Sopra le vie del nuovo impero/Kos e Kalimno

Per l’Egeo. - Kos e Kalimno

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In pellegrinaggio a Psithos Kalimno. Leros. Lipso. Pathnos. Stampalia
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Per l’Egeo. - Kos e Kalimno.


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Rodi, Luglio.

Partii qualche mattina fa da Rodi per Kos sopra una navicella greca. Navigammo vicini alle coste asiatiche con assai vento. Le coste asiatiche e quelle dell’isola che fanno, come dissi, un gran canale a somiglianza del canale di Corinto, ma più largo e maestoso, avevano sopra alle loro cime qualche velo di nubi bianchicce. In faccia, a prua, un po’ più verso destra stava Simi. Una nave veniva dalle coste asiatiche, una da Simi, una vela rossa vagava per il mare.

L’Asia che m’attirava, l’Asia antica e nemica, che tante volte dalla strada di Trianda e da Kum Burnu avevo vista tingersi dell’azzurro stesso del mare e non essere più solido, ma una forma di colore e di luce fra mare e cielo e partecipante dell’uno e dell’altro, m’appariva ora per la vicinanza [p. 138 modifica]qual’era, terra e pietra, biancastra, rossastra, nuda e solitaria.

Quando fummo tra capo Alupo che scende dolcemente in mare, e l’isoletta di Simi montuosa e rotonda, vedemmo dinanzi l’altra grande branchia settentrionale della Doride, l’antica Chersonesos Cnidia, nereggiare in fondo all’orizzonte. Ci accostammo alla punta di Simi che ci voltava il dorso nudo avendo la sua piccola città nel golfo opposto, e già erano apparse sulla sinistra le altre isolette di Alimnia e di Karki che stanno a occidente di Rodi, ed Episcopi quasi di faccia. Passammo rasente alla punta di Simi, e apparvero anche il capo Krio della Doride settentrionale e Nisiro. Navigammo lungo le coste petrose di Simi, raggiungemmo il capo Krio, ed Episcopi ci sfilava a sinistra, lunga lunga con le cime dentate, e Nisiro più verso prua si presentava tricuspidata, e già era apparsa anche Kos e da sinistra a destra si distendeva per tutto l’orizzonte.

Chi naviga nell’Egeo, tra le Sporadi come tra le Cicladi, presso i golfi asiatici come presso i golfi della Grecia, vede tutto un apparire così. Una nebbia è laggiù in fondo in fondo all’orizzonte; è un’isola lontanissima; un’altra isola meno lontana nereggia, un’altra più vicina è tinta del colore stesso del mare; quella che si rasenta, è roccia e terra. [p. 139 modifica]Ed è così a destra, a sinistra, in faccia, dietro le spalle. Navigate, e la nebbia diventa forma d’isola nereggiante, e quella che nereggiava, già incomincia a vestirsi di colori, la sua terra s’arrubina e folgora al sole sotto il velo del mare e del cielo, e quella che aveva il colore del mare, già si spoglia e si fa nuda terra, oppure s’allontana e s’oscura. Ed è così a destra, a sinistra, in faccia, dietro le spalle. E le isole cambiano forme, secondo che si va loro dinanzi, o si girano. E cambiano fra di loro configurazioni e col mare, le une si distaccano dalle altre, mentre prima parevano tutt’una, e il mare penetra e fa seni e canali. Ma tanto sono belle, tanto appariscono nude.

L’isola di Kos si presenta come un monte sul mare, e un altro monte è a sinistra, lontano, più piccolo; fra i due par mare, ma poi appare una riga di nebbia ed è la terra bassa che congiunge i due monti; sicchè Kos sembra un mostro adagiato sul mare, con due grandi teste riunite da un corpo piatto. Sono le tre dopo mezzogiorno; Nisiro e Kos e l’isoletta di Jalio, che sta fra le due, sono nella zona del sole raggiante, e soltanto al capo Fuca verso il quale andiamo, Kos rosseggia.

Molte vele correvano nel suo profondo golfo, il Sinus Ceramicus degli antichi, e [p. 140 modifica]dicontro a prua, lontano sulle coste d’Asia s’erigevano i monti d’Alicarnasso. Quando poi avemmo doppiato il capo Fuca, vedemmo le coste d’Asia far qui ciò che fanno su Rodi: venire con un grande arco montuoso verso l’isola e insieme con questa chiudere il mare in lago. Vedemmo le due branchie della Doride e la Caria meridionale sopra il golfo di Kos e le isole di Kos, Nisiro, Simi, Episcopi e Rodi, formare tutte insieme un solo sistema di grandiosi disegni: il mare spezza le terre, le terre il mare, e mare e terre congiungendosi, intersecandosi, formano tali architetture. Quella del lago di Kos è anche più potente che quella di Rodi, perchè l’Asia è più a ridosso.

Su questo lago di mare dal contorno così potente la città di Kos si adagia con una leggerezza elisia, digradando dalle falde de’ suoi monti alla riva e gettando poi anch’essa verso l’Asia un lungo braccio di terra così leggiero e sottile che pare un ramo flessuoso. È un ramo lungo lungo e sottile sottile e che ha per maggior leggerezza, dove va finendo, cinque mulini dalle ali bianche che girano. L’arco di Kos appena piegato, per chi giunge dal capo Fuca incomincia con dei mulini, e dall’altro capo finisce con dei mulini. È un arco fra due ali. Scoprimmo il grazioso inganno: parevano da lontano vele di mare e [p. 141 modifica]sono mulini di terra. È Rodi, ma più leggiera, più distesa lungo il mare. Come Rodi anche Kos è tutta casette bianche e alberi; al disopra, le falde e i fianchi de’ monti sono a campicelli verdi. Così è ora l’isola che prima, quando le navigavamo contro, ci presentava il nudo dorso, senza un’abitazione umana, nè un fusto.

Gettammo l’áncora. Dieci o dodici soldati che stavano a bordo diretti a Lipso, mandarono alte grida, quando videro la riva tutta formicolante di loro compagni. Scendemmo.

Kos ha una guarnigione di ottocento soldati italiani comandata dal colonnello Maffi. La piccola città è tutta animata di soldati e d’ufficiali lungo il mare e sotto le pergole di frasche secche. È inesprimibile il sentimento che suscita questo miscuglio che gli eventi inaspettatamente produssero, di gioventù italiana e degli abitanti di quest’isola di cui era dimenticato il nome, sotto i tre rami immani, sostenuti da tre pilastri, del platano d’Ippocrate, Matusalem delle piante, a cui si danno più di venti secoli d’esistenza. Nel castello dei cavalieri, più piccolo di quello di Rodi, ma altrettanto massiccio, e che ora è caserma italiana, ed era prima caserma turca, vidi i soldati italiani che giocavano alle buchette, come si usa in Toscana, con le palle di ferro delle artiglierie del cinquecento. [p. 142 modifica]Vidi su una porta del castello un fregio di maschere teatrali del migliore stile greco, e presso il platano d’Ippocrate, su una piazzetta per terra un pezzo di fregio delicatissimo a festoni e puttini. Non si può esprimere il sentimento che suscitano queste ultime reliquie del suo splendore antico nell’isola che fu riscoperta dalla nostra guerra in pieno Mediterraneo. Essa era come le rovine sepolte.

Kos ha ora, la città circa 3000, tutta l’isola circa 10 000 abitanti, la maggior parte greci e poche migliaia turchi. Ha cinque villaggi, esporta agrumi, uva, bestiame, frutta. È come Rodi e le altre Sporadi il paradiso delle frutta. Quattro milioni di chilogrammi d’uva all’anno, mi fu assicurato da quei del paese, si esportano da Kos in Alessandria d’Egitto. Girato il capo Fuca l’isola appare coltivata quanto prima appariva nuda. La coltivazione sale dalla spiaggia sin verso le cime taglienti e dentate dei monti. È verde e florido a perdita d’occhio. Ma non ci sono strade. Sotto il regime turco s’era pensato a farne una da un capo all’altro dell’isola, rotabile, e s’era anche tracciata tutta e per un terzo condotta a compimento, e poi s’era lasciata in abbandono. Dirò di più: quei di Kos non conoscono ruota. Non conoscono veicolo, all’infuori dell’animale col basto. Non carri, non carrette, non cariole: il che [p. 143 modifica]sembra incredibile a noi che abbiamo le ruote della terra, del mare e del cielo. Ma il regno della civiltà, o meglio della vita attiva, è più ristretto, o miei lettori, di quel che non si pensi, quando si abita a Parigi, o a Londra, o a Roma, o a New-York; perchè non ci sono soltanto le terre inesplorate e i popoli selvaggi, ma ci sono anche le terre morte e i popoli morti. Chi non lo sa? Ma ci sfugge. Tali terre e tali popoli sono vicinissimi a noi, sotto i nostri occhi, dentro il cerchio stesso più famoso della nostra attività, ma ci sfugge. Kos è ben poca cosa: Rodi stessa è ben poca cosa; tutte insieme le Sporadi meridionali e settentrionali sono ben poca cosa. Ma insomma queste Sporadi e queste Cicladi erano un tempo le articolazioni viventi tra l’Europa e l’Asia. Dalle coste della Grecia tutte seni voraci e branchie rapaci, alle coste dell’Asia, tutte seni anch’esse e branchie, attraverso a questa seminata d’isole, la vita ferveva, si scambiava, e furono create le più belle e le più sapienti civiltà del mondo, le più profonde e le più piacevoli. Quivi, fra queste Sporadi e queste Cicladi, navicelle all’áncora che fanno ponte tra i due continenti, viveva quel popolo vario, europeo ed asiatico, che aveva del fenicio e dell’ebreo; quel popolo politropo come il suo Ulisse, avidissimo, [p. 144 modifica]agilissimo, callidissimo, popolo di cerretani famosi delle loro proprie geste e di famosi divoratori di tutto il frutto delle geste altrui, che riuscì a divorarsi due eredità imperiali, quella di Alessandro e quella di Roma. Sicchè l’una e l’altra corsero su queste navicelle immobili tra l’Europa e l’Asia. Quivi fra queste Sporadi e queste Cicladi, oscure e corruscanti, si ritrovarono le misure del Partenone e i modi dell’eloquenza che elevò Maratona, non maggiore forse della nostra Zanzur, sopra tutte le battaglie terrestri e per giunta Salamina sopra tutte le battaglie navali. Quivi, fra queste Sporadi e queste Cicladi, dalla Grecia all’Asia, fu creata tutta la vita ideale con cui da duemila e cinquecento anni gli uomini incitano, innalzano, confortano, purificano la loro vita reale. Come nella formazione dei terreni, gli scienziati scoprono strati su strati, così ci sono nella nostra vita, quale ora respira, parla, agisce e si tramanda, vite su vite, e di queste, le più profonde e le più solide, indistruttibili, connaturate ormai con gli istinti istessi della nostra specie, furono generate qui, su questi scogli. Ma ora su questi scogli è il silenzio, la solitudine, la morte. Ciò che in questi fu, passò in noi, e qui è il vuoto. Ecco perchè nella piccola Kos, nell’isoletta che non conosce ruota, e di cui la [p. 145 modifica]nostra civiltà, la nostra cultura occidentale avevano dimenticato anche il nome; ecco perchè ier l’altro nella piccola Kos il cuore mi tremava, quando i miei occhi si chinavano sul fregio dei puttini. Le è rimasta dunque qualche reliquia ancora di quello che ebbe una volta, e che poi attraverso a tanti secoli e a tante fortune del mondo, tutto quanto è passato nell’anima mia?

Kos ha queste reliquie e i vaghi ricordi di Ippocrate, d’Esculapio e d’Apelle ad attestare che un tempo fu illustre sede di vita attiva.

Kos ha la sua bellezza, la sua leggerezza delicata sul grandioso lago.

Kos è fertile.

Non parliamo nè di Kos, nè di Rodi; parliamo di tutto un mondo che può risorgere.

L’italiano che ora vi approda, trovandovi i soldati della sua patria, si ripromette che a questa spetti il compito, se non frappone ostacoli la solidarietà europea, quella solidarietà che i giornali francesi tirano questi giorni in ballo, e nella quale entra per buona parte anche il turco.

Quando ripartimmo da Kos, il sole pendeva su Cappari e Kalimno che trasfiguravano nella luce. Dinanzi alla nave, altre isolette e scogli tra Kalimno e le coste asiatiche trasfiguravano nella luce. Le coste [p. 146 modifica]asiatiche eran brune nell’ombra, ma in fondo al suo golfo, nel gran golfo Ceramico, biancheggiava Alicarnasso turrita. Poi venivano altri villaggi bianchi. E alla nostra sinistra, su Kos che non si perdeva, al mezzo dell’isola e a mezza altura biancheggiava il villaggio di Pile. Sotto quel tramonto un soldato stava diritto sulla punta di prua e ai suoi piedi s’erano distesi bocconi tre o quattro suoi compagni con la faccia al mare, mentre un altro, uno sveglio e loquace udinese, mi s’era accostato e mi parlava. Ma io pensavo al piccolo romanzo che ognuno di quei giovinotti doveva portare dentro di sè, nel grande romanzo della nazione italiana in Affrica e per l’Egeo. Essi erano stati in Affrica ed avevano combattuto, erano venuti nell’Egeo ed avevano combattuto, ed ora navigavano d’isola in isola. Avevano visto il deserto e paesi dai nomi strani e fogge di vestire più strane ancora, e ora navigavano a presidiare Lipso, a presidiare Kos e Kalimno, tra l’Europa e l’Asia, essi, i figliuoli de’ contadini di Sicilia, d’Abruzzo, del Veneto e di Toscana. Chi l’avrebbe detto un anno fa? E se lo sarebbero essi detto? Avevano essi prima sentito parlare del mare? Sì, per emigrare. Ma io un giorno desiderai ardentemente di vedere così navigare gli italiani, da soldati e conquistatori, un giorno [p. 147 modifica]che navigavo per un oceano lontano insieme con un armento di mille emigranti. E li ho visti.

Tramontava il sole, quando giungemmo dinanzi al golfo di Kalimno, e demmo fondo dinanzi alla piccola città, quando era già notte. C’era apparsa all’improvviso leggiadrissima, un vero ferro di cavallo, stretto, tra due monti che s’incontrano ad angolo. Nella notte mi pareva avere qualche rassomiglianza con una cittadina della Dalmazia da me vista qualche anno fa: Lussinpiccolo. Il porto, intimo, era buio. Erravano piccole barchette. Pochi lumi alle casine in costa, tanto da intravedere appena il disegno di quel nido umano. Sulla riva s’intravedevano ombre di soldati nostri, nella piccola ressa prodotta dal nostro arrivo, e quelli della nave guardavano i compagni.

Quanti per tutto l’Egeo!

Scendemmo a terra.