Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro settimo/Capo sesto
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CAPO SESTO
(Dall’anno 1693 al 1722.)
I. Terremoti. Voti pubblici. I sindaci Filippo Furnari, Paolo Ferrante, e Giuseppe Musco. Seta ecclesiastica. Morte di Carlo II. Guerra della successione di Spagna. Sedizione in Napoli. Gli Austriaci in Napoli. Il General Giovanni Carafa in Reggio. II. Gli Austriaci in Reggio. Antonino Abenavoli, e Michele Rota. Pratiche per restituire Reggio agli Spagnuoli. La trama è scoperta; sue conseguenze. III. Pace di Utrech. Nuova rottura. Affari di Sicilia. La Quadruplice Alleanza. Gli Spagnuoli occupano Messina. Il General conte di Mercy in Reggio; effettua uno sbarco in Sicilia. Messina è ritolta alla Spagna. Gli Spagnuoli abbandonano la Sicilia. IV. Tumulto popolare in Reggio. È sedato dal barone di Pretewitz, comandante della Piazza. Persecuzioni. Il consiglier Carlo Carmignano. I sindaci Candeloro Battaglia, Saverio Musitano, e Paolo Morisano. Buoni uffici del Carmignano a favore de’ popolani. V. Quistioni dell’abilitazione. Intrighi del Carmignano. Fa chiudere in castello i Deputati Domenico del Giudice, Francesco Ferrante, e Carlo Plutino. Ricorsi al Vicerè. Nuove abilitazioni.
I. L’anno 1693 terribili terremoti conquassarono la Calabria, e più la Sicilia; dove la nobil città di Catania rimaneva interamente atterrata. Di questo flagello Reggio ebbe un terrore indicibile; ma pure quantunque questa città sia stata scossa con gran violenza, non ne patì che pochissimi guasti, nè alcun paese del distretto ebbe a soffrir gravi travagli. Fecero i Reggini nel temuto pericolo processioni di penitenza, e recarono in città la sacra effigie della Madonna della Consolazione. E quando se ne videro scampati presero in pubblico Parlamento di rendere in avvenire, in ogni undici gennaio, pubbliche grazie alla Vergine, e celebrare in tal giorno una messa solenne nella chiesa del convento de’ Cappuccini, ed un’altra nella Cattedrale, col cantarsi a ventun’ora il Te Deum. In tal circostanza si raccolsero di pie oblazioni un cinquecento ducati, con cui si fece al quadro della Madonna la cornice di argento del peso di ventisette libbre, e la barella inargentata. I sindaci Filippo Furnari, Paolo Ferrante, e Giuseppe Musco fecero a proprie spese le due corone di argento che veggonsi in esso quadro; ed il Capitolo della Metropolitana offerse un velo di raso cremisi, fiorato e ricamato in oro, del valore di cento ducati.
Nel corso del 1696 era Preside della Provincia di Calabria il presidente della Regia Camera Domenico Garofalo, il quale per esecuzione di dispaccio del Vicerè promulgò un editto, con cui fra le altre cose ordinava, che le sete ecclesiastiche, cioè appartenenti alla Comunìa Latina, nell’estrarsi da Reggio non dovessero essere immuni del dazio; e qualora si cercasse di estrarle altrimenti, fossero prese in contrabbando, con lasciar libere però le persone. Di ciò il Capitolo della Cattedrale fece tanto scalpore che re Filippo V con sua real cedola del dicembre del 1701 inculcò che si venisse ad onesto componimento: onde l’editto del 1696 restò senza effetto. Per conoscer la seta franca dall’addaziata i Canonici solevano denunziare alla Curia Arcivescovile la quantità de’ bozzoli ricavati dalla loro industria ne’ fondi ecclesiastici; ed ivi coll’intervento degli arrendatori, in presenza dell’Arcivescovo e suo Vicario, se ne verificava la denunzia. E computandosi quanta seta potesse trarsi da tali bozzoli, per tanta si spedivano dalla Curia le bollette o cartelle di franchigia. Tal seta poi, in vista della fede de’ Vicarii, e colla ricognizione e consenso degli arrendatori regii, si estraeva da Reggio liberamente.
Al finir del secolo decimosettimo moriva Carlo II senza figliuoli; ma mediante gl’intrighi della Corte francese, contro le insistenze di Leopoldo Imperator d’Austria, (che aveva ragioni, perchè fosse chiamato erede l’Arciduca Carlo suo figliuolo secondogenito) elesse a succedergli il duca d’Angiò, secondogenito del Delfino di Francia. Onde ne veniva l’eventuale possibilità che le due corone di Spagna e di Francia potessero unirsi in una stessa persona. Nondimeno sinchè il suo erede non ne prendesse il possesso, volle Carlo che una Giunta, preseduta dalla Regina vedova, e composta di supremi Consiglieri e di grandi di Spagna, tenesse il reggimento della monarchia. Da ciò nacque quella famosa guerra della successione di Spagna, che sconvolse, e riempì di stragi l’Europa. Alla qualità ed autorità del nuovo re, che fu Filippo V, niuna opposizione fu fatta ne’ dominii d’Italia, niuna in Napoli ed in Sicilia. Ma si prevedeva che nè l’Austria, la quale vi avea giuste pretensioni, nè l’Inghilterra e l’Olanda avrebbero comportato a Filippo tanto successo; si prevedeva che grosse e sanguinose pugne avrebbero senza dubbio a seguitarne. Ed a guerra sollecita e fierissima si preparavano ed Austria e Francia. Ed Austria e Francia domandavano al pontefice l’investitura del Regno, e mandavano la chinea; ma il papa nè dava la prima, nè la seconda accettava. L’aver egli negata l’investitura a Filippo V diede cagione a’ malcontenti del Regno di volger l’animo contro questo re; affermando che senza l’investitura pontificia il dominio di Filippo non poteva tenersi legittimo. Oltre a questo la corte di Vienna avea già tentato di torcere i popoli dall’ubbidienza del nuovo sovrano, insinuando loro qual legittimo erede l’Arciduca Carlo. Parecchi fra i più potenti baroni regnicoli amavano le novità, e s’argomentavano di poter ormai coll’appoggio degl’Imperiali torsi dal collo il giogo di Spagna. Il Cardinal Grimani che stava in Roma stimolava fortemente a favor dell’Austria gli esuli napolitani.
Tutto ciò condusse in Napoli allo scoppio di una sedizione (1701) della quale era fomentatore e capo il principe della Macchia, seguito da una infinità di baroni e di nobili. Costoro portando per le strade di Napoli il ritratto dell’Imperatore, Viva l’Imperatore, gridavano a piena gola. Trasse dietro a’ nobili il popolo; ma questo, la prima cosa, voleva darsi alla ruba: i nobili non gli permisero questi trascorsi; e l’odio inveterato tra patrizii e popolani si ridestò in maggior grado. La divisione de’ cittadini produsse la debolezza, e le regie soldatesche presone il destro, fecero impeto sopra i sollevati, de’ quali i più compromessi caduti d’animo si misero in fuga ed in salvo. Persecuzioni, carceri, supplizii posero Napoli in lutto e desolazione: e come incontra in tali casi, molti colpevoli usciron netti, moltissimi innocenti perirono. Dalle non riuscite sommosse si passò alle leghe contro Francia, e tutta l’Europa andò in incendio di guerra. Intanto moriva l’Imperator d’Austria Leopoldo (1705), ed era eletto in suo successore Giuseppe I. La Francia cozzò contro tutti eroicamente, ma dopo sanguinose pugne, ebbe anch’essa il mal viso dalla fortuna, e cascò in brutte spine. Gli Austriaci condotti dal conte Daun, e camminando più da trionfatori che da combattenti, corsero a Napoli, e se ne insignorirono senza resistenza, in nome di re Carlo III (1707). E quella statua che il popolo napolitano aveva innalzato a Filippo V due anni prima, all’entrata degli Austriaci era abbattuta dallo stesso popolo, che soffregava i nuovi padroni; a’ quali subito, seguendo l’esempio della metropoli, facevano omaggio tutte le città del Reame. Solo Gaeta, dove s’eran chiusi gli Spagnuoli, tenne il fermo, ma a capo di tre mesi fu presa d’assalto, e data al bottino.
La Sicilia durava alla Spagna; e parve quindi spediente che Reggio, così prossima all’isola, fosse fortemente munita e presidiata; perchè formasse base alle operazioni offensive, che avevano a principiar di là dallo Stretto. In aprile del 1708 tre vascelli di guerra e trenta tartane austriache approdarono in Reggio, donde ivi a pochi giorni volgendo la prora per Sicilia cannoneggiarono Campanaro Longo; ed appresso ghermirono una nave nemica con un carico del valore di cento cinquantamila ducati. Queste non erano che leggiere fazioni; ma s’andavan facendo gli appresti di qualche tratto più serio contro la Sicilia. Mille settecento fanti e centocinquanta cavalli tedeschi, condotti dal general Giovanni Carafa, vennero in Reggio, e vi furono accolti colle salve delle artiglierie del castello. Da Napoli vi furon portati tre grossi cannoni da batteria, e molti attrezzi di artiglieria. I cannoni venner collocati sul forte Amalfitano; ed il Castel nuovo, ed il fortino dell’Annunziata, di là da’ Giunchi alla riva, furono a sufficienza provveduti di ogni lor bisognevole.
II. Giungevano in Messina in quel tratto tre vascelli con sei tartane cariche di fanteria spagnuola, italiana e francese; mentre che il Vescovo di Lipari scriveva al Carafa, protestando per parte di quell’isola ubbidienza a Carlo III. Recava intanto la fama che i Palermitani si fossero già ribellati alla Spagna, ed avessero uccisi tutti i Francesi, e quattrocento marinai; e messo in prigione il Vicerè. Al vigesimoquinto giorno di agosto del 1709 pigliaron porto in Reggio trentaquattro tartane, e sbarcaronvi settecento fanti tedeschi, i quali uniti a quelli che vi dimoravano, composero un corpo di due mila soldati.
Seppesi a questi tempi che da Reggio Antonino Abenavoli del Franco denunziava in Messina al Vicerè di Sicilia tutti i disegni del general Carafa, in cui casa usava dimesticamente, e stava a desinare i più giorni. Vedutosi scoperto l’Abenavoli si trafugò ratto in Messina, ed il Carafa il dichiaro ribelle. Nè ivi dismise il suo tristo mestiere, chè anzi continuò pratica col Vicerè di poter dargli l’occupazione di Reggio a tradimento, mediante uno sbarco notturno ed improvviso. Per condurre a termine questa sua matassa l’Abenavoli faceva tenersi mano da Michele Rota, il quale ne ajutava l’orditura; ma in pari tempo riferiva tutto al Carafa. E questi l’imbeccava, e si prendeva il bandolo tra le mani. Soleva l’Abenavoli venir di notte in Reggio con un barchettino, in luogo ed ora convenuti, ove trovandosi a ristretto col Rota mettevasi con costui in segretissimi colloqui; ed il Rota gli si mostrava tutto sviscerato del buon successo della cosa. La notte del dì tredici di novembre del detto anno, il Rota per suggestione del Generale dovea far dono all’Abenavoli di una cesta di agrumi, con entrovi ascose alcune granate da fuoco colla miccia lunga, a cui nel metter la cesta in mano all’Abenavoli dovea di celato appiccar subito il fuoco. E come prima si udisse lo scoppio delle granate sulla feluca dell’Abenavoli, duecento cinquanta soldati tedeschi, ch’erano ordinati ad appostarsi ivi presso, avevano a far fuoco da terra, e ad un tempo sei feluche di Reggio dovevano lanciarsi sulla feluca messinese, ed arraffarla. Al tempo posto l’Abenavoli passò in Reggio con due feluche; ma al Rota, o poco destro o timido, non venne fatto di dar fuoco alla miccia nell’alto di consegnar quella cesta. Contuttociò egli, volendo recar la cosa all’effetto determinato, all’Abenavoli che già si movea per partire, mandò addosso una fucilata, con cui colse in cambio un alfiere spagnuolo, e l’uccise. Allora i Tedeschi cominciarono a trarre per circa una mezz’ora sulle due feluche messinesi, ma nè queste risposero al fuoco, nè le feluche di Reggio accorsero com’era il convenuto.
Le feluche messinesi, dopo esser dimorate tre ore immobili (forse perchè i marinai si eran gittati sotto coperta) si ritirarono quattamente in Messina. Irritatissimo il Vicerè di Sicilia e del tradimento del Rota, e della viltà delle feluche messinesi, ordinò che tutta la ciurma ne fosse imprigionata; e dichiarando il Rota traditore, mandò grida che chi gliene portasse la testa conseguirebbe una taglia di mille once, e l’uffizio di capitano di cavalleria. Questo grasso ingoffo fece gola a Giuseppe Andiloro, il quale per avere ammazzato in Reggio a tradimento Domenico Spanò, s’era fuggito in Messina. Trasferitosi quindi di qua dal Faro, ed avvolpacchiandosi in abito di lacchè, cercava furtivamente di occhiare il Rota per levargli la testa, e guadagnarsi la taglia. Ma scoverto in sua mal’ora fu arrestato, e messo al bastone si lasciò dire ch’egli era passato in Reggio per uccidere il Rota la sera di Santa Barbara, nella qual sera dovea venir da Messina un navicello per prenderlo ad un suo dato segno. E ciò si avverò; perchè quella sera il sergente maggiore della guarnigione, trasfiguratosi in lacchè colle vesti dell’Andiloro, si fece alla riva, e diede il segno concertato; il che veduto da sul mare, il navicello fu a terra. Un drappello di soldati tedeschi, ch’era ivi in guato, si mise a far fuoco contro i Messinesi: e non prima un di loro ebbe bruciate le cervella, che tutti i suoi compagni si renderon prigionieri. A’ venticinque di dicembre l’Andiloro invece della taglia agognata, si buscò il capestro.
Per la conquista del Regno di Napoli l’Austria assodò in Italia la sua signoria, e già si riscaldava a più larghi disegni, quando un malvagio vajuolo toglieva in brev’ora la vita a Giuseppe I in aprile del 1711. Lasciava morendo i suoi Stati ereditarii a Carlo suo fratello, che fu poi Imperatore, e re di Napoli.
III. Sul termine di gennajo del 1712 cominciarono ad Utrech i preliminari della pace tra le Potenze; per effetto della quale fu assegnata la Sicilia al re di Piemonte Vittorio Amedeo, ed il Regno di Napoli fu lasciato all’Imperatore. Il nuovo re Vittorio Amedeo sopra una squadra inglese fece vela per Sicilia, e giunto in Palermo, ivi ebbe da quell’Arcivescovo la corona di re. Ma Filippo V non poteva patir di buon grado che quella ricca e nobilissima isola gli fosse tolta, e lasciatosi trarre a’ conforti del Cardinale Alberoni, spinse un’armala navale contro Palermo, e l’occupò. Perciocchè il conte Annibale Maffei Vicerè di Sicilia, non avendo forze a bastanza per rintuzzare il subito ed impetuoso attacco degli Spagnuoli, dovette ceder la piazza. E prese consiglio di porre in vigorosa attitudine Siracusa, Messina, Trapani, e Milazzo, alle quali gli Spagnuoli, presa Catania dopo Palermo, posero il blocco. Questo brusco tratto della Spagna mosse l’indignazione delle altre potenze, le quali addì due di agosto del 1718 strinsero fra loro una lega, che chiamarono Quadruplice Alleanza. E frutto di essa fu un trattato, che dettò nuove condizioni all’Italia; poichè togliendo la Sicilia e la Sardegna alla Spagna, diede la prima all’Imperator d’Austria, la seconda a Vittorio Amedeo. A questo re nondimeno mal garbava il cambio della Sicilia colla Sardegna, ma gli fu forza accettarlo. Dopo di che una flotta inglese sotto il comando dell’ammiraglio Bing, che già da più tempo incrociava minacciosa ne’ mari di Sicilia, cominciò ad investire alla spicciolata le navi spagnuole, e quali squarciava ed affondava, quali serrava in fuga, quali stringeva a dar in secco. Cionompertanto la cittadella di Messina, ed il forte del Salvatore dovettero arrendersi agli Spagnuoli il dì vigesimonono di settembre; i quali subito dopo andarono a campo contro Milazzo. Donde i generali Carafa e Veterani tentarono indarno, anzi con grave lor perdita, di cacciarli.
Tutte le piazze forti però, e la stessa Milazzo tenner fermo lo stendardo imperiale. Il general conte di Mercy, che stava ad ordine in Reggio con un fresco esercito di diecimila tra tedeschi e napolitani, effettuò senza ostacolo uno sbarco in Sicilia; ed unitosi alle altre truppe che quivi erano, fece che la forza imperiale divenisse imponente; e si accampò alla Scaletta, a non molto da Messina. Ma in ultimo l’Inghilterra e la Francia, mal comportando che le protratte ostilità della Spagna, a cui dava sospinta l’Alberoni, tenessero accesa l’Europa, intimarono di accordo la guerra a quella potenza. Giunsero in questo mezzo dall’Austria altri diecimila uomini, e posero in terra presso Patti. A questo gli Spagnuoli sciolsero l’assedio di Milazzo, e fecero massa in Francavilla. E tuttochè ivi avessero avuto il vantaggio in un’avvisaglia col general tedesco Mercy, nondimeno rinvigorendosi l’esercito imperiale co’ soccorsi, che di continuo arrivavano da Reggio (ove alle truppe che passavano in Sicilia succedevano le altre che soprarrivavano da varii punti d’Italia) andò gagliarda ad osteggiar la gagliardissima Messina. Conobbero allora gli assediati aver duro partito, nè potere sperar soccorso da Spagna; perchè i passi erano pigliati dall’armata inglese, che vigilava con cent’occhi que’ mari. Laonde il nono giorno di agosto del 1719 la guarnigione spagnuola si arrese; ma però la cittadella continuava ad esser difesa strenuamente da Luca Spinola. Il quale contuttociò dalla carestia delle cose più bisognevoli alla vita e delle munizioni fu necessitato a capitolare ivi a pochi giorni, e sgomberò la fortezza con tutti gli onori di guerra (1720). Messina fu severamente castigata dell’aver con assai facilità schiuse le sue porte agli Spagnuoli, e si trattò di mandarla a sacco, ma se ne redense con un milione di scudi. Da ultimo Filippo V, avendo aderito al trattato della quadruplice Alleanza in gennajo del 1720, e sottoscritta la pace, il conte di Mercy fece intimazione al generale spagnuolo che dentro un termine posto avesse ad uscir di Sicilia. Gli Spagnuoli lasciaron l’isola in giugno, seguiti da cinquecento siciliani, che volontarii trasmigrarono; ed il nuovo governo confiscò loro tutti gli averi.
IV. Dentro l’anno 1721 il popolo reggino, a cui già grandemente increscevano le gravezze del governo de’ patrizia che passavan peso e misura (massimamente nella ripartizione delle tasse fiscali, le quali si facevan tutte cadere sulle classi inferiori) cominciò a far il viso dell’armi. E trascorrendo dall’irritazione al tumulto, circa due migliaja di cittadini armati, a cui vennero a fare spalla parecchie altre centinaja di villani della Sbarra e di Sasperato, s’indirizzaroo minacciosi alla casa del Governatore Domenico Capecelatro, cui credevano, non senza motivo, fautore di tali domestiche oppressioni. Ma accorso opportunamente il barone di Pretewitz comandante della Piazza, uomo valoroso insieme e considerato, colla sua autorità e co’ suoi soldati impedì che quella sedizione avesse altro seguito. E sperimentato avendo negli ammutinati un sommo ossequio, al nome del Re, e medesimamente un gran rispetto a’ regii uffiziali, si avvide che il malumor popolare nasceva da intime magagne, non da malignità di partiti; si avvide che quel malumore proveniva dal tristo governo della città, che imponeva il più gran peso delle pubbliche tasse sugli artigiani e su’ campagnuoli. Ordinò quindi che per allora fosse data una convenevole soddisfazione a malcontenti, e che nel resto si rimettesse il giudizio e decisione di quell’affare alla gran Corte della Vicaria, ed al Sacro Consiglio. Dissipatosi pertanto quel commovimento, e ritiratosi ciascuno alla propria casa, cominciarono a vedersi i soliti effetti di tali sommosse abortive. Poichè or l’uno or l’altro de’ capi sotto varii pretesti fu preso e chiuso in prigione, e poi trasferito in Napoli nelle carceri della Vicaria. Questi esempii di rigore misero in gran costernazione tutti gli altri compromessi, i quali si andarono dileguando da Reggio, e parte cercarono asilo al Convento de’ Cappuccini; ma non sì però che non ne fossero incarcerati molti altri. E tanto più cresceva in tutti la paura quanto che si attendeva da Napoli il consiglier Carlo Carmignano, con commissione di ricercar le cause del seguito tumulto. Nè alcuno poteva presupporsi come sarebbe per terminare quella faccenda.
Venne in Reggio il consiglier Carmignano al principio del 1722, e desumendo dalla compilazione del processo che la prima radice della sedizione era nella pessima amministrazione municipale, non esercitò contro il popolo la sua severità, ma si accigliò contro i sindaci Candeloro Battaglia, Saverio Musitano, e Paolo Morisano. Egli fece serrar costoro nel castello, donde poi tratti, furon rilegati nell’isola d’Ischia. All’incontro tornò la libertà a tutti i popolani che erano in carcere per occasione del tumulto. I quali così mentre aspettavano di esser trascinati agli ergastoli, alla galera, ed al patibolo, trovarono nell’incorrotto loro giudice un protettore. E tal protettore, che quelli stessi che come autori principali della baruffa erano stati mandati alla Vicaria, non molto poi, per i benigni uffizii del Carmignano, ottennero il libero ritorno alla patria. Raro esempio di giustizia, che conobbe la ragione del popolo, il quale per ordinario deve aver sempre torto. Nè poca lode ne andò al governo, che seppe scegliere un uomo, il quale in tanta dilicata missione, situandosi sopra le ardenti, basse, e sempre ingiuste passioni de’ partiti, seppe valutare l’origine e le circostanze della popolar turbolenza, con fredda ed avveduta giustizia. E si fece merito di aver colla dolcezza pacato e rimesso nell’ordine quel travagliato popolo, mentre altri avrebbelo spietatamente perseguitato con processi fabbricati dalle calunnie e da’ rancori personali, con forche, e con lunghe e dolorose prigionie. Benedetto sia dunque il nome di Carlo Carmignano, e benedetto il governo, che a’ miti atti di lui diede piena adesione ed applauso.
V. Ma nondimeno stando in Reggio il Carmignano si lasciò poi tanto acciecare dall’avversione contro i patrizii, e dal favore de’ civili e de’ popolani, che s’intrigò nelle cose della città più di quel che gli competeva. E come allora l’elezione de’ sindaci si faceva giusta la Capitolazione del 1638, così il Carmignano sollecitato dalle private ambizioni, prese l’impegno di adoperarsi che fossero abilitati al sindacato tre cittadini, i quali sino allora con tutti i loro sforzi non erano riusciti ad esser ammessi a tale abilitazione. In quell’anno 1722 gli otto deputati dell’abilitazione de’ Nobili erano Giacinto Genoese, Ignazio Melissari, Antonio Rodino, Marcello Laboccetta, Antonino Suppa, Giuseppe Musitano, Francesco Logoteta e Filippo Furnari. A costoro adunque si rivolse il Carmignano, con esortarli che dovessero abilitare i tre cittadini da lui raccomandati; ma sei degli otto, quali furono il Rodino, il Laboccetta, il Suppa, il Musitano, il Logoteta, ed il Furnari, fermi nel loro diritto, non vollero compiacere per niente alle pretensioni del Carmignano. Della qual cosa punto costui vivamente, dichiarò nullo l’uffizio de’ detti sei Deputati, e confermando solo il Melissari ed il Genoese, fece elegger di sua volontà altri sei che fossero più deferenti alle sue pratiche, ed amici o parenti de’ tre cittadini da abilitarsi. I sei nuovi deputati furono Giuseppe Granata, Domenico Sirti, Domenico Sarlo, Carlo Plutino, Francesco Ferrante, e Domenico del Giudice. Ma nemmeno con questo mezzo ottenne il Carmignano l’intento suo; perchè de’ sei nuovi deputati tre negarono il voto a’ suoi candidati; e furono Domenico del Giudice, Francesco Ferrante, e Carlo Plutino. Di che tanto s’inacerbì il Consigliere, che appena finita la sessione, dispose che i tre renitenti al suo desiderio fossero presi e chiusi nel castello, colla guardia a vista, e coll’ordine di non potere parlar con persona.
Ciò fatto il Carmignano, compilò a suo modo una relazione al Vicerè, esponendogli che i Deputati per fini particolari non vollero abilitar quelli che se lo meritavano quasi di dritto, il che ridondava a sommo pregiudizio de’ nobili non abilitati. Ma i Deputati non si dieder per vinti, ed essi ancora fecero palese al Vicerè che il consiglier Carmignano voleva imporre loro la sua volontà, e violare i diritti dell’Università, e la libertà dell’elezione. Laonde il Collateral Consiglio, temperando la cosa, ordinò che di nuovo si tenesse l’abilitazione; e questa si tenne col fatto addì ventuno di giugno, dopo che da Napoli colla stessa posta vennero approvati a nuovi sindaci Domenico del Giudice, Giuseppe Granata, ed Antonino Morisano. Tra i nuovi abilitati furono il capitano Giuseppe Miceli, e Cesare Canizoni, ma molti de’ patrizii ricusarono di farsi abilitare, tenendo come illegittimi i Deputati eletti sotto la prepotente influenza del Carmignano. Per i quali fatti costui tanto era in uggia a’ nobili, quanto amato da’ civili e da’ popolani.