Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VI/Capo I
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CAPO PRIMO.
Qual era il regno al 1806.
I. Prima che io descriva i mutamenti di stato, i nuovi re, le continue per dieci anni guerre o domestiche brighe, le tristizie degli uomini e di governi, e fra tanti moti e travagli la migliorata ragione del popolo e le più provvide leggi, mi fia bisogno rappresentare lo stato del regno al 1806; che sebbene apparisca da cinque precedenti libri, io spero che le cose in quelli sparsamente narrate, sarà grato a’ leggitori vederle in quadro e a tal punto dell’opera, che più importa per giudicare de’ due regni di principi francesi. Se non che a rammentare più che a descrivere fatti o dottrine sarò brevissimo quanto basti a ricordi; desiderandomi leggitori attenti e continui, e non curando di ajutare per lunghe narrazioni e riprese la tardità di coloro cui piaccia il leggere ozioso e svagato.
II. Al finire dell’anno 1805, reggevano la giustizia civile le dodici legislazioni discorse nel primo libro, le quali non disposte a codice, ma confusamente recate in molti volumi, stavano aperte a' litiganti ed a’ giudici; quindi le interpretazioni, le glosse, il confronto delle nuove alle antiche leggi, i casi, i dubbii legali davano materia ad altri libri, e servivano di autorità e di logica nelle contese. La giurisprudenza non era una scienza: ogni lite, comunque assurda, trovava sostegno in qualche dottrina, ed il maggior talento e la fortuna de’ giureconsulti consisteva nelle astutezze legali; sì che ancora sono in fama il Mazzaccara e ’l Trequattrini, benchè il foro acuto e malo ingegno fiorisse nel mezzo della passata età. Al considerare il corpo delle leggi essere l’opera di venti secoli, e quanti e quali i legislatori, come varie le costituzioni dello stato, le occorrenze dei principi, le condizioni de’ popoli, ciascuno intende che da codici discordanti non potevano procedere costanti regole di giustizia, nè sentimento comune di doveri o diritti.
Così delle leggi. Erano i magistrati que’ medesimi del regno di Carlo; ma regola suprema, non scritta, sempre usata, turbava ed invertiva gli ordini, dava nuovi poteri o toglieva i già dati, gli scemava o accresceva a piacimento del re. Spesso il favore di questo o la sola intemperanza d’imperio aggiungeva nuovi giudici agli ordinarii; componeva magistrati novelli, prescriveva nuove forme, nuovi processi, donde i nomi di ministri aggiunti e di rimedii straordinarii, si conti nella storia della curia napoletana. Da questi giudici, da quelle leggi discendevano giudizii lunghi, intrigati e così lenti, che nella causa tra........ e........... contesero sessantasette anni per conoscere solamente il magistrato cui spettava il giudizio. Nè mai sentenza aveva effetto sicuro, potendo distruggerla il ricorso per nullità o ad appello, e le astuzie forensi (che pur dicevano rimedii legali), e più spesso la volontà regia, quasi legge sopra le leggi che sospendeva il corso di alcune di esse, lo accelerava di altre, aboliva le antiche, e novelle ne creava. Per le quali sfrenatezze il procedimento non era calma necessaria di atti legali, ma un aggregato di fatti varii quanto i casi di fortuna o di regia volontà.
Assai peggiori de’ giudizii civili erano i criminali: inquisitorio il processo, inquisitori gli scrivani; magistrato, la regia udienza o il commissario di campagna o la vicaria criminale. Disusata la tortura agli accusati ed ai testimonii, non cessavano i martorii di carcere, di ceppi, di fame. Tassavano le prove, il delitto che più ne aveva, più gravemente punivasi; e così gl’indizii, non più argomenti alla coscienza de’ giudici, bensì membri del delitto, apportavano secondo il loro numero pena maggiore o minore di galera o di carcere. Durava, peggiorato, il giudizio del truglio (ignoro le barbare origini del vocabolo e della pratica), maniera di compromesso tra fiscale e lo stipendiato dal re difensore degli accusati, per cui questi andavano improvviso dal carcere alla pena d’esilio o di galere, non sentiti, non difesi, nemmeno compiuto il processo, contati e non scelti tra detenuti, a solo fine di vuotar presto le carceri e schivare il tedio de’ giudizii. Era il comando regio ne’ processi criminali così continuo, che spesso dopo il delitto il re componeva il magistrato da giudicare, prescriveva il procedimento e la pena, come vedemmo nelle cause di maestà l’anno 1799. I giudizii ad horas e ad modum belli erano frequenti. Due volte, magistrati diversi, per accusa di parricidio, si divisero in parità tra la colpa o la innocenza; ed il re Carlo, banchè pio, tenendo certa la colpa, e fastidito della ritardata pena, ruppe le more comandando che l’accusato capitano Galban morisse sulle forche. E perciò tra i molti errori della napoletana legislazione era massimo la servitù cieca de’ giudici all’arbitraria volontà del principe.
III. Rappresenterò della finanza il peso e gli effetti sulla ricchezza pubblica. Erano dazii tra i principali: il testatico, chiamato di once a fuoco, tassato dal fisco per comunità, spartito nelle famiglie per teste; il solo vivere generava tributo: gli arrendamenti, dazii sopra le materie di consumo, in gran parte venduti, volgendo a privato guadagno il benefizio che deriva dal cresciuto numero e più largo vivere del popolo: la prediale, nominata decima, fallacemente ripartita su le volontarie rivelazioni de’ possessori, favorendo le terre della chiesa e lasciando libere le regie e le feudali. Pagavano i baroni le antiche taglie dell’Adoa, del Rilevio, del Cavallomontato, leggiere e disuguali. Fruttavano al re il demanio regio e, d’esso parte, la dogana di Foggia (della quale dovrò dir tra poco, trattando del Tavoliere di Puglia), e molti impieghi venduti anche di giustizia. Così sconosciuti il principio delle rendite e l’uguaglianza ne’ tributarii, molti pesi pubblici distribuiti a caso e a favore e senz’ordine riscossi versavano ogni anno nella cassa regia sedici milioni di ducati.
La proprietà stava in poche mani quasi immobile per feudalità, primogeniture, fideicommissi, vincoli della chiesa e di fondazioni pubbliche; perciò ricchi i monasteri e i vescovadi, ricche le baronie e le commende, povero il resto. Le industrie poche, la natural copia de’ prodotti menomata dalla improvvidenza delle leggi e de’ reggitori, stabilita l’annona in ogni comunità, l’uscita dei frumenti vietata per ogni lontano sospetto di scarsezza, tutti gli errori di economia pubblica riguardati come sentenze. Le manifatture scarse e rozze, perchè poche le macchine, poveri i capitali, pericolose le associazioni, il miglioramento delle arti impossibile. Il commercio servo; soggette a dazio ogni entrata, ogni uscita; troppo tassati i prodotti d’industria o d’arti straniere sotto specie di giovare a’ proprii, ma questi rozzi e cari, perciò il capitale della consumazione accresciuto, i capitali riproduttivi distrutti o tenui. Essendo le opere pubbliche a cura della finanza, raramente se ne imprendevano, o cominciate compivansi; e intanto le comunità pagavano, per far nuove strade, tasse gravose, rivolte oscuramente ad altri usi o capricci del re e de’ ministri. Vedevi grandi pianure fertili un tempo, abbandonate alle acque; il Garigliano, il Volturno, l’Ofanto mal contenuti fra’ margini; il lago Fucino, alzando di giorno in giorno, sommergere terreni e città; sboscate le montagne, le pianure imboschite.
IV. L’amministrazione non avea leggi proprie, nè ministro presso il re, nè magistrato nelle province che se ne desse pensiero. Ciò che dipoi è stato inteso col nome di amministrazione e affidato al ministro dell’interno andava spicciolato fra gli altri ministeri, o abbandonato o ignoto. Le entrate municipali nascevano da proprietà o da tasse, con le quali accumulate pagavano i tributi al fisco; del resto giovando per invecchiato genio di prepotenza a’ maggiori possidenti delle comunità, serbandone poca parte a’ bisogni pubblici. La separazione de’ patrimonii fiscale e municipale, la strettezza del primo, l’ampiezza dell’altro, sono indizii della prosperità di uno stato, come le condizioni opposte attestano la sua miseria.
Amuninistravano le rendite comunali un sindaco e due eletti, il municipale consiglio mancava, gli eleggeva per gride il popolo chiamato a parlamento, la qual civile instituzione, non pari alle altre, era nocevole; falsa e sterile apparenza di libertà in quelle incomposte radunanze di plebe, servi, e poveri, e sfaccendati: brigavano le scelte per danari e tumulti; i conti erano dati tardi o non mai; il patrimonio comune fraudato, e le revisioni fallaci per complicità, o pericolose per vendette. Mancava l’amministrazione di distretto e di provincia; un tribunale supremo di ragionieri sedente in Napoli (la Regia Camera) giudicava lentamente i conti municipali, ignorandone le origini. L’ordine della pubblica amministrazione mancava affatto nel regno.
V. Le cose dette dell’esercito in ogni libro, e più nel libro quinto, schiariranno quelle che son per dire intorno ad alcune condizioni di guerra proprie al terreno ed alla storia di Napoli. Ultima parte della Italia è questo regno; il mare lo confina in tre lati, si unisce per il quarto alla terra: la Sicilia, che sarebbe sua cittadella se alla vicina Calabria per opere militari fosse congiunta, n’è separata dalla nudità della marina, dal procelloso canale del Faro, e dal nemico genio degli abitanti. La posizione geografica del reame non dà scampo ai difensori; estremo è il cimento, estremo il combattere: e in tanta disperata sorte disputandosi nelle guerre antiche e moderne non già una città, un porto, una provincia, ma il regno intero, le armi sempre decidevano del governo e dello stato, della vita e delle fortune dei cittadini. Di là viene che il maggior numero pensando alla vastità dei pericoli, la sperato salvezza dal rassegnarsi al nemico. Esiziale e insensato amor di se stesso, ma necessario effetto del grossolano ragionare di popoli usati alla servitù; così miseri da sperare più che temere le novità di governo.
Ed aggiungi che nelle guerre di Napoli, sempre mosse o secondate da politiche fazioni, i soldati ad un tempo combattenti e partigiani, vedendo unite a’ cimenti delle battaglie le tristezze delle prigioni, degli esilii, delle condanne, quando anche sprezzatori di primi pericoli perchè onorati, paventavano gli altri perchè infami, e perchè agli uomini è natura temer le offese che la propria virtù non può sfuggire o vendicare. E avverti che dopo la tiranna per i popoli bilancia politica degl’imperii, l’esercito straniero arrivato alla frontiera di Napoli, dominatore in Italia, ha già vinto per l’armi o col nome nazioni e re. Avessimo almeno fortezze sul confine, linee interne, ostacoli d’arte per menare a lungo la guerra e sperare ajuto del tempo; ma è nuda la frontiera, è nudo il regno dal Tronto al Faro.
Le quali particolarità geografiche e politiche spiegano alcuni casi della nostra recente istoria, maravigliosi per le rozze menti: avvegnachè i Napoletani, intrepidi al duello, arrischiati nelle civili fazioni, mancarono nelle guerre ordinate e proprie; e le stesse milizie, valorose in Ispagna, in Alemagna, in Russia, sbigottiscono in Italia, fuggono sul Garigliano e sul Tronto. Lo che addiviene dall’esser eglino solamente soldati su la Dwina e sul Tago; ma in Italia faziosi, alla frontiera ribelli; e non vi essendo possanza d’animo e di membra che basti a schivare le ricerche della polizia, le furie della tirannide, succedono al sentimento della propria forza il dubbio, il timore, la prudenza e la fuga. Quei che temono la vergogna più che la prigione o i patiboli, non fanno nerbo di esercito; virtù solitarie e sventurate dopo lode fuggitiva vanno a perdersi nelle sorti e nell’onta comune.
VI. Dalle cose discorse in questo capo deriverebbe che la società napoletana fosse nel 1805 rozza, e che le si convenissero costituzioni di governo, piuttosto che libere, assolute. Ma per la opposta parte rammentando i prodigi di libertà del 1799, gli uomini chiari di quel tempo, l’abbassato papato, la già scossa feudalità, si crederebbe il popolo già maturo a migliori destini.
Le quali opposte sentenze, ambo vere, ambo fallaci, trovano spiegazione dal riflettere che il buon regno di Carlo, il regno migliore di Ferdinando sino al 1790, il genio riformatore del passato secolo avevano portato civiltà nei ministri della monarchia e nei sapienti, ma civiltà di dottrine che non giunge alla coscienza del popolo.
Dopo il 1790, il re, per lo spavento della rivoluzione di Francia, insospettito delle riforme di stato, mutò pensiero e peggiorò il governo; ma il popolo progrediva, e sebbene il re adoperasse asprezze gravi contro i migliori, e molti ne morissero per guerre e condanne, pur la civiltà si diffondeva, cresceva il bisogno di leggi migliori.
Non mai società è stata sconvolta quanto la napoletana ai primi anni del XIX secolo: il potere del re illimitato, ma senza scopo; nemmeno quello della tirannide perchè gliene mancava la forza; i sapienti avviliti e senza speranza, nemmeno nella servitù perchè disadatti all’obbedienza e non creduti; il ceto dei nobili disordinato, infermo, non spento; tal che non era nobiltà nè popolo: la fazione del 99 contumace alle leggi, rapace, potentissima al distruggere, al creare impotente. Era perciò impossibile riordinare lo stato con le proprie forze dei proprii elementi; bisognava nuovo re, nuovo regno, ed avvenimento che per la sua grandezza sopisse le domestiche brighe e desse scopo comune alle opere ed alle speranze.