Storia delle arti del disegno presso gli antichi (vol. II)/Libro ottavo - Capo III

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C a p o   III.


Decadenza delle arti del disegno presso i Greci... cagionata dalla spirito d’imitazione... dalla soverchia diligenza nelle piccole cose... e dall’introdottosi stile egiziano — Caratteri dello stile nella decadenza dell’arte - Fecersi allora molti ritratti, e poche statue... ed una poco sublime idea si ebbe della beltà, negli ultimi tempi - Sono di questa età quasi tutte le urne sepolcrali - Lavori fatti fuor di Roma — Buon gusto sostenutosi malgrado la decadenza - Monumento stravagante e informe, che pur su lavoro di greco scarpello — Recapitolazione — Avvertimento.

Decadenza delle arti... Aveano gli antichi artisti sì bene studiate le proporzioni e le forme della bellezza, ed aveano sì precisamente determinati i contorni delle figure che, senza contravvenire alle regole, né estendersi poteano in alcun modo né ristringersi. L’idea del bello era stata portata al più alto grado; e poiché le cose umane hanno un punto fisso e stabile, l’arte che far non poteva ulteriori progressi, dovè retrocedere, e decadere.

... cagionata dalla spirito d’imitazione... §. 1. Gli dei e gli eroi essendo stati rappresentati in tutte le positure e le azioni possibili, troppo difficil era l’immaginarne delle nuove1, e s’aprì in tal guisa la via all’imitazione. Quella limitava e deprimeva lo spirito, e [p. 124 modifica]quando non si poteva superare Prassitele e Apelle, nemmeno si riusciva a pareggiarli: l’imitatore rimaneva sempre al di sotto del suo modello. E’ avvenuto all’arte come alla filosofia; e v’ebbe in quella come in questa degli eclettici o raccoglitori che, non avendo ballante genio per inventare, studiaronsi di unire in un solo quel bello che in molti vedeano disperso. E siccome gli eclettici, fatti copisti della filosofia delle diverse scuole, poco o nulla d’originale sepper produrre2; così nell’arte, quando si tenne la medesima via, niente più aspettar si potè d’originale, e perfettamente coerente nelle sue parti. Di più: come que’ filosofi, facendo gli estratti delle grandi opere degli antichi, furon cagione che queste neglette si perderono; nello stesso modo i raccoglitori ed imitatori nelle arti del disegno fecero sì che trascuraronsi i lavori originali de’ gran maesiri.

...dalla soverchia diligenza nelle piccole cose... §. 2. Lo spirito d’imitazione, mancante delle cognizioni necessarie, rendè il disegno timido, e si cercò di supplire al sapere per mezzo d’una diligenza minuta, che a poco a poco degradandosi venne ad occuparsi di quelle piccole cose che nel siore dell’arte erano a ragione trascurate, come svantaggiose alla grandezza dello stile. A proposito di quelli artisti ben disse Quintiliano3 che molti avrebbono fatti meglio che Fidia stesso gli ornati al di lui Giove [p. 125 modifica]olimpico4. Quindi è che, studiando essi d’evitare tutte le pretese durezze di stile, e di tutto esprimere con mollezza e dolcemente, renderono bensì più ritondette, ma snervate; più gentili, ma insignificanti quelle parti, che dai loro antecessori erano state espresse con forza, onde insipida e fiaccata divenne l’arte medesima, come avvenir suole ad un’ascia, che ottusa si rende più presto sul molle tiglio, che sulla dura quercia. A questa stessa cagione deve ascriversi il decadimento della bella letteratura; e per quella la musica perdendo, come l’arte, la sua maschia energia5, divenne effeminata e molle. Si guasta sovente il buono mentre con troppo raffinamento si cerca l’ottimo, come per lo più è nocevole alla salute di chi sta bene il volere star meglio. Ma in quella guisa che si fprezza un adulatore, e un’anima dura e inflessibile s’ammira, così è probabile che allora i veri conoscitori portassero lo stesso giudizio sulle opere dell’arte delle quali parliamo, paragonandole con quelle dello stile sublime, anzi con quelle che erano più antiche ancora. Sotto il regno degl’imperatori o poco prima cominciarono gli artisti ad esprimere in marmo la capigliatura cadente e sciolta, e ne’ ritratti a indicare ben anche i peli delle sovracciglia, la qual cosa dianzi non erasi mai [p. 126 modifica]praticata in marmo. Ciò però si è fatto ne! bronzo, poichè fu una bellissima testa giovanile di questo metallo unita a un petto di grandezza naturale, nel regio museo Ercolanense, che sembra rappresentare un eroe6, le sovracciglia sono mollemente incise sull’osso dell’occhio, che è assai affilato7. Si questo che un altro busto femminile d’eguale grandezza sono stati senza dubbio lavorati ne’ buoni tempi dell’arte. [p. 127 modifica]Sappiamo altresì che ne’ più antichi tempi, e prima anche di Fidia, indicavasi il lume dell’occhio sulle monete8, onde appare che gli artisti abbiano Tempre con maggior minutezza lavorato il bronzo che i marmi. E’ probabile però che abbiano cominciato a ciò usare prima nelle teste ideali d’uomo che in quelle di donna; poichè il secondo de’ due mentovati busti, che sembran essere dell’istessa mano, ha le sovracciglia indicate semplicemente con un arco affilato alla maniera antica.

... e dall’introdottosi stile egiziano. §. 3. La decadenza dell’arte dovè necessariamente scorgersi da coloro, che ne paragonavano i lavori colle opere le egiziano, dello stile sublime e bello; e quindi è da crederli che alcuni siansi argomentati di richiamare la grande maniera de’ loro rinomati maestri. E poiché tutte le cose umane fono in una rivoluzione perpetua, per cui si va a terminare ove erasi incominciato; quindi avvenne che gli artisti, volendo riformare gli abusi, imitarono lo stile antico, il quale pe’ contorni poco men che retti molto all’egiziano s’assomiglia. In questo senso congetturai una volta doversi intendere un oscuro passo di Petronio, ove parla della pittura, e che io intesi dell’arte generalmente presa. Parlando egli della decadenza della pittura, l’ascrive fra le altre cagioni ad una certa maniera egiziana introdottavisi, dicendo: Pictura quoque non alium exitum fecit, postquam Ægyptiorum audacia tam magna artis compendiariam invenit9. L’oscurità di questo passo consiste principalmente nella voce compendiariam; e alcuni commentatori, come Burmanno, si sono contentati di addurre altri testi, ove la medesima parola s’incontra, mentre altri hanno ingenuamente confessato di non intenderla, e di non aver nemmeno congetture da proporre per [p. 128 modifica]ispiegarla, come Francesco Giunio10. Que’ commentatori nè aveano forse la necessaria cognizione dell’arte, né aver poteano sott’occhio le pitture antiche; ma dacchè mille e più pezzi di quelle se ne sono ora disotterrati nelle ruine delle città sepolte dal Vesuvio, io mi lusingo di potere con qualche verosimiglianza indicare il vero significato delle parole petroniane. In parecchie di quelle pitture veggonsi lunghe e strette fasce, alte poco più d’un palmo romano11, che sono a luogo a luogo intersecate, ed hanno nello spazio di mezzo dipinte sovra un campo nero delle figurine all’uso egiziano: nelle parti che servono d’intersecamento e negli orli si vedono varj stravaganti ornati, ai quali sono frammiste immagini capricciose e fantastiche. Forse questa maniera di dipingere con figure egiziane frammiste ad immagini mostruose è quell’arte che da Petronio vien detta ars compendiaria Ægyptiorum; e n’ebbe probabilmente tal nome, perchè era un’imitazione della maniera con cui gli Egizj le case loro dipingevano12. Anche oggidì nell’Egitto superiore veggonsi de’ palazzi e de’ tempj serbatisi quasi interi, sostenuti da sterminate colonne, le quali al par delle pareti e delle volte sono dall’alto al basso dipinte e coperte di geroglifici incavati, siccome s’è già detto nel Libro II. Capo IV.13.

[p. 129 modifica]§. 4. A questa immensa copia di geroglifici e di figurine paragona dunque Petronio quegli ornati sì ripieni d’immagini e di figure insignificanti, de’ quali a’ tempi suoi comunemente s’occupava la pittura; e quest’arte fu da lui chiamata compendiaria, perchè in un ristretto luogo tante e sì diverse cose, quasi in compendio, accozzava. Pare che a questa maniera di dipingere debbano riferirsi le lagnanze di Vitruvio14 sopra la pittura de’ suoi tempi, in cui, diceva egli, non v’è punto di verità, e dipingono de’ mostri, anziché le vere immagini delle cose: nunc pinguntur tectoriis monstra potius, quam ex rebus finitis imagines certae15. Or poiché, secondo Vitruvio, la pittura era in fiore quando negli antichi edifizj rappresentavansi le immagini degli eroi, la mitologia, e la storia con una perfetta imitazione del vero; necessariamente dovettero, a così dire, tarparsi le ale a quest’arte allorché s’introdusse l’abuso di rappresentare oggetti insignificanti, mostruosi e strani, ond’essa misera divenne, s’avvilì, e si perdè16. Osservisi qui che per lo più la moltitudine delle figure in un quadro, come talora la [p. 130 modifica]soverchia abbondanza in altre cose, è un argomento di miseria: così i re di Siria, al dir di Plinio17, costruivano di cedro le navi loro, perchè non aveano abete, il cui legno è men pregevole, ma alla navigazione più acconcio18.

Caratteri dello stile nella decadenza. §. 5. Che nella decadenza dell’arte si fosse introdotto uno stile diverso dall’antico lo dimostra, fra gli altri, un passo di Pausania19, il quale narra che una sacerdotessa delle Leucipidi Febe ed Ilaira ad una delle loro due statue fece levare l’antica testa, immaginandosi di renderla più bella con farlene sostituire una nuova lavorata secondo l’arte d’oggidì; le quali parole il signor Gedoyn, a cui qui la sua moda veniva in acconcio, traduce: secondo la moda preferite20. Potrebbe questo stile chiamarli piccolo basso e mozzato, poiché ivi tutto è meschino e tozzo quello, che nelle antiche figure faceasi grandioso e rilevato. Non devesi giudicar però di questo stile sulle statue, alle quali è stato dato il nome dalle [p. 131 modifica]teste che hanno, poiché molte volte, non essendosi trovata la propria e originale loro, se n’è sostituita un’altra.

Fecersi allora poche statue, e molti ritratti ... §. 6. Quando l’arte vieppiù avvicinavasi all’intera sua decadenza, ben poche statue scolpivansi in confronto delle moltissime che erano state lavorate negli antichi tempi; e allora la principal occupazione degli artisti era di far de’ ritratti, cioè teste e busti21. Con tai lavori si distinse l’arte negli ultimi tempi, sino a che affatto si perdè. Non dee pertanto parerci sì sorprendente, come lo sembrò ad alcuni, che siano mediocri, e in parte ancora belle le teste di Macrino, di Settimio Severo, e di Caracalla; poiché tutto il merito di tali opere consiste nella diligenza. Forse Lisippo non avrebbe fatta una testa migliore che quella di Caracalla esistente nel palazzo Farnese, ma certamente lo scultore di essa non farebbe mai arrivato a fare una figura eguale a quelle di Lisippo.

ed aveasi una poco sublime idea del bello §. 7. Credeasi in que’ tempi, contro il parere degli antichi, che l’abilità d’uno scultore consistesse in dare un forte risalto alle vene; e sull’arco di Settimio Severo scorgonsi queste eziandio sulle mani di figure femminili ideali, cioè delle Vittorie, che portano i trofei. Si pensava che l’espressione della forza, la quale, secondo Cicerone22, è un distintivo generale delle mani, dovesse ravvisarsi anche su quelle di donna, ed esservi nella mentovata guisa indicata. In ciò pure, avanti che le arti in Italia rinascessero, faceasi consistere l’abilità degli scultori; e anche oggidì un osservatore, che non abbia gusto né cognizioni, ammira questo lavoro delle vene eziandio quando son fuor di luogo, Gli antichi [p. 132 modifica]però avrebbono ciò biasimato, come pur ripreso avrebbono quel mal avveduto scultore che avesse fatte sulle zampe d’un leone in atto di correre le ugne che sporgesser fuori; il che sarebbe contro natura, poiché l’animale andando le tiene ripiegate in dentro e celate. Con quanta dilicatezza gli scultori de’ bei tempi dell’arte indicassero le vene, vedesi nei frammenti d’una statua colossale del Campidoglio, e nel collo d’una testa pur colossale di Trajano nella villa Albani. L’arte può in qualche modo paragonarsi agli uomini. Come in questi, per avviso di Platone, cresce il piacer di cicalare a misura che il gusto perdono dei piaceri sensibili; così in quella sottentrano le bagattelle in luogo dello stile sublime, che più non si conosce.

Urne sepolcrali di quest'epoca. §. 8. Sono lavori di quelli tempi la maggior parte delle urne, e molti de’ bassi-rilievi, che originalmente formavano i lati di urne quadrilunghe. Fra quelli, sei ne ho osservati che bellissimi sono sovra tutti gli altri, e devon essere de’ più antichi. Tre ve n’ha nel museo Capitolino. Il più grande rappresenta la contesa tra Agamennone e Achille per Criseide23, il secondo le nove Muse24, ed il terzo una pugna contro le Amazzoni25; sul quarto, nella villa Albani, si vedono le nozze di Peleo e Teti cogli dei e le dee delle stagioni, che loro recano dei doni26, il quinto e ’l sesto, nella villa Borghese, rappresentano la morte di Meleagro, e la favola d’Atteone. Que’ bassi-rilievi, che sono stati fatti a parte, e non per ornamento delle urne, distinguonsi da un orlo rilevato.

[p. 133 modifica]§. 9. La maggior parte delle urne sepolcrali lavoravansi dagli scultori per esporle in vendita; e ciò s’inferisce dalle rappresentazioni, che non hanno nessun rapporto né colla persona a cui l’urna ha servito, né coll’incisovi epitafio. Abbiamo di ciò un esempio in una della villa Albani, alquanto guasta, il cui lato anteriore è diviso in tre campi. Nel destro v’è Ulisse legato all’albero della nave per tema di cedere al canto lusinghiero delle Sirene, delle quali una suona la lira, l’altra la tibia, e la terza canta tenendo in mano un rotolo. Hanno esse i soliti piedi d’uccello, ma insolita cosa è il vederle tutte e tre avvolte in un manto. Nel sinistro v’è rappresentata un’adunanza di filosofi. Nel mezzo v’è l’iscrizione seguente, la quale colli due bassi-rilievi non ha il menomo rapporto, e noi qui la diamo per non essere stata da nessun altro pubblicata:

ΑΘΑΝΑΘωΝ ΜЄΡΟΠωΝ
ΟΥΔЄΙС . ЄΦΥ . ΤΟΥΔЄ . СЄΒΗΡΑ
ΘΗСЄΥС . ΑΙΑΚΙΔΑΙ
ΜΑΡΤΥΡЄС . ЄΙСΙ . ΛΟΓΟΥ
ΛΥΧΩ . СωΦΡΟΝΑ . ΤΥΜΒΟС . Є
ΜΑΙС . ΛΑΓΟΝΕССΙ . СЄΒΗΡΑΝ
ΚΟΥΡΗΝ . СΤΡΥΜΟΝΙΟΥ . ΠΑΙ
ΔΟС . ΑΜΥΜΟΝ . ЄΧωΝ
ΟΙΝΗ . ΟΥΚ . ΗΝΕΙΚЄ . ΠΟΛΥС
ΒΙΟС . ΟΥΔЄ . ΤΙС . ΟΥΠω
ЄСΧΕ . ΤΑΦΟС . ΧΡΗСΤΗΝ
ΑΛΛΟС . YΦ . ΗЄΛΙωΙ27


[p. 134 modifica] Lavori fatti fuor di Roma. §. 10. Quando si parla dei monumenti dell’arte nella sua decadenza, è necessario che ben si distinguano le opere che in Grecia o in Roma furono lavorate, da quelle che formaronsi nelle altre città e colonie del romano impero; e tale osservazione non solo riguarda i lavori in marmo o in altre pietre, ma s’estende eziandio alle monete. Circa queste già è stata notata la differenza, e si fa che le monete coniate suor di Roma al tempo degl’imperatori non uguagliano quelle che coniate furono nella capitale; ma non è stata ancora notata la stessa differenza riguardo alle opere di marmo. Si ravvisa però chiaramente ne’ bassi-rilievi che trovansi a Capua ed a Napoli, uno de’ quali nel palazzo Colobrano, rappresentante alcune fatiche d’Ercole, sembrar potrebbe un lavoro de’ mezzi tempi. Ancor più evidentemente si scorge tal differenza nelle teste di varie divinità scolpite ne’ sassi che chiudevano gli archi esreriori dell’antico anfiteatro di Capua, due delle quali sono ancora al proprio sito, cioè Giunone e Diana. Tre altre di queste pietre, rappresentanti Giove Ammone, Mercurio, ed Ercole, vedonsi immurate nel palazzo de Consiglio della nuova città chiamata altre volte Casilino. In appresso avrò occasione di parlare sì dell’anfiteatro, che del teatro di quella città. La maggior parte delle mentovate figure non sono già di marmo, non essendovi marmo bianco nell’Italia inferiore, ma d’una bianca e dura pietra, di cui son pur composti per lo più gli appennini sì in quel regno, che nello Stato ecclesiastico.

§. 11. La stessa differenza può ravvisarsi nell’architettura de’ tempj e delle altre fabbriche che sotto i cesari s’innalzarono in Roma in confronto di quelle che al tempo medesimo si costruirono nelle città provinciali. Si ha di ciò un argomento in un tempio di Milasso nella Caria, che ad Augusto e alla città di Roma era dedicato; e nell’arco eretto [p. 135 modifica]in onore del medesimo Augusto a Susa nel Piemonte, ove i capitelli de’ pilastri hanno tal forma che non sembra mai essere stasa adottata dagli architetti romani28.

Buon gusto anche nella decadenza. §. 12. Può l’antichità riputarsi a gloria che, sino alla decadenza delle arti del disegno, seppe conoscere e far travedere la primiera sua grandezza. Non si estinse mai interamente ne’ Greci il genio de’ padri loro; e le opere de’ tempi posteriori, comechè mediocri siano, pur veggonsi lavorate secondo le massime de’ gran maestri. Le teste conservarono l’idea generale della prisca beltà; e nell’attitudine, nell’azione, nel panneggiamento veggonsi ancora le pure tracce della verità e della semplicità. L’eleganza affettata, la grazia mal intesa, e come sforzata, il gesto smoderato e pieno di contorsioni, che pur si ravvisano anche nelle migliori opere di moderni scultori, non lusingarono mai il gusto degli antichi. Anzi, volendo noi esaminare la capigliatura, troveremo delle eccellenti statue del terzo secolo, che possono risguardarsi come scolpite ad imitazione degli antichi lavori. Tali sono due Veneri di grandezza naturale, nel giardino dietro al palazzo Farnese, le quali hanno ancora la prima loro testa. Una, che è assai bella, l’ha propriamente di Venere, e l’altra di una matrona romana di quel secolo29: si vede in amendue la medesima acconciatura de’ capelli allora usata: [p. 136 modifica]e simile acconciatura ha una men bella Venere della medesima grandezza in Belvedere30. Può annoverarsi fra le belle statue giovanili un Apollo della villa Negroni in figura d’un giovane di quindici anni; la sua testa però non è già quella d’un Apollo, ma bensì d’un principe della famiglia imperiale di que’ tempi31. Si trovavano dunque ancora degli artisti che le belle figure degli antichi sapeano imitare.

Monumento stravagante. §. 13. Prima di terminare quello Capo voglio qui esporre alcune mie osservazioni fu un lavoro straordinario d’una specie di basalte, esistente in Campidoglio32. Rappresenta questo una grossa scimia sedente, le cui zampe davanti s’appoggiano sulle ginocchia, e le manca la testa. Sul destro lato della base di questa figura v’è incisa una greca iscrizione, che così dice: „ Fidia e Ammonio figli di Fidia fecero„. Questa iscrizione, che da pochi è stata osservata, era in certe carte, da cui la copiò Reinesio33, ove era semplicemente indicata, senza additare il monumento su cui si legge; e se non avesse i più manifesti indizj d’antichità credersi dovrebbe supposta. Tal monumento in apparenza dispregevole può meritare l’esame degli eruditi; ed io proporrò intorno ad esso le mie congetture.

§. 14. Erasi stabilita in Africa una colonia greca, che Pithecussae (da πίθηκος scimia) chiamossi a cagione delle molte scimie che in que’ contorni abitavano. Tal bestia, al [p. 137 modifica]riferire di Diodoro34, teneasi colà come sacra, e venìa da que’ Greci venerata, come il cane in Egitto. Libere viveano le scimie nelle case, ciò che loro piaceva prendendone; e quelle genti, che loro aveano date delle denominazioni particolari per onorarle, prendeano poscia i nomi loro per imporli ai proprj figliuoli. Or io congetturo che la scimia di Campidoglio fosse un idolo di que’ Greci pitecusei, scolpito da Fidia e Ammonio, artisti di quel paese; altrimenti io non veggo altro mezzo di spiegare come i nomi di due artisti greci leggansi su un simil moftro dell’arte. Sappiamo che Agatocle re di Sicilia andò ad assalire i Cartaginesi in Africa, e che Eumaco suo generale, penetrando sin nel paese di que’ Greci, una delle loro città depredò e distrusse; ma non dobbiamo quindi inferire che sin d’allora sia quella scimia stata trasportata dall’Africa in Sicilia, come un monumento straordinario; poiché la forma delle lettere dell’iscrizione, che hanno de’ tratti simili alle ercolanensi, indicano un’epoca assai posteriore. E’ per tanto da credersi piuttosto che tale scimia assai più tardi sia stata scolpita, e dal paese de’ Pitecusei portata in Roma sotto gl’imperatori; la qual congettura rendesi ancor più verosimile per due parole rimateci sul lato sinistro della base d’una latina iscrizione. Quella comprendeva quattro linee, ma è stata sì guasta che ora non altro chiaramente si legge, fuorchè VII. COS35. Quindi potrebbe credersi che quella colonia greca sussistesse ancora in Africa ai tempi del mentovato Diodoro, e v’avesse sin a que’ dì mantenuta l’antica superstizione36. Nè questa [p. 138 modifica]scimia è il solo monumento africano che siaci noto. Nella galleria di Versailles si vede una statua muliebre di marmo, che vien creduta una Vestale37, e dicesi trovata a Bengazi, che si vuole fondata sulle ruine di Barca capitale della Numidia.

Recapitolazione. §. 15. Risulta dal sin qui detto ne’ tre primi Capi di questo Libro potersi fissare quattro differenti gradi nello stile, de’ greci artisti; cioè il secco e duro, il grande ed angoloso, il bello e morbido, e quello degl’imitatori.

§. 15. A questi stili corrispondono le quattro epoche: la prima dai cominciamenti dell’arte avrà durato sino a Fidia; la seconda da questo sino a Prassitele, Lisippo, e Apelle; la terza avrà avuto fine colla scuola di questi gran maestri; e la quarta durò sino all’intero decadimento delle arti del disegno. Il fiore dell’arte sostennesi poco più d’un secolo, cioè cento venti anni, quanti ne scorsero da Pericle [p. 139 modifica]alla morte d’Alessandro il Grande, dopo di cui cominciò a declinare.

§. 17. Riandando i varj periodi dell’arte, trovo molta analogia tra i tempi antichi e i più vicini a noi, e in quelli pur ravviso quattro stili, e quattro epoche principali; se non che quello che in Grecia succedè lentamente, qui avvenne quasi tutto in un tratto; e dove presso i Greci l’arte allontanossi a poco a poco dalla sublimità e dalla eccellenza a cui era giunta, presso di noi dal più alto grado, a cui era stata portata dai due gran genj del disegno (e di questo solo io qui parlo), cadde repentinamente quando essi mancarono.

§. 18. Sino a Raffaello e Michelangelo lo stile era stato secco e duro; e nel richiamar l’arte alla sua perfezione quelli non ebbero gli eguali. Vi fu quindi un vuoto in cui regnò il cattivo gusto, e a quello succedette lo stile degl’imitatori, quali furono i Caracci colla loro Scuola e i loro seguaci: quello periodo durò sino a Carlo Maratta. Se però si parli della scultura semplicemente, brevissima n’è la storia: quest’arte fiorì con Michelangelo e Sanfovino, e perì con loro38. Algardi, Fiammingo, e Rusconi vennero un secolo dopo.

Avvertimento. §. 19. Quanto ho detto sin qui sull’arte de’ Greci, l’erudizione che v’ho sparsa, e le osservazioni che a luogo a luogo vi ho inserite, tutto può servire sì all’amatore che all’artista, in guisa che esaminando essi pure le cose da me indicate, e [p. 140 modifica]leggendo gli autori che su quest’argomento hanno scritto, avranno ancor molto da aggiugnervi. Devono essi però nel contemplare i rimastici monumenti dell’arte greca aver per principio che in quelli nulla v’ha di piccolo, e ciò che sembra facile ed ovvio è per avventura simile all’uovo di Colombo. Nè si pretenda di tutte verificare in un mese o due in Roma le osservazioni da me fatte, ancorché abbiasi il libro alla mano. Siccome il più e ’l meno è ciò che distingue un artista dall’altro, così dalle piccole cose si conosce un buon osservatore; e ’l piccolo porta al grande. Altro è lo studio sull’arte degli antichi, altro è la scienza dell’antiquaria: in quella è difficile lo scoprire qualche cosa di nuovo, sebbene i pubblici monumenti dell’arte s’esaminino a quest’oggetto; ma riguardo all’arte, eziandio ne’ più conosciuti lavori, vi si può sempre trovare qualche parte o qualche rapporto inosservato. Il bello e l’utile non possono concepirsi al primo sguardo, come pretendea d’aver fatto certo pittor tedesco, che due sole settimane si trattenne in Roma: ciò che è difficile e di peso non resta alla superficie, ma dee cercarsi al fondo. L’uomo sensibile, al primo vedere una bella statua, rimane sorpreso, come colui che mira per la prima volta l’oceano: lo sguardo si perde a principio, ma continuando a mirare, cessa la commozione dello spirito, e l’occhio fatto più tranquillo passa dal tutto ad esaminare le parti. Un buon osservatore deve spiegare a sè stesso le opere dell’arte, come se avesse a esporre ad altri un antico scrittore; poiché avviene al guardar quelle, come a leggere un libro: si crede d’intenderlo quando si legge; ma non s’intende più quando si deve interpretare, e si richiede allora uno studio profondo ajutato da estese cognizioni: altro è leggere Omero, altro è leggendo tradurlo.


Note

  1. È egli poi vero quanto qui asserisce l’Autore, che gli dei e gli eroi sieno stati rappresentati sotto tutti gli atteggiamenti possibili, e che la somma delle forme sia stata, a così dite, esausta, talchè sia di poi riuscito impossibile l’immaginarne delle nuove? Volendoci noi attenere all’arte stessa del disegno, riconosceremo di leggieri che un soggetto solo può esser espresso in molte e sempre nuove maniere. In quante guise non è mai stata dipinta la sacra Famiglia non solamente da più pennelli eccellenti, ma dal solo Raffaello, senza che nondimeno siasi esausta la materia? Se gli artisti avessero continuato ad essere fedeli ed esatti imitatori de’ loro maestri, non sarebbe al certo decaduta l’arte, sinchè almeno mancato non fosse chi con premj e con mercedi avesse fomentata ne’ medesimi la nobile emulazione. Il risorgimento delle arti in Italia ebbe il suo principio dall’imitazione delle opere grandi degli antichi. La cagione per tanto della decadenza dell’arte, se ascoltiamo Vitruvio l. 7. cap. 5., è stato un certo spirito di novità, per cui essendosi lasciato da banda il vero e il naturale seguitato dai maggiori, si fece più caso dello stravagante e del maraviglioso. Secondo Plinio però lib. 35. cap. 1. il motivo e stato il gusto pei marmi preziosi, e pei lavori in oro, coi quali in vece di quadri coprivansi le pareti. Un’altra cagione di ciò si assegna da Petronio Satyr. pag. 324., cioè in parte una insaziabile avidità di ricchezze da gettarsi poi in ogni sorta di vizio, in parte una certa torpidezza di spirito: effetto della totale corruttela de’ costumi, per cui non faceasi verun conto delle belle opere dell’antichità, oppure divenivan esse l’oggetto della critica. Secondo i diversi tempi hanno avuto luogo tutte le addotte cagioni del decadimento dell’arte presso gli antichi: quella indicata da Vitruvio è stata come la foriera delle altre, delle quali parlano Plinio e Petronio. Uno spirito di novità simile;; a quello, di cui si querelava Vitruvio, riprodottosi presso molti de’ moderni artisti, seconidato di più dal genio de’ ricchi signori, ha recata già un crollo sensibile non meno alla pittura che alla staruaria ed all’architettura: havvi motivo di temere che anche le altre cagioni non abbiano alla fine a portar loro un colpo fatale.
  2. Vegg. Bruckero Histor. crit. philos. Tom. iI. par. iI. par. I. lib. I. c. iI. sect. IV. pag. 159. segg.
  3. Inst. Orat. lib. 2. cap. 3.
  4. Forse Quintiliano se avesse parlato di artista avrebbe dovuto pensare, e dire così; ma dice tutto l’opposto; come ha rilevato anche il sig. Falconet Sur deux ouvrag. de Phidias, œuvr. Tom. V. p. 109. Egli dice, che un valente oratore deve sapere anche le cose più minute dell’arte oratoria; e lo conferma col paragone di Fidia, dicendo, che altrimenti sarebbe lo stesso, che il voler pretendere, che un altro artista avesse fatto meglio di quel gran maestro gli ornamenti della statua del Giove olimpico: Nisi forte Jovem quidem Phidias optime fecit, illa autem, quæ in ornamentum operis ejus accedunt, alius melius elaborasset: e in fatto il paragone è giusto; perchè Fidia appunto fece anche gli ornamenti della sua statua, in basso-rilievo, come narrano Pausania lib. 5. c. 11. pag. 402. seg., e Plinio lib. 36. cap. 5. sect. 4. §. 4. il quale aggiugne, che esso fece vedere con tutti questi lavori, quanto fosse eccellente nel lavorare in piccolo come in grande: Hæc sunt obiter dicta de artifici numquam satis laudato: simul ut noscatur illam magnitudinem æqualem fuisse & in parvis; e lo abbiamo notato già sopra pag. 9., ove si è parlato della di lui maestria nel fare bassi-rilievi. Lo stesso Plinio lib. 4. cap. 8. sect. 19. §. 6. attesta di Lisippo, che all’essere valente nei grandi lavori aggiugneva un impegno particolare nell’attendere anche alle cose più minute: Propria hujus videntur esse argutia operum, custoditæ, in minimis quoque rebus: e così potrebbe farsi vedere di altri de’ più bravi artisti.
  5. Plutarch. De musica, oper. Tom. iI. pag. 1142. B.
  6. Questo busto è lavoro d’Apollonio figlio d’Archia ateniese, siccome appare dall’iscrizione: ΑΠΟΛΛΩΝΙΟΣ ΑΡΧΙΟΥ ΑΘΗΝΑΙΟΣ ΕΠΟΗΣΕ, non già ΑΡΧΗΟΥ come ha letto Bajardi Cat. de’ Mon. d’Ercol. num. 219. pag. 170., nè ΕΠΟΙΗΣΕ , come vuole Martorelli De reg. th. cal. lib. 2. cap. 5. pag. 424. Il primo prende ΕΠΟΗΣΕ, che dovrebb’essere ΕΠΟΙΗΣΕ per un’antica maniera di scrivere; il che può esser vero, quando si voglia derivare dall’antico verbo eolico ποέω. V. Chishull Antiq. asiat. ad inscr. sig. pag. 39. Questo stesso verbo però si trova usato da alcuni poeti, Aristoph. Equit. act. 1. sc. 3. vers. 464., Theocr. Idyl. 10. vers. 38., ed alla medesima maniera è scritto nell’epigrafe della Venere Medicea, e in un’altra iscrizione nella cappella di Pontano a Napoli, de Sarno Vita Pontani, p. 97., la quale certamente è d’un tempo posteriore. Ho pure incontrata questa voce nell’iscrizione seguente ricavata dai mss. di Fulvio Ursino, esistenti nella biblioteca Vaticana:

    С Ο Λ ω Ν
    Δ Ι Δ Υ Μ Ο Υ
    Τ Υ Χ Η Τ Ι
    Є Π Ο Η С Є
    Μ Ν Η Μ Η С
    Χ Α Ρ Ι Ν.


    Trovasi eziandio su un’iscrizione della villa Altieri, e nella raccolta di Caylus Rec. d’Antiq. Tom. iI. Antiq. grecq. pl. 75.; onde non è sì inusitata, come pretende Gori Mus. Fior. Statuæ Tab. 26. pag. 35., nè un sì grand’errore per cui dovess il signor Mariette Traitè des pierr. grav. Tom. I. pag, 102. credere supposta l’iscrizione della Venere Medicea, [ ripetendo le ragioni del Gori. Si può anche vedere ciò che scrive intorno a questa iscrizione il signor Falconet Discussion un peu pedantesque sur la Venus de Mèdicis, oeuvr. Tom. iI. pag. 320. segg. Io aggiugnerò qui una osservazione: cioè che ultimamente nel ripulire dal tartaro, e dalla calce l’ara di Alcesti collocata nel gabinetto xv. della galleria Granducale a Firenze, vi si è scoperta sulla base l’iscrizione, che porta il nome dello scultore: ΚΛΕΟΜΕΝΗΣ ΕΠΟΙΕΙ: Cleomene faceva. Il nome di Cleomene ricordato anche da Plinio lib. 36. cap. 5. sect. 4. §.10. conferma la sincerità dello stesso nome, che ha l’artista scritto sulla base della Venere suddetta; e dal confronto dello stile potrà chi ne ha il comodo esaminare se sia lo stesso scultore di amendue que’ monumenti, e se abbia fiorito nell’epoca degli allievi di Prassitele, e di Lisippo, secondo varie congetture, al dire del signor Lanzi, che ci dà notizia di quella scoperta nella più volte citata descrizione di quella galleria inserita nel Giornale de’ Letterati Tom. XLVII. anno 1782. art. I. c. 13. pag. 167.; ma poi resta da riflettersi sul verbo, che qui è ΕΠΟΙΕΙ; e sulla Venere la tanto contrastata parola ΕΠΩΕΣΕΝ, di cui parlano Gori, Mariette, ed altri. Il citato signor Falconet, il quale propende a credere, che il vero nome dell’autore della Venere sia Diomede anzichè Cleomene, perchè così è scritto in diversi gessi di quella, che si trovano in Olanda; e che sull’originale di Firenze tal nome possa essere stato convertito in quello di Cleomene dopo che furono fatti que’ gessi, perchè non fosse noto il nome di Diomede, non avrà forse letto il Maffei Raccolta di statue, ec. alla Tavola 27. ove ne dà la figura, e avverte appunto, che il vero nome è Cleomene, mutato sul rame in quello di Diomede dall’intagliatore disattento: e forse da questa figura in rame farà l’errore passato ai gessi. Converrà però dire, che l’intagliatore, o il disegnatore abbia sbagliato anche nell’altra parola, e che non vi abbia badato lo stesso Maffei, scrivendo ΕΠΟΙΕΙ invece di ΕΠΩΕΣΕΝ; seppure questi non l’ha corretta, come vuole il Gori l. cit.

  7. Bronzi d’Ercol. Tom. I. Tav. 45. 46. ove è creduto di Augusto giovane.
  8. Come lo è nella moneta d’Alessandro il Grande data qui avanti alla pag. 105., presa dal Museo Borgiano in Velletri.
  9. Petron. Sat. pag. 10.
  10. De pict. vet. lib. 2. cap. 11. pag. 130.
  11. Pitt. d’Ercol. T. IV Tav. 68. 69. seq.
  12. Il signor Paw Recherches philos. sur les Egyptiens, & les Chinois, Tom. iI. par. 2. sect. 4. pag. 274. non approva questa spiegazione delle parole di Petronio, e pretende doversi leggere Ectyporum in vece di Ægyptiorum. Sotto il nome di Ectypa intende un’arte particolare di copiare facilmente i migliori quadri, per cui, anche senza sapere il disegno, si fissavano i contorni e i fatti principali, che riempievansi poi de’ colori convenevoli. Quest’arte, dic’egli, portò un colpo mortale alla pittura: si trascurò il disegno, e solo si pensò a procurarsi dalle Indie orientali de’ bei colori. Conviene però che la voce Ectypa si usa da Plinio in un senso ben differente; ma è nota, soggiunge egli, la licenza di Petronio nelle figure e nelle metafore; [ non però a segno di parlare barbaramente. Il signor Paw doveva poi osservare, che Vitruvio non si lagnava, che l’arte decadesse per ragione del disegno; ma per li soggetti, che rappresentavano i pittori, i quali parevano mostri per la composizione: il che non si sarebbe potuto dire se avessero copiato i quadri degli antichi. Veggasi la nota seguente.
  13. pag. 142. Tomo I.
  14. lib. 7. cap. 5.
  15. Tali pitture diconsi da noi grotteschi o arabeschi; e forse le qui descritte e disapprovate da Vitruvio, sono simili a quelle delle Terme di Tito in Roma, che scoperte furono ai tempi di Leone X., e imitate allora dal gran Raffaello nelle logge Vaticane; e che nuovamente trovate in questi ultimi anni, sono state nel 1776. e segg. pubblicate in gran foglio da Lodovico Mirri. Il signor abate Carletti, che ha spiegate quelle pitture Le ant. cam. delle Terme di Tito, ec., p. 9. si argomenta di sostenerne il merito, dicendo che piacer devono per la vaghezza, e perchè nella stravaganza loro somigliano ai sogni che pur dilettano, ancorché fantastici siano e rappresentino cose che non possono esistere in natura.
  16. Perchè meglio s’intenda la spiegazione data da Winkelmann al passo di Petronio, riporterò per esteso le parole di Vitruvio secondo la traduzione del sig. marchese Galiani. “Queste pitture però, che erano dagli antichi copiate da cose vere, sono ora per depravato costume disusate; giacchè si dipingono su gli intonachi mostri piuttosto, che immagini di cose vere. Così in vece di colonne si pongono canne, e in vece di frontespizj arabeschi scanalati ornati di foglie ricce, e di viticci: o candelabri, che reggono figure sopra il frontespizio di piccole casette, o molti gambi teneri, che sorgendo dalle radici con delle volute racchiudono senza regola figurine sedenti: come anche fiori, che usciti dai gambi terminano in mezzi busti, simili alcuni ad effigie umana, altri a bestie: quandochè queste cose non vi sono, non vi possono essere, nè mai vi sono state: e pure queste nuove usanze hanno prevaluto tanto, che per ignoranti falsi giudizj si disprezza il vero valore delle arti. Come può mai infatti una canna veramente sostenere un tetto, o un candelabro una casa cogli ornamenti del tetto, o un gambicello così sottile e tenero sostenere una figura sedente, o pure da radici, e gambi nascere mezzi fiori, e mezze figure? E pure gli uomini non ostante che tengano per false quelle cose, non solo non le riprendono, ma anzi se ne compiacciono, non riflettendo se possano essere, o no queste cose: onde la mente guasta da’ falsi giudizi non può discernere quello, che può essere, o non essere per ragione, e per regole al decoro. Nè mai si debbono stimare pitture, che non siano simili al vero; ed ancorchè fossero dipinte con eccellenza, pure non se ne deve dar giudizio, se non se ne troverà prima col raziocinio la ragione chiara, e senza difficoltà„. Secondo questa maniera, almeno in qualche parte, si possono dire molte pitture del museo Ercolanese, e tra le altre quelle riportate nel Tomo iiI. di esse Tav. 55. 56., Tom. V. Tav. 73-76., oltre quelle citate sopra da Winkelmann. È però da notarsi, che quella maniera di dipingere non è quella di Ludio, come crede il nostro Autore qui, e sopra pag. 73. §. 28., supponendo, che le pitture di detto museo siano tutte della stessa maniera, come ho accennato sopra pag. 71. col. 2. . Vitruvio avea parlato prima della maniera di dipingere vedute, paesini copiati dal naturale, porti, fiumi, fonti, boschi, pastori, case di campagna, tempj, ed altri consimili soggetti, che appunto si vedono generalmente nelle dette pitture Ercolanensi; e ne avea parlato lodandola, e poi dolendosi nel principio delle parole riferite, che non fosse più usata. Vero è ch’egli non nomina Ludio, ma parla certamente della di lui maniera; e ci fa capire che non ne fosse quegli l’inventore, come pare voglia dir Plinio lib. 35. cap. 10. sect. 37. con quel primus instituit; ma soltanto il propagatore, come bene osserva il lodato Galiani pag. 280.
  17. lib. 18. cap. 40. sect. 76. §. 2.
  18. Plinio loc. cit. lo dice anche degli Egiziani, tra i quali Diodoro lib. 1. §. 57. p. 63. nomina il re Sesostri, che dedicò in un tempio d’Egitto una nave di cedro lunga 280. cubiti, dentro foderata d’oro, e fuori d’argento. Degli uni e degli altri lo dice pure Teofrasto Hist. plant. lib. 6. cap. 8., copiato forse da Plinio; ma però aggiugne, che il cedro è attissimo a far navi egualmente che il pino, e l’abete: infatti le navi, e altri legni che si fanno all’Avana in America col cedro riescono a maraviglia e per la leggerezza, e incorruttibilità. Caligola, per puro lusso, come narra Suetonio nella di lui vita cap. 37., fece fare di cedro alcune navi di quelle dette liburniche.
  19. lib.. cap. 16. pag. 247. princ.
  20. Tom. I. pag. 288. loc. cit.: En la représentant comme les femmes se mettent aujourd’hui.
  21. Ai tempi di Plinio, ed anche prima, s'introdusse in Roma la moda, derisa pubblicamente con delle satire, di mutare le teste alle statue antiche di uomini illustri, adattandovene delle nuove, Plin. lib. 35. c. 2. sect. 2. princ.: e questa sarà una ragione per cui si trovano tante statue, principalmente delle togate, senza la testa propria; o almeno con testa lavorata a parte: onde non avrà da prenderli per regola generale ciò che ha scritto Winkelmann qui avanti pag. 11.
  22. Acad. lib. 1. cap. 5.
  23. Museo Capitol. Tom. IV. Tav. 1 - 4., ed è l’urna di cui ho parlato nel Tom. I. p. 40. not. b. Ne parla più a lungo il nostro Autore nei Monum. anc. ined. Par. iI. c. 6. p. 166.; più minutamente, variando in qualche cosa da Winkelmann, Foggini nella esposizione delle dette Tavole.
  24. Ivi Tav. 26. Se ne è parlato nel Tomo l. pag. 333. not. b., pag. 337. not. a.
  25. Ivi Tav. 23.
  26. Monum. ant. ined. n. 111., ove l’Autore Par. iI. cap. 1. §. 2. pag. 151. e segg. ne dà una lunga esposizione.
  27. Aggiungeremo qui la traduzione latina letterale di quello epigramma.

    Immortalis nullus hominum natus est. Hujus Severa,
              Theseus, Æacidæ testes sunt sermonis.
    Glorior ego tumulus meis lateribus honestam Severam
              Puellam (seu filiam) incomparabilem pueri (seu filii) Strymonii tenens,
    Qualem multa ætas non protulit, neque aliquis usquedum
              Tumulus alius sub sole tenuit (ita) optimam.

  28. Potremo eccettuarne il tempio di Nimes in Francia, conosciuto sotto il nome di Maison quarrée, che il sig. Barthelemy Mém. sur les anc. monum. de Rome, Acad. des Inscr. Tom. XXVIII. Mém. pag. 580. dice da paragonarsi ai più belli avanzi di Roma, e di Atene; e gli artisti, e i letterati ne convengono generalmente. Si veda Clerisseau, che ne dà la descrizione, e le tavole in rame nelle sue Antiq. de France, prém. part. Antiq. de Nismes, princ. È dedicato a Lucio, e Cajo cesari figli adottivi di Augusto, come si rileva dalla iscrizione posta sulla facciata quale siegue:

    C. CAESARI. AVGVSTI.F. COS. L. CAESARI. AVGVSTI.F. COS. DESIGNATO

    PRINCIPIBVS. IVVENTVTIS

  29. Sono ritratti amendue, e la prima sola ha la testa sua attaccata. L’altra testa è cattiva, e moderna. In quello tempo, ch’io scrivo, si restaurano dal valente scultore sig. Carlo Albicini per essere trasportate nel real Museo di Napoli. Vedi la nota degli Editori Milanesi in fine del Libro XI.
  30. Rappresenta Sallustia Balbia Orbiana moglie d’Alessandro Severo, come già ho accennato nel Tomo I. pag. 410. not. a., e come si ridirà in appresso al capo IV. §. 1.
  31. Se la bella testa, qui accennata, rappresenta un principe di que’ tempi, essendo questa ricavata dal naturale, dimostra che lo scultore sapesse far qualche cosa di più che imitare. Lo stesso dir si può della bella testa della dama romana, de’ busti di Macrino, di Settimio Severo, e di Caracalla rammentati di sopra da Winkelmann, ne’ quali egli ravvisa de’ tratti di singolare bellezza e perfezione.
  32. Nel cortile del palazzo de’ Conservatori.
  33. Inscript. cl. 2. n. 62., & ex eo Cuper. Apoth. Hom. p. 134. [ Reinesio porta l’iscrizione intiera, come era forse anche ai tempi dell’Olstenio, di cui cita le schede, o carte inedite, in questa maniera:

    ΦΙΔΙΑС ΚΑΙ ΑΜΜΟΝΙΟС ΑΜΦΟΤΕΡΟΙ
    ΦΙΔΙΟΥ ΕΠΟΙΟΥΝ

    Fidia e Ammonio l’uno e l’altro figli di Fidia fecero. Ora è mutilata l’ultima parola della prima linea, e le tre ultime lettere dell’altra parola accanto. Il sigma ha la forma di C, non di Σ, come porta Reinesio.

  34. lib. 20. §. 58. Tom. iI. pag. 449.
  35. Queste note se si volessero riferire ai tempi della repubblica non ad altri potrebbono convenire che a C. Mario, il quale fu console per la settima volta: avanti di lui nessuno avea fatti più consolati di Valerio Corvino, che pure non oltrepassò il sesto, Plutarch. in C. Mario, op. Tom. I. p. 422. B. Ma, come avvisammo, le lettere indicano l’età de’ cesari, in cui non è raro di trovare il settimo consolato. [ Nella detta iscrizione COS. vi si legge chiaramente; ma il numero VII. non ho saputo trovarvelo.
  36. Questo monumento non meritava tante osservazioni. Rappresenta un cercopiteco, o scimia colla coda, simile in tutto a quello della villa Albani, di cui si è parlato nel Tomo I. pag. 88. not. b., e se n’è data la figura nella Tav. IX.; fuorchè è un poco più grande, e non ha testa, che ha il secondo. Il nostro Autore per darne la spiegazione ha trovato nel detto luogo di Diodoro una cosa, che non v’è stata mai; perocchè egli non dice altro se non che Eumaco capitano di Arcagato generale di Agatocle tiranno di Sicilia penetrò nell’Africa superiore, ove erano tre città, da lui prese, le quali aveano il nome dalle scimie e per la quantità che ve n’era, e per il culto loro predato da quegli abitanti; e che se si fossero dovute nominare con nome greco, per tale ragione potevano chiamarsi Πιθηκοῦσσαι; Pithecussæ.; niente parlando di colonia greca, ma dicendo anzi barbari quegli abitanti. Troveremo più facilmente la ragione, che cerca Winkelmann degli autori di quella figura, se riflettiamo, che quella scimia era venerata nell’Egitto, come già notammo al luogo citato del Tomo antecedente, e alla pag. 89. e 99.; e come potrebbe provarsi con tante altre autorità, e monumenti oltre quello della citata Tav. IX., fra i quali può nominarsi una figurina di essa bestia grande circa un pollice, che ha servito di amuleto, ed ha incisi da una parte dei geroglifici, custodita nel Museo Borgiano in Velletri. Che difficoltà vi sarebbe a credere che Fidia e Ammonio l’abbiano fatta in Alessandria, o in altra città di quel regno, ove erano stabiliti i Greci, per uso di questi, se la veneravano, o degli stessi Egiziani ? Potrebbe aver servito a qualche superstizioso della Grecia stessa, giacché abbiamo da Sesto Empirico Pyrrkon. hyp. l. 3. c. 24. p. 155. D. che v’era colà chi non arrossiva di prestar venerazione alle tante bestie dell’Egitto. V’erano alcune isole vicine ad Utica in Africa, dette Pitecusse dalle scimie, nominate da Scilace Peripl. pag. 48.; e così chiamavasi un’isola del mar tirreno incontro alla Campania, ove era una città greca secondo lo stesso Scilace pag. 3., di cui parla Winkelmann Tom. I. pag. 211.; e l’isola era stata così chiamata per le scimie, che vi furono mandate per fare scherno a quegli abitanti, se crediamo a Servio ad Æneid. lib. 9. v. 715. Vegg. Salmasio Plin. exercit. in Solin. cap. 3. Tom. I. pag. 68.
  37. Tomassin Recueil des stat. group. ec. de Versailles Tom. I. pl. 9.
  38. Per voler il sig. Winkelmann far maggiormente risaltare i contraposti, gli ha alterati troppo, e renduti perciò inverisimili. Che i pittori venuti in seguito a Michelangelo e a Raffaello non abbiano potuto star loro del pari, di comune consenso si ammette dai conoscitori; ma che dopo i medesimi abbia per alcun tempo dominato in generale un gusto cattivo, non s’accorderà sì facilmente da chi ha vedute le opere di Giulio Romano e di altri pittori usciti dalla scuola d’amendue i nominati eccellenti maestri. Anche nella scultura, benché non abbia continuato ad essere esercitata con quella maestria che ammirasi nelle opere dello stesso Michelangelo e del Sansovino, ciò non per tanto non molto dopo di essi lo Scilla e il Porta milanesi, il Serzana ed altri bravi scultori hanno lasciato delle opere assai pregiate in Roma stessa e altrove.