del suo predecessore, che ho riportato appositamente al n. 1 della tavola.
Altro argomento contro l’asserzione del Vasari vuolsi trarre indirettamente dalle seguenti parole del cerimoniere Paride Grassi, al quale il Pontefice avea dato incarico di far coniare le monete in discorso: Inde me petiit quantum pecuniarum populo projiciendarum conflari iussissem: Respondi ego ob vias longas a mansione ad cathedralem Ecclesiam, ad quam primo eundum erat, et demum inde ad Palatium maius pro sua Sanctitate paratum, propterea meo quidem iudicio non sufficere ducatos mille tani ex auro quam moneta itaque statuit ut de utroque numismate tria millia, quae consignavit illa die inter popidum dispergenda d. Joanni Gozzadino bononiensi, qui tunc erat Clericus fiscalis, et Datarius apostolicus. Fra tanti particolari nulla ci dice il Grassi dell’incisore di esse, cui non avrebbe omesso d’indicare, a mio avviso, se questi fosse stato il rinomatissimo Francia. Per la qual cosa, se il silenzio di lui su tale proposito, riesce agli altri così eloquente, come si pare a me, chiunque ben vede quanta maggior fede si meriti il Grassi, che scriveva di cosa, di cui ei fu sì gran parte; di quello che il Vasari il quale racconta un fatto, per tempo e per luogo, alquanto da lui discosto, e di cui era assai male informato, siccome egli stesso ne ha pòrto testimonianza manifesta nell’errata descrizione delle monete, asserendo che da una banda era la testa naturale di Giulio, e dall’altra la leggenda: Bononia per Julium a tyranno liberata; di che mostra non averle mai vedute, e di aver confuso in una due distinte specie di monete: quelle cioè eseguite dal Francia tra il finire del 1508 e il 1509 (v. Tav. I, n. 4 e 5), le quali hanno appunto l’effigie di Giulio II, appiccicando ad esse il rovescio delle altre gittate al popolo nel 1506 (Tav. I, n. 2 e 3).
Resterebbe ora a determinare il numero di ciascuna specie di dette monete, se l’espressione de utroque numismate non lasciasse incerto se il valore dei tre mila ducati fu ripartito fra le due specie in parti uguali, come parrebbe aversi ad argomentare dall’inciso precedente mille ducatos tam ex auro quam moneta. Ciò ammesso, il numero delle monete in oro sarebbe stato di 1500, e di oltre 42,000 quelle in argento.
Finalmente altro anche più convincente argomento contro l’asserzione del Vasari si ritrae dal confronto del lavoro delle due monete colla leggenda: Bononia per Julium. etc. colle altre riportate ai n. 4 e 5, che sono veramente opera del Francia, rispondendo esse alla descrizione delle stampe commessegli nella deliberazione del Senato del 19 novembre 1508. Basta avere l’occhio mezzanamente educato al sentimento dell’arte per convincersi della notevole disparità di lavoro che passa fra le une e le altre. Nelle prime la figura del Santo, il partito delle pieghe, la forma delle lettere, ogni parte è lavorata mediocremente; laddove nelle due ultime per lo contrario tutto è con sommo magistero condotto: e la faccia di Giulio piena di espressione, la figura del Santo bellamente atteggiata, la testina finissimamente incisa, bello e naturale il piegheggiare delle vesti, elegante la forma delle lettere. Cotalchè reca veramente sorpresa che tanta disuguaglianza di lavoro non sia stata per innanzi avvertita; dove non credo andar lungi dal vero, ritenendo che la somma rarità delle monete in discorso, e segnatamente del bolognino, avendo impedito la facilità del confronto, abbia contribuito a prolungare l’erronea attribuzione, che ho preso a ribattere.
Pertanto se il Morbio alla sommaria indicazione delle sposte ragioni disse: " aver io provato a tutta evidenza che il famoso zecchino colla leggenda Bononia per Julium, etc. non è lavoro di quel grande artista „17, ora che alle medesime, più ampiamente dichiarate, ho aggiunto e pôrto modo nell’unita tavola di poter quasi toccar con mano l’erroneità dell’asserzione del biografo aretino, giova sperare di vederla in appresso generalmente rigettata; e di tal modo adempiuto il voto del Breton, laddove, nel suo articolo biografico del Raibolini, parla delle medaglie ch’egli lavorò: "La plus célèbre, egli dice, est celle qu’il grava par ordre de Jules II après l’expulsion des Bentivoglio, avec cette légende: Contra stimulum ne calcitres. On regrette de voir le Francia avoir consacré ainsi son talent à immortaliser l’infortune de ses bienfaiteurs, et nous voudrions, pour son honneur, pouvoir regarder comme apocryphe une autre médaille (leggi monnaie) fort louée par Vasari, qui prétend que, faite à la méme occasion, elle portait la legende: Bononia per Julium a tyranno liberata „18. La medaglia superiormente accennata è la bellissima rappresentante la caduta di Saulo, cui reputa il Breton coniata dal Francia per l’espulsione del Bentivoglio, come prima di lui avea opinato il Cicognara19, forse entrambi tratti in inganno dal Venuti20, il quale per convalidare siffatta opinione non si era peritato di valersi di false asserzioni: quali sono che la medaglia in discorso (mancante affatto di millesimo) riporti segnato l’anno MDVI, e l’allegare su ciò la testimonianza del Bonanni21, il quale per lo contrario segue il Luckius22, che la ritiene coniata nel 1511 e allusiva alla guerra fra Giulio II e Alfonso duca di Ferrara, al qual parere s’attenne pure il Molinet23. Che se l’illustre Friedlaender24 nella stupenda opera sui Medaglioni italiani non ha osato proferir giudizio circa l’artefice di questa medaglia, stante l’incertezza del soggetto, ha però recisamente rigettato l’opinione messa innanzi dal Cicognara e poscia dal Breton di attribuirla al Raibolini per la cacciata del Bentivoglio, adducendo ad argomento la stessa eccellenza del lavoro, la quale rende affatto improbabile che la possa essere fattura di pochi giorni. E con ciò parmi bastantemente comprovata l’insussistenza anche di questo altro capo di accusa apposto al nostro Francia.
Altra erronea opinione sul conto del medesimo era stata messa fuori anni sono da un dotto bibliografo25, l’autorità del cui nome avea procacciato alla medesima, comechè combattuta, una certa consistenza. Sosteneva questi che Francesco da Bologna, intaghatore de’ caratteri di Aldo, non altri fosse che Francesco Raibolini, volgarmente " il Francia „, il quale stabilita una stamperia a Bologna pubblicò in sul finire dell’anno 1516 e nel gennaio del 1517 sei preziosi volumetti26, stampati ad imitazione di quelli di Alessandro Paganino. Non ha guari però altro bibliografo, Adamo Rossi, pose fine alla questione, dando ragione ai discrepanti dalla prevalsa credenza, mercè la scoperta da lui fatta nell’Archivio di Perugia di un documento, dal quale risulta essere Francesco da Bologna della famiglia Griffi. Così venisse dato che valente scrittore, pigliando a materia di accurato studio la vita, le opere e la scuola di quest’illustre Maestro, ci desse un lavoro storico degno di lui; il quale, se non fu il primo uomo di quel secolo, come, a detta del Malvasia27, era stato tenuto a’ suoi tempi, fu senza dubbio il più grande artista di cesello, di niello e di pittura, che abbia avuto la patria nostra „.
RIVISTA ITALIANA DI NUMISMATICA
Anno X, 1897. | Tav. I. |
Note
- ↑ Vedila riportata nelle Memorie pubblicate per la vita di Giovanni II Bentivoglio, del Conte Gio. Gozzadini. Bologna 1839, in-8. Doc. LXXXIV.
- ↑ Ex occasione loci, qui est in Ad. Cap. V, confero triumphos, quos me spedante Julius II egit Bononiae primum, post Romae, cum majestate Apostolorum, qui codesti dodrina converterent orbent, qui sic miraculis florerent, ut umbra sola sanarentur aegroti, et hanc magnificientiam Apostolicam praefero triumphis illis, in quos ipsos tamen nihil scribo contumeliose, iametsi, ut ingenue dicam, tum spedabam, non sine tacito gemitu. Erasmi Des. Op. omn. T, IX, col. 361.
- ↑ Soli enim aurum spargere damus imperio, cui soli etiam aurum contemnere praestat fortunae fastigium; argentum vero, quod mox post aurum pretiosissimum fiet, et aliis consulibus largimur decens; et haec sinimus eos spargere in his, quae vocantur missilia, etc.
- ↑ Greg. Turon, Hist. Franc. II. 38.
- ↑ Le Monete de’ Papi. Fermo 1848, in-fol., pag. 74, n. 65.
- ↑ Mem. di relig., di mor. etc, Tom. XII, pag. 73.
- ↑ Almanacco statist. Bologn., anno XII, pag. 271.
- ↑ Die Italienischen Schaumünzen etc, pag. 174.
- ↑ Stor. della Scul. ediz. di Prato, Tom. V, pag. 426.
- ↑ Questi però, avuta contezza della mia Memoria sulle Monete in discorso, rettificò nel tomo III, pag. 30, n. 5 dell’opera sopra indicata la precedente aggiudicazione colle seguenti parole: Après les monnaies de Bentivoglio, l’ordre chronologique amènerait, dans la liste des ouvrages de Francia, les monnaies de Iules II. Les premières en date seraient le ducat d’or et le bolognino d’argent jetés au peuple lors de l’entrée du Pape à Bologne en 1506. Au dire de Vasari, ces pieces étaient l’ouvrage de Francia. M. le docteur Luigi Frati, le savant directeur du Museo civico de Bologne, à qui nous devons de précieuses Communications, a démontré d’une manière qui nous semble irréfutable que ces monnaies ne pouvaient appartenir à Francia. On ne pourrait, au reste, y reconnaître la main de ce grand artiste, ni sur le droit de ces pièces avec les armoiries de Iules II provenant de la monnaie romaine, ni sur le revers orné d’une figure de saint Pierre empruntée à une monnaie d’Alexandre VI. La pièce décrite au n. 5 de l’oeuvre de Francia y a donc été placée à tort, et doit être rejetée parmi les ouvrages des médailleurs anonymes du premier quart du seizième siècle. Par contre, il faut rendre au Francia les monnaies suivantes, ecc. quelle cioè da me riportate ai nn. 4 e 5 della tavola.
- ↑ Ex me etiam Fabri: Aurifices: Sculptores: atque Pictores nominandissimi, inter quos unus omnium est mihi clarissimus Franciscus Francia noncupatus.... Hic profecto ingeniosus: affabilis: decorus: et gravitate morum exornatus.
- ↑ Huius vero effigiem oris, vultusque et lineamenta corporis mire expressit in aedibus Bentivolorum amor et delitiae nostrae Francia spectatae virtutis artifex, cuius unicum ingenium fastigium pariter omnes et amant et admirantur, et tamquam numen adorant.
- ↑ Fels. pittr., Bologna. 1678, I, pag. 55.
- ↑ Malvasia, Op. cit., Tom. I, pag. 45.
- ↑ Muzzi, Ann. di Bologna, T. V., pag. 510.
- ↑ Giordani Gaet., nell’Almanacco statist. bolog. Anno XII, pag. 274. " Queste monete erano opera di conio del famoso Francesco Francia, orefice, niellatore e pittore di Bologna; il quale sebbene fosse famigliare dello scacciato ed infelice Bentivoglio, e ben d’onde avesse per compiangere la disgraziata sorte di un Signore, che tanto lo avea amato e beneficato e tenuto in pregio per varie opere d’arti a commissione di lui condotte, nondimeno il Francia, saggio qual egli era, seppe prudentemente nascondere suo cordoglio, e sofferse anco di formare i conii. per la nuova moneta (essendo egli mastro o capo della Zecca bolognese) „. Non sappiamo per verità donde il Giordani abbia tratto quest’ultima notizia, che il Francia fosse a capo della Zecca, la quale anzi è recisamente contraddetta dalle parole dall’allegata deliberazione del Senato.
- ↑ Opere storico-numismatiche, pag. 340.
- ↑ Nouv. Biog. génér., tom. XLI, col. 483.
- ↑ Stor. della Scult., ediz., cit., tom. V, pag. 426.
- ↑ Numism. Rem. Pont., Romae, 1744, in-4, pag. 50.
- ↑ Numism. Pont. Rom., Romae, 1699, in-fol., pag. 146.
- ↑ Syll. Numism. elegant, Argentor, 1620, in-fol., pag. 21.
- ↑ Hist. Summ. Pont, per eorum numism., Lutet., 1679, in-fol., p. 32.
- ↑ Die Italienischen Schaumünzen, Berlin, 1882, in-4, pag. 174.
- ↑ Panizzi Ant., Chi era Francesco da Bologna? Londra, 1858, in-8.
- ↑ Sono dessi i seguenti: Il Canzoniere del Petrarca (20 settembre 1516); — L’Arcadia del Sannazaro (3 ottobre); — gli Asolani del Bembo (30 ottobre); — il Corbaccio del Boccaccio (9 dicembre); — le Lettere famigliari di Cicerone (20 dicembre); — e Valerio Massimo (24 gennaio 1517).
- ↑ Fels. pittr., ed. cit. T. I, pag. 48.