Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro settimo/Capo quinto

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CAPO QUINTO

(Dall’anno 1679 al 1692)

I. Il marchese di Pentidattilo, ed il barone di Montebello. Don Petrillo Cortes. Origine dell’ira del barone. II. Egli con quaranta de’ suoi s’introduce nel castello di Pentidattilo, ed uccide il marchese. Altre sue atrocità. La picciola Annuzza. Il barone conduce seco Antonia Alberti, e don Petrillo. III. Sponsali in Montebello. Persecuzione e zuffa. Assalto di Montebello. IV. Taglia contro il barone. Giuseppe Scrufari. Il barone in Reggio. V. Il barone nel Convento del Crocifisso. Fugge per Malta; va a Vienna, e si fa soldato. Quivi è scoperto, ed ottiene dall’Imperatore grazia, e grado di capitano. Sua morte.


I. Or mi conviene raccontare una tragica storia domestica che farà inorridire i miei leggitori. Correndo il 1685 era marchese di Pentidattilo Francesco Alberti, e barone di Montebello Bernardino Abenavoli del Franco. Fra l’uno e X altro s’era suscitata nimicizia negli anni antecedenti per alcune differenze di territorio su’ comuni confini. Ma in ultimo le ire ed i rancori avevano ceduto luogo alla riconciliazione, ed a suggello di questa il barone di Montebello tenne a battesimo una figliuolina del marchese. Addì venticinque di aprile dello stesso anno il marchese di Pentidattilo passava di questa vita, e lasciava il suo feudo al figliuolo Lorenzo. Questi aveva una sorella di bellissime e leggiadre forme, chiamata Antonia, della quale il barone si era innamorato accesamente, e n’era amante riamato. Vivendo il marchese padre, il barone gliel’aveva domandata per moglie, ma il padre se n’era uscito con un decente rifiuto, o perchè conoscesse la truce indole del barone, o perchè l’avesse già fidanzata altrui. Intanto sino da quando il padre viveva, Lorenzo avea trattato matrimonio con una figlia del consiglier Pietro Cortes di Napoli, ed alcuni mesi dopo la morte di esso padre furono eseguiti gli sponsali. Nella qual circostanza il consigliere accompagnando la figliuola, volle anche condur seco sua moglie e due figliuoli, uno de’ quali avea nome don Petrillo.

Il marchese Lorenzo, che si stava in Reggio aspettando la venuta della sposa, come vide entrato di qua dalla Catena il legno che la conduceva, fecelesi incontro con una feluca, e ritornato in Reggio colla famiglia del consigliere, da qui si recò in Pentidattilo, ove le nozze si fecero e splendide ed allegre. La famiglia del Cortes soggiornò per piccol tempo in Pentidattilo, ed in questo la moglie di [p. 42 modifica]lui si ammalò. Perilchè il consigliere, che aveva premura di tornarsi in Napoli, dove gravi affari il chiamavano, lasciò la inferma moglie, e con lei don Petrillo in casa del marchese. Per don Petrillo, ch’era una buona pasta di giovine, veder la bella Antonia Alberti, ed esserne preso d’amore caldissimo, fu un punto. E costei, che teneva forse impossibili le sue nozze col barone di Montebello, non si porse discortese alle amorose dimostrazioni del giovine Cortes. Questi fecesi ardito a chieder la mano di lei, nè gli fu negata; ed era ormai fama per tutto che don Petrillo Cortes avrebbe contratto maritaggio con Antonia Alberti, sorella del giovine marchese di Pentidattilo. Questa nuova fece salire in furore il barone di Montebello, il quale tocco al vivo e dal fattogli rifiuto, e dalla preferenza data a don Petrillo Cortes, e dalla incostanza dell’amata donna, giurò in cuor suo una memorabile vendetta; una feroce vendetta di sangue e di sterminio. Da tutti gli atti di lui traspariva il fiero disegno; ed il marchese era esortato da’ suoi amici che pigliasse guardia di sè, perchè al certo il barone gli macchinava contro qualche trama scelleratissima. Ma l’Alberti che avea dolcissima indole, nè sentiva riprendersi la coscienza di aver mai offeso l’Abenavoli, non dava luogo a sospetto alcuno, e continuava tranquillo il consueto tenore della sua vita.

II. Era la sera del sedicesimo giorno di aprile dell’anno 1686, giorno della Pasqua di Resurrezione, quando il barone di Montebello con una banda di quaranta suoi scherani armati di scuri, di pali, di scale, e di altri ordigni bisognevoli al meditato scopo, si avviava verso il castello di Pentidattilo. Non dirizzava i suoi passi per la porta principale, ma per una postierla ch’era alla parte deretana del castello; e questa gli era tosto spalancata dalla perfidia e dal tradimento, o come altri vuole dalla stessa Antonia, che ritornata all’antico affetto, avesse data al barone la posta di lasciarsi rapire. Come che sia, certo è ch’egli, senza aver d’uopo degli apprestati ordigni, s intromise nel castello tacitamente, e senza che persona gli avesse posto attenzione, mise sue guardie a ciascuna stanza, e si recò a dirittura a quella del marchese; il quale inconsapevole della sua crudel sorte dormiva tranquillo nel letto nuziale. Violata così perfidamente la santità del domestico focolare, l’Abenavoli tirò contro il dormente Lorenzo una pistolata, e gli aprì una larga ferita nel collo. Rottogli il sonno così orribilmente, il marchese cercò darsi vita, e gittarsi del letto, ma in quell’istante due archibugiate il colpirono, e lo fecero traboccare esanime sul pavimento. Nè gli bastava tal morte; che il barone con un’atrocità bestiale ed incredibile, a sfo[p. 43 modifica]gar la rabbia che gli divorava l’anima, volle di sua propria mano accarnare in quel morto corpo quattordici colpi di stile, onde rimase sformato miseramente in un lago di sangue.

Chi può dire l’immensa doglia dell’atterrita sposa in vedersi così spietatamente trafitto a’ suoi fianchi il consorte amato? Non pianse ella, non mise gli occhi a’ carnefici, non disse motto; ma pittatasi di peso sul cadavere insanguinato, se lo strinse frenetica al petto, e poi ruppe in pianto dirottissimo. Ma que’ manigoldi, ad un cenno del loro furibondo padrone, traendola per i capelli, la strapparon di forza dall’estinto, e da quella scena di orrore. Fece poi trascinare a quella stanza, orribile a dirsi! la marchesa madre, e trafissela sul corpo del figlio. Non sentisti allora per tutti gli anditi del castello che un fuggire, un gridare, un querelarsi affannoso, un bestemmiare infernale, un tumulto indistinto ed orribile. Bernardino Abenavoli era smanioso di sterminare tutta la sventuratissima famiglia dell’Alberti. Una sorellina di Antonia, che chiamavano Annuzza ed aveva undici anni, tutta tremante di spavento si era cacciata sulla via per fuggire, quando il barone inculcò a Giuseppe Scrufari che la levasse di terra. Lo Scrufari era vassallo del marchese, uno di quegli scellerati che l’avevano tradito al barone. Sparò l’infame contro quella povera fanciulla, e le squarciò le tenere ginocchia. Ed ella, più morta che viva, voltasi al suo assassino con infantile rampogna, gli disse: Scrufari, perchè mi ammazzasti? Queste compassionevoli parole, che dovevano aver forza di metter pietà in una tigre, niuna impressione fecero nell’efferato animo dello Scrufari; il quale anzi corse a finirla di stile: e quella innocente anima si mutava da terreni affanni a’ refrigerii celesti. Con pari ferocia fu ucciso un altro fratellino di Antonia, che non finiva ancora il nono anno dell’età sua.

Intanto che per le stanze del castello si rappresentavano queste orride scene, tre cagnotti del barone stavano alla porta della stanza di Antonia per impedirle l’uscita, e quattro a quella ch’era dimora di don Petrillo. La voce di tanto eccidio era corsa il giorno appresso per tutta la terra di Pentidattilo, e i vassalli del marchese cominciavano a commuoversi, ed a far rumore; ma il barone, che ciò aveva antiveduto, minacciò lo sterminio alla terra, se persona fiatasse. Si mosse allora per uscir di Pentidattilo, e seco menò Antonia, per cui cagione aveva commessi tanti misfatti. E seco ancora fece condurre don Petrillo in ostaggio; del quale disse che lo avrebbe fatto impiccare ad un albero, qualora venisse perseguitato dalla regia Corte. Non rimaneva dunque nel castello di Pentidattilo, che la moglie [p. 44 modifica]del consigliere Cortes, e sua figlia, vedova dell’assassinato marchese.

III. Giunto in Montebello procurò il barone di far senza dimora i suoi sponsali colla fatale Antonia; e furon sontuose le feste, ma quelle tede nuziali non parevano che infernali fiaccole, le quali illuminassero di color di sangue il cammino della sua vita, che doveva essergli travagliatissima e disperata.

Intanto dell’orrendo accaduto era giunta notizia a Francesco la Cueva auditore, che allora per caso si trovava in Melito per ragion del suo uffizio; il quale il giorno appresso si recò in Pentidattilo, e raccolte tutte le circostanze del fatto, ne fece precisa relazione al Governatore di Reggio. Ed al Preside della Provincia, ch’era il marchese Garofalo e stava allora al Pizzo, corse sollecito l’alfiere Antonio Grasso, per riferirgli a bocca ogni cosa. Il Preside senza ritardo ne diede cognizione in Napoli al Vicerè, e in un medesimo messosi in una barca, si trasferì in Reggio la sera del ventuno di aprile. In quella notte medesima spedì corrieri per tutta la provincia, ed ordini circolari, perchè il barone e suoi satelliti fossero perseguitati e presi. Il giorno appresso poi, in compagnia del suo auditore Antonio Golino, mosse alla volta di Santagata, ove era voce che si trovassero molte persone, che avevano dato mano forte all’Abenavoli. Il Preside era seguito da Antonio Rodino, capitano di cavalleria del ripartimento della città di Reggio, dal tenente Giovanni Battaglia che conduceva la sua compagnia, e dal battaglione di fanteria della stessa città. In questo mentre il barone di Moutebello, sentendo la tempesta ch’era prossima a rovesciargli in capo, uscì della sua terra con una grossa banda dei suoi più animosi ed arrischiati vassalli, e quando fu verso Valanidi s’incontrò col battaglione di Reggio. Seguì allora un vivo scambio di archibugiate; ma il barone difendendosi con gran coraggio, s’aprì il passo, e si allontanò a gran fretta da que’ luoghi, ove stava per giungere il Preside colla regia cavalleria. Fu dato l’assalto al castello di Montebello, dove il barone, uscendo colla sua armata comitiva, aveva lasciato strettamente custodito don Petrillo Cortes. Ora i difensori del castello, scoraggiatisi per l’assenza del barone, non fecero lunga resistenza, e senza difficoltà si arresero. Così don Petrillo fu condotto libero in Reggio in casa del regio Segreto e Maestro Portolano, dove soggiornavano la madre, e la vedova sorella.

IV. Come in Napoli il Vicerè ebbe avviso dell’avvenimento, spedì prestamente per Reggio due galee a condurre a’ comandi del Preside quattro compagnie di soldati. A queste seguirono poi altre cinque [p. 45 modifica]galee con cinque altre compagnie di fanteria spagnuola. Delle quali forze si avvalse il Preside, parte per vegliar le marine, perchè il barone non avesse possibile la fuga per mare, parte ne’ passi interni della provincia, dove poteva capitar loro nelle mani. Fu data così la caccia al barone, ed alla sua comitiva per tutta quella contrada, ed indi a poco otto de’ suoi seguaci capitarono nelle mani della regia forza, de’ quali sei ebbero la pena del capo, e due la galera. Le teste de’ sei furon mandate in Pentidattilo, e fatte sospendere a’ merli del castello, proprio in quel lato dov’era avvenuto l’eccidio. In questo giungeva ordine del Vicerè, che prometteva una taglia di ducati seicento a chi consegnasse vivo o morto in mano della giustizia il barone di Montebello. Cadde appresso in potere de’ persecutori quel truce Giuseppe Scrufari, che aveva uccisa l’Annuzza, il quale fu decapitato immediatamente, e la sua testa fu appesa in Pentidattilo in quel punto, dove quella povera fanciulla aveva messo l’ultimo fiato. La comitiva del barone, sin dal momento che i soldati avevano assaltato il castello di Montebello e liberato don Petrillo, si era sbrancata e dispersa; perchè il barone, dubitando di tradimento contro di se, non volle esser seguito da altri che da un suo fidatissimo, col quale andava ramingo per fuggir l’indefessa persecuzione, alla quale era segno.

Al decimosesto giorno del maggio, verso due ore di notte, il barone fu veduto vicino le mura di Reggio, e proprio dalla parte del Castelnuovo, dov’era il luogo della forca, che aveva già arrandellata la strozza a molti suoi scellerati compagni. Egli studiava qualche via di potersi imbarcare; ma riconosciuto da uno di que’ soldati che stavano ivi in sentinella, gli spararono addosso, e cercarono d’inseguirlo. Egli allora rispose di pari moneta, e col vantaggio dell’oscurità uscì loro di vista.

V. Si ebbe poi indizio che avesse trovato rifugio nel convento del Crocifisso; e corso là subito il Preside colla forza circuì improvvisamente il convento, e fattolo mettere a stretto assedio, v’entrò con altri suoi seguaci, e perlustrò con gran diligenza tutti gli angoli e nascondigli del luogo. Alla quale operazione un frate con una lucerna in mano accompagnò il Preside, e gliene divisò le più recondite parti. Que’ padri assicurarono al Preside che quel fuggitivo due sole volte, e non più, era stato in quel chiostro. L’una per intelligenza col Governatore di Reggio, col quale ebbe poi, dicevano, un abboccamento nel convento de’ Cappuccini; l’altra quando menò in Reggio la moglie per chiuderla nel conservatorio della Presentazione. Ma seppesi poi con grandissima sorpresa che quel frate, il quale [p. 46 modifica]aveva guidato il Preside per il convento colla lucerna in mano, era stato appunto il barone. Si faceva dunque assai manifesto aver avuti costui molti aderenti in Reggio, che lo mettevano al sicuro di qualunque persecuzione, e tra questi essere i frati, e lo stesso Governatore della città.

Della qual cosa andata certezza al Vicerè, provvide subito che il colpevole Governatore fosse rimosso dal suo uffizio, a mandato a Reggio in suo luogo il capitano Vincenzo Maria Bonetti. Ma l’Abenavoli andava ormai indovinandosi quanto la sua dimora in Calabria gli divenisse di giorno in giorno più pericolosa, nè forse tarderebbe a dar nella rete. Quindi pensando meglio al fatto suo, prese segreto congedo dalla sua donna, e partì per Brancaleone; donde, condotta a prezzo una barca, fece vela per Malta. Da quivi poi si tramutò incognito in Vienna, ed entrò soldato in uno di que’ Reggimenti imperiali. Si trovava per avventura nello stesso reggimento un soldato, ch’era nativo di Montebello, e domandavasi Andrea Tripodi, il quale era già stato custode degli armenti del barone. Costui conobbe che il nuovo soldato era appunto il suo antico padrone, ed il rinsegnò a Sua Maestà Imperiale. L’Imperatore, a cui la fama non aveva taciuto il terribile avvenimento di Pentidattilo, fece venirsi dinanzi quel soldato, ed interrogatolo s’era vero che sotto quella mentita veste si nascondesse il barone di Montebello, costui senza esitazione e con risoluta franchezza: io sono, rispose, il barone di Montebello Bernardino Abenavoli del Franco, e son venuto a piedi della Maestà Vostra a servire e spargere il mio sangue nella guerra presente. Fu così accetto questo tratto di pronta fiducia all’Imperatore che, conferito al barone l’uffizio di Capitano, il mandò a servir nell’armata, che già metteva alla vela in ajuto della repubblica di Venezia nella guerra col Turco. Ma ivi a parecchi anni, in una battaglia navale, correndo il dì vigesimoprimo di agosto del 1692, una palla di cannone, tratta da’ nemici, colpì l’Abenavoli mentre stava ritto sopra una nave, e gli tolse la persona. Così finiva la sua vita in paese straniero il barone di Montebello.