Storia di Torino (vol 1)/Libro VI/Capo I
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Libro Sesto
Capo Primo
Imperocché era povero per gli strazi guerreschi, con poca o niuna industria, da generai laidezza di costumi contaminato, qua e colà macchiato d’eresia, diviso in partiti, gli uni essendo inclinati a Spagna, gli altri a Francia; e molti de’ più notabili ed in fluenti tenendo onori o pensioni dall’una o dall’altra corona.
A questa generale dissoluzione richiedevansi validi rimedii. Gran senno, grande autorità, grande energia e perseveranza di volontà aver dovea chi intraprendesse a riunire varii popoli in uno Stato, a renderlo nell’interno ordinato e tranquillo, a fortificarlo pel caso di nuova guerra contro agli esterni nemici. Fortunatamente bastava a tanta mole il senno e l’animo d’Emmanuele Filiberto.
Egli era inclinato ai governi stretti, sia per indole propria, sia per la qualità di capitano, e di capitano vittorioso, sia perchè uscito dalla scuola di Carlo Quinto, sia perchè conosceva non essere a quella corruttela altro rimedio, che l’uso moderato e sapiente dell’autorità dittatoria.
Prodigioso, piuttostochè raro, è il successo che ottenne in circa vent’anni di regno, adoperando l’autorità, la preponderanza del proprio senno, raramente la minaccia, non mai la violenza, nè l’acerbità, che sarebbero tristi modi a far il bene. Riformò i costumi, provvide di religiosi educatori la gioventù, represse l’eresia, sicché non diffondesse più largamente il suo veleno; rinnovò l’università, ed egregi lettori vi chiamava da tutta Italia; fondò una pubblica biblioteca, dove, come in un teatro di tutte le scienze, trovasse dégno pascolo la curiosità degli studiosi; a Torino, a Mondovì, a Borgo in Bressa, a Vercelli alzò cittadelle, adoperandovi e la scienza propria (chè molta n’avea in tal fatto), e quella di Francesco Pacciotto e di Ferrante Vitelli. Creò un esercito permanente nazionale di 12(?)m. uomini, e chiari capitani deputò a comandarlo, e del paese e forestieri; creò ancora quindici compagnie di cavalli. Riformò la moneta, della quale tanto si era abusato, e mantenne severamente la pubblica fede. Nuovi ordini pubblicò in materia civile e criminale, esempi di specchiata prudenza. Ai donativi, chiesti volta per volta, sostituì il tasso ed altre gravezze, e con lunghe e sagaci negoziazioni persuase i principali comuni a consentire senza opposizione, mostrando chiaramente come tutto s’impiegasse a beneficio del paese il provento dell’erario ducale. Introdusse l’industria della seta, gran quantità d’arti meccaniche, massime le più utili; del fondere e gittar cannoni e altri stromenti da guerra egli stesso si dilettava, come dello stillar acque ed olii, e d’altre operazioni di chimica.
Della storia grandemente si dilettava; e sebbene parlasse e scrivesse perfettamente lo spagnuolo ed il francese, che era l’antica lingua di sua casa, pure, sapendo d’essere principe italiano, di quella si valea continuamente, usando una buonissima lingua comune cortigiana.1
Infine, perchè ninna gloria mancasse al suo regno, fe’ cercare a Roma ed altrove statue antiche, ed altre mirabili prove dell’arte, e così cominciò ad assuefare gli occhi de’ sudditi alle forme archetipe del bello.
In quella universal riforma dello Stato, non s’abolivano, ma tacevano i privilegi de’ comuni, non tutti, ma quelli solamente che avrebber fatto contrasto all’interesse generale.
Verso la città di Torino dimostra vasi Emmanuele Filiberto, come tutti i suoi predecessori, molto propenso. Era essa ancora sotto al dominio francese nel 1559, quando spedivagli a Nizza ambasciadori, per congratularsi con sua altezza, per raccomandarsi a quella, e per chiederle confermazione de’ suoi privilegi.
Il duca rescrivea benignamente, differendo la confermazione a miglior tempo, aspettando cioè d’essere reintegrato nel dominio della città, che, secondo i patti, doveva ancora rimanere in man dei Francesi.2
Ma il 6 maggio 1564 il duca, rescrivendo sopra un memoriale a capi statogli rassegnato dalla città, concedeva che niuno fosse esente dagli alloggiamenti, circoscrivendo per altro questo grave carico in modo, che nè le guardie, nè gli ufficiali di corte commettessero abuso nel valersi di quel beneficio, che per le guardie e gli ufficiali di bassa condizione era gratuito, per gli altri no, dovendosi pagar la pigione, secondo la tassa che ne facevano i deputati del comune.
I forieri usavano segnare gli alloggi che loro piacevano, e lasciavano poi all’arbitrio, sovente poco discreto, del gentiluomo, di ritenersi quella porzione della casa che meglio piacevagli; Emmanuele Filiberto cessò questo intollerabile aggravio, causa di gravi disordini, perchè in molti casi non rimaneva al padrone sito in cui ritrarsi, e volle che non si segnasse l’alloggio, senza l’intervento d’un deputato della città, protestando il duca d’aver sempre desiderato e desiderare che li abitanti di questa sua fidelissima città sieno rilevati da ogni fastidio et danno.
Con nuove supplicazioni e con lagrimose querele, non molti giorni dopo, volgevasi al duca la città di Torino, dimostrando esser aggravata di debiti infiniti, aver mestiere di poter crescere le gabelle, onde pagare, come desiderava, al duca cinquemila scudi d’oro del sole, annuali, per anni sette, siccome faceva il resto del paese. Chiedeva la confermazione de’ privilegi, statuti, libertà, immunità, che godeva ab antico: si restituisse a Torino l’università; vi si stabilisse la camera ducale. Emmanuele Filiberto, con rescritto del 18 maggio, provvide su queste domande, e, per la massima parte, favorevolmente, concedendo confermazione de’ privilegi, mandando spedir lettere patenti che stabilissero il magistrato della camera ducale a Torino, promettendo che fra tre mesi il senato darebbe sentenza intorno alla causa ventilala fra la città di Mondovì e quella di Torino, intorno allo studio, e che fra un anno sarebbe eseguita. Due anni dopo tuttavia la sentenza non era data, lo studio rimaneva a Mondovì, gli abusi degli alloggiamenti non erano del tutto cessati. La città strigneva il duca con nuove preghiere, e col dono di quattromila scudi, a provvedere perch’essa riavesse lo studio, promettendo inoltre mille scudi annui in aumento de’ stipendii de’ lettori; ricordando al duca, che conoscendo egli, essere la sua città di Torino singolare nella sua fedeltà, metropoli del suo principato, sua camera, sua fortezza, conveniva gli fosse altresì la più cara.
Rispondeva il duca: farebbe decider la causa dello studio. Venendo aggiudicato alla città di Torino, fa rebbe eseguir la sentenza. Chiedeva ancora la città: fossero i Torinesi preferiti per le letture dello studio, essendovi qui uomini a ciò sufficienti. A queste e ad altre simili domande differiva Emmanuele Filiberto di provvedere, finché fosse seguita la restituzione dello studio. Comandava, circa alle lagnanze rinnovate intorno agli alloggiamenti, s’osservassero gli ordini da lui fatti, onde impedir gli abusi.3
Di quell’anno medesimo lo studio fu per sentenza restituito alla città di Torino; e addì 17 novembre del 1567 il duca su novello memoriale della città dichiarava che, concorrendo merito di egual dottrina, preferirebbe sempre per le letture dello studio i Torinesi. Promessa illusoria, perchè chi sarebbe giudice della dottrina?
A’ 2 luglio del 1569, su novelle rimostranze della città, desiderosa di migliorar la forma degli edilìzi, de’ quali fino a quel tempo non s’erano i Torinesi mostrati molto solleciti, consentiva Emmanuele Filiberto ad invitare i padroni di casa a venderle a chi volesse fare un maggior edilizio; e lagnandosi la città, che il capitano di giustizia turbasse la giurisdizione del vicario, dichiarò nullo quanto si facesse contra gli ordini politici ed i decreti del vicario; essendoché al giudice spettava l’ordinaria giurisdizione, al vicario ed al suo assessore la prima appellazione, e la politica della città.
Mancò di vita questo gran principe in età d’anni 52, addì 30 d’agosto del 1580.
Nella ristaurazione della monarchia, fatta da Emmanuele Filiberto, creandosi interessi generali in luogo di tanti interessi locali, naufragarono necessariamente molte ragioni private. Chi ripon sua speranza e sua salvezza in un privilegio che sceveri lui con pochi da tutti gli altri, e lo mantenga in condizione isolata ed eccezionale, avrà considerato quelle riforme come violenza, l’obblio di patti antichi e solenni come un’oppressione; tanto più che la forte volontà d’Emmanuele Filiberto camminava veloce verso il grande suo scopo, senza guardare ai minuti ostacoli, come quel medico, il quale, volendo guarire un corpo corrotto, e già quasi incancrenito, non attende al dolore, ed alla perturbazion momentanea che il rimedio cagiona, e mira soltanto al risultamento finale. Ed è questo risultamento nella riforma total dello Stato, che più ancora delle vinte battaglie fa comparir grande a’ miei occhi Emmanuele Filiberto.
In così fatta rinnovazione d’ogni civile instituto, la città di Torino patì minori mutazioni d’ogni altra. Imperocché conservò, e conserva non solo il privilegio d’eleggere il vicario, i sindaci ed i consiglieri, ma quello ben più raro d’amministrarsi da se medesima, senza intervento d’alcun ufficiale regio; nel che ha proceduto e procede con misura, e con generosità.
Nel secolo xvii pigliarono i consiglieri il titolo di decurioni; al quale alcuna volta aggiungevano quello di conti di Grugliasco.
Note
- ↑ [p. 449 modifica]Vedi le Relazioni degli ambasciadori veneti, Giovanni Correr,1566, Francesco Morosino, 1570. — Sigismondo Cavalli, altro ambasciador veneto alla corte di Savoia, dicea di lui (1563): « Ascolta quelli che lo consigliano, ma risolve poi da sè ogni cosa quasi: perchè lui reputa, e in verità così è, che il suo intelletto è il miglior consigliere che abbia. »
- ↑ [p. 449 modifica]Biglietto dato da Nizza il 20 dicembre 1559.
- ↑ [p. 449 modifica]Memoriale a capi, e rescritto del 12 maggio 1566.