Sopra le vie del nuovo impero/Kalimno. Leros. Lipso. Pathnos. Stampalia
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Kalimno. Leros. Lipso. Patmos. Stampalia.
Rodi, Luglio.
Kalimno, come i lettori possono comprendere, non è un molto gradevole soggiorno. Ogni casipola ha il suo orticello, ogni orticello è pieno di mandarini; i kalimnioti pescano le spugne e non pochi hanno qualche denaro; ma l’aspetto della piccola città che s’ammucchia sul piccolo porto e s’inerpica in costa, è misero e non proprio. Kalimno ha dai 12 ai 14 mila abitanti, tutti greci.
Leros al contrario è quasi direi un elegante luogo di villeggiature. Partito da Kalimno di buon mattino, navigando verso il settentrione dinanzi al golfo di Mendelia, l’antico Sinus Iassicus, giunsi a Leros due ore dopo. La città si stende lungo la spiaggia in bell’arco, sale su per il monte, si getta su un altro monte che col primo fa angolo, trapassa la loro gola e riesce dall’altra parte adagiandosi in costa. Da questa parte la vediamo, alta e bianca, quando navighiamo verso l’isola; poi giriamo, e il grosso della città ci appare tripartita fra i due monti e la spiaggia.
Ed è, come ho detto, luogo di villeggiature. Perchè, come da Rodi, così anche da queste più piccole isole la gente emigra. In minimo, avviene qui, in questa plaga del Mediterraneo orientale, ciò che avviene in tutto il resto del Mediterraneo, più in grande nel nostro occidente: gli abitanti di Rodi, di Scarpanto, di Simi, di Nisiro, di Kos, di Kalimno, di Leros emigrano anch’essi, spesso vi si dice per una ragione tutta speciale, per fuggire la coscrizione turca; ma in realtà per la solita ragione per cui da per tutto si emigra: per la miseria. Questi oscuri isolani de’ piccoli scogli perduti, veramente perduti in pieno Mediterraneo; questi oscuri isolani di cui si è tornati ad aver notizia come si ritrova in un vecchio archivio un piccolo documento storico, o una tanagretta in un terreno classico; e si son ritrovati in una condizione di vita anteriore al tempo in cui navigavano i fenicii per le stesse acque, e da Creta partivano i primi raggi delle civiltà vetuste; questi oscuri isolani, dalla loro solitudine e dal loro silenzio emigrano per loro conto come i loro illustri fratelli del regno di Grecia, come gli italiani e gli spagnuoli; emigrano in Egitto, in Anatolia, nella lontana America. Ignari, allo stesso stato economico ritrovarono lo stesso rimedio economico: emigrare. E in minimo, oggi appartengono anch’essi al grande proletariato mediterraneo che si è disperso e si disperde per i cinque continenti.
Ha qualche attrattiva talvolta osservare i piccoli aspetti de’ grandi fenomeni, e qualche attrattiva avrebbe osservare a Simi e a Leros gli aspetti minimi dell’emigrazione mondiale. In Italia l’emigrazione, rimedio alla necessità, produsse un salutare mutamento: preparò la conquista. Il siciliano, il calabro, il basilisco, non potevano non emigrare, perchè le loro patrie erano povere. Ma siccome esisteva anche una patria grande, comune per tutti loro, il siciliano, il calabro, il basilisco, emigrando e accumulando denaro non soltanto riuscirono a mutare le condizioni lor proprie e quelle de’ loro paesi natii, ma anche contribuirono a mutare quelle della patria comune. E con la patria comune tornando si ricollegarono. E oggi il siciliano, il calabro, il basilisco, restando o non restando emigrante d’America e di Tunisia, è conquistatore della Libia: è rimasto individualmente e magari regionalmente emigrante, ma nazionalmente è conquistatore. Anche il greco del regno, quando emigra, costruisce qualcosa di più della sola sua fortuna personale; tornando, o mandando il suo denaro nel regno, con questo si ricollega: e gli Averof che donano navi da guerra alla nazione e stadii di marmo alla capitale, costruiscono nazionalmente. Qui poi, su questi piccoli scogli che la civiltà aveva dimenticati, si è sotto il dominio della morte, il turco; eppure l'emigrazione produce se non altro la nettezza e l’abbellimento d’una piccola città. L’emigrazione è il primo e il più umile contatto col di fuori, quasi un principio d’imperialismo, sebbene alla rovescia, da cui può uscire la grandezza dei popoli. Quei di Leros emigrano in Egitto, mettono insieme qualche somma, tornano, si fabbricano una villetta nell’isola natìa.
Giunsi da Leros a Lipso in poco più di un’ora, e Lipso è la più piccola delle molte isole da me visitate, quella che più ricorda al visitatore le età dei pastori omerici. Rividi lassù, sulla piccola collina dov’è la piazzetta dinanzi alla chiesa, i dieci o dodici soldati che avevano fatto il viaggio con me sino a Kalimno, e che ora guardavano la navicella che affondava l’áncora nel porto. Il qual porto è un ferro di cavallo di colline basse, assai verdi, assai coltivate, con un paesucolo di poche case nel mezzo. Qualche mulino a vento, intorno qualche grazia. Gli abitanti vanno dai 400 ai 500, poveri, più che poveri, nudi, e molti di loro emigrano in America. L’isolotto, che appartiene a San Giovanni di Patmos, produce fichi, mandorli, citrioli, cocomeri, grano, orzo e foraggi per un po’ di bestiame. Per una stradicciuola arcuata salii dal porto al casolare pietrigno e tutto pieno di donne e di bambini, di galline e di pulcini. Un vecchio novantenne, vestito alla foggia delle isole, erculeo, diritto, scendeva con passo sicuro giù per le rocce, venerando e antico come il Nestore omerico. Un sacerdote salmodiava nella chiesetta, e da questa uscivano un profumo e un fumo d’incenso, che si diffondevano per l’atmosfera raggiante sul mare turchino.
Ma come a Kos non si conosce ruota, così nel più umile Lipso non si conosce letto, e la buona gente semplice e antichissima dorme per terra, che è più spesso roccia che terra, come gli animali domestici, e fra i suoi animali domestici. Lassù conobbi un giovane che era tornato d’America qualche giorno prima, dall’Argentina dove aveva lavorati i campi sotto proprietarii italiani. Egli mi parlò di loro, della loro ricchezza, di Buenos Aires, di Calle Reconquista, delle pampas, aprendomi le vaste visioni da quel suo scoglietto.
Navigando da Lipso all’isola di Patmos, questa si presenta di fronte, molto spaziata, montuosa, rosseggiante e su uno dei suoi cinque o sei cocuzzoli una macchia bianca, un mucchio forse di case, forse la città, forse un grande edificio solo. L’isola si stende dinanzi ai nostri occhi in linea retta. Ma a poco a poco avvicinandoci, incomincia a flettersi in forma d’arco, tutta dentata di bei cocuzzoli; il centro si trae indietro, i due capi s’avanzano. È una formazione in moto. L’arco diventa anfiteatro. La macchia bianca è il convento di San Giovanni, e la città bianca è su un altro cocuzzolo. Navighiamo ancora, raggiungiamo l’anfiteatro che era rosa, rosa e qua e là verde, sotto il sole raggiante, sul mare turchino, e lo vediamo profondarsi, allungarsi in canale. Appare alla nostra sinistra la parte più bassa della città, a piè del monte coronato dal convento che è convento e maschio forte. Appare un’altra parte della città in costa sul monte dicontro. La formazione in moto è compiuta; diamo fondo; i monti intorno sono nudi, petrosi, aspri, forti, chiudono con un disegno di grande stile.
Così tutte queste isole, isolette e scogli, raccogliendoli ora dinanzi alla memoria, sono uniformi e varii nello stesso tempo. Ricordo Rodi, e Kos rassomiglia a Rodi, ma è più in ispiaggia e meno in costa, più sottile, lungo e leggiero; e Kalimno è un ferro di cavallo, stretto, e Leros è tutto partito tra la gola di due monti e la spiaggia, e Lipso rassomiglia a Kalimno, ma non è così stretto e intimo, e Patmos è sul cocuzzolo e in anfiteatro, molto aperto e grandioso. E le isole di Patmos, di Leros, di Lipso, di Kalimno, come di Rodi e di Kos, come di Nisiro e di Simi, come tutte le Sporadi e le Cicladi, hanno ciascuna la sua città bianca che non è senza grazia su la nuda roccia, o tra ’l verde, ma è questa sola, piccola come un villaggio, prodotta e alimentata da tutta l’isola, come una sola perla dalla sua conchiglia. Le piccole città, ciascuna nella sua isola, vivono oggi come mille, duemila, quattro mila anni fa, e non è senza poesia il non poter precisare; vivono separate le une dalle altre, dentro uno spazio di mare di pochi chilometri, come se fossero separate da grandi oceani. E vivono, queste Sporadi e queste Cicladi, tra la Grecia e l’Asia, in uno stato di civiltà tutto speciale che si potrebbe chiamare egeatico, e che era della Grecia, ed è ancora dell’Asia, sotto il dominio della morte, il turco. Sino a pochi giorni fa, in ognuna di queste piccole città, in ognuna di queste piccole isole, c’era un proconsole minimo dell’impero ruinante, il quale malversava succhiando fra lo sterpo e la roccia. Finchè vennero gli italiani e catturarono quei mariuoli; e ora le città e l’isole hanno un presidio di soldati e di carabinieri nostri e una già bene ordinata amministrazione e una giustizia.
Patmos, l’isola dei terribili ricordi cristiani, è poverissima. Ha circa 3000 abitanti, molti emigranti. Produce pochi fichi e poc’uva, un po’ d’orzo e di grano nelle valli. Non commercio, non pesca di spugne.
Una navigazione di poco più di cinqu’ore, da settentrione a mezzogiorno, mi portò a Stampalia; ed io accostandomi mi ricordavo di quando l’avevo vista la prima volta venendo d’Italia, e m’era parso che tutto vi accadesse come in un’ora remota; come sempre accade quando i fatti e le cose appariscono dinanzi agli occhi profondi del nostro spirito, nella loro essenza. E anche questa volta la grande baia e quella più piccola, attigua e comunicante del Maltesana, erano tutte animate. Cerano dentro la Roma, la Napoli, la Regina Elena con la bandiera ammiraglia, e molte torpediniere, e le navi onerarie, la Sterope che porta il carbone, il Tevere che porta acqua, e la nave officina Vulcano. E filavano barche cariche di marinai, altri bianchi marinai si vedevano arrampicarsi sulle pendici delle alture nude. E sulle stesse pendici si vedevano antenne radiotelegrafiche, bandiere agitate al forte vento, batterie di marina, proiettori, stazioni di vedetta. Demmo fondo dinanzi alla piccola baia di Skala, sotto al castello dei Querini che ora è tutto pieno di catapecchie, come, a male agguagliare, il palazzo di Diocleziano a Spalato.
Mettiamo il piede a terra sulla riva di Skala, un embrione di paesello, di mercato e di porto, che ebbe il suo primo sviluppo dallo sbarco degli italiani i quali richiamarono giù dal loro nido gli stampalioti a inalzare osterie di tavole e di frasche e a vendere frutta e pomodori. Saliamo. La balza è rocciosa, coperta di cespuglietti spinosi che gli indigeni chiamano «astiví». Dall’alto del castello l’isola è nudamente ciò che deve essere, mostra la magnificenza delle sue baie. L’isola di Stampalia, base navale dell’Italia nel Mediterraneo orientale, è fatta di due isole, una meravigliosamente simile a una grande ala di pietra, ad oriente, ed una ad un grande cuore, ad occidente. Le due isole, distanti l’una dall’altra e parallele, sono congiunte insieme per il mezzo da una spranga di terra; sopra è la baia settentrionale, sotto, la baia meridionale dove stanno ora le nostre navi e dove si dà fondo venendo dall’Italia, o da Rodi. Una riga di scogli spezza in due, nel mezzo, la baia settentrionale e forma due grandi baie che fra loro comunicano. Una riga di scogli spezza in due la baia meridionale, e una è la baia del Maltesana, l’altra è quella appunto dominata dal castello e che non ha nome, o almeno l’ignoro. Uno scoglio sta sulla bocca della baia del Maltesana come a tapparla, e le navi vi stanno al riparo, quasi in nascondiglio. La spranga di terra che congiunge le due isole, il cuore e l’ala, a mo’ di manubrio, in un certo punto che si chiama Spundisti, è strettissima e si potrebbe con facilità tagliare per mettere così in comunicazione le baie settentrionali con le baie meridionali. Questa è Stampalia, isola nuda, ripeto, roccia sul mare, di grande stile.
Dalla quale partii per far ritorno a Rodi. L’isola guerresca s’infocava sotto il sole che la inondava, e tutto il ritorno fu un trionfo di sole, di mare, di coste; una di quelle giornate che danno all’uomo il sentimento della divinità diffusa fra cielo, mare e terra, e lui stesso rendono divino. Le coste di Rodi e dell’Anatolia mi apparivano ora dal mare, più che altre volte non le avessi viste, trasfigurate tra mare e cielo, materiate del solo loro colore che era medio fra quello del mare e quello del cielo, più leggiero del primo e più denso del secondo e come un passaggio dall’uno all’altro. Più che altre volte, mi apparivano in uno stato di grazia. Lo stato di grazia è delle creature umane e delle cose, ed è quando la materia il più possibile s’alleggerisce, e appare la bellezza dello spirito.