Sopra le vie del nuovo impero/Le opere italiane a Rodi
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Le opere italiane a Rodi.
Rodi, Luglio.
Un popolo giustifica le sue conquiste non tanto per la sua forza guerresca, quanto per la sua capacità di mettere in ordine. Quest’ultima è di sua natura costruttiva, mentre quella senza questa sarebbe soltanto distruttiva. E infatti ci furono, e ci sono imperi semplicemente distruttori, come fu ed è per eccellenza il turco, e ci furono e ci sono imperi costruttori, come furono nell’antichità i romani e sono oggi le nazioni europee colonizzatrici. I primi rendono tutt’al più alla storia del genere umano questo servizio: agiscono come gastighi di Dio, flagellum Dei, Attila, o il turco; i secondi sono gli artefici necessarii dello sviluppo del mondo.
Ed ora anche noi siamo stati chiamati dal destino a costruire sulle distruzioni del turco, in Affrica e nell’Egeo. Ebbene, rallegriamocene, perchè facciamo buona prova.
Fui contento di riconoscerlo l’inverno scorso a Tripoli, sono contento di riconoscerlo ora a Rodi.
In ciò noi mostriamo un carattere giovanile: mostriamo ansia di portare gli istituti della civiltà nei territorii conquistati e se in qualcosa pecchiamo, è nel voler far troppo e troppo presto. Lo «sbarco» del personale per i varii, per i molti ufficii, delle macchine, delle commissioni tecniche, degli studii e dei disegni fu a Tripoli sin da principio impetuoso; tanto impetuoso e prematuro che già vi si era compiuto un piano regolatore della città quando su questa giungevano ancora gli shrapnells dei cannoni turchi.
A Rodi e nelle altre isole, come i lettori sanno, le nostre amministrazioni non poterono precedere le nostre armi, perchè queste ultime si sbrigarono troppo presto; ma le seguirono subito, ed ora, da Rodi a Kos, da Kos a Lipso, da Lipso a Scarpanto, dovunque, come c’è un presidio, così c’è un’amministrazione italiana.
E a Rodi ci sono anche lavori in corso, le strade di cui già parlai. Un’altra opera a cui si vuol porre mano, è per il condotto dell’acqua, perchè in tutta l’isola c’è acqua abbondantissima e ottima, ma in città viene inquinata, per via appunto del condotto che i turchi lasciaron guasto da molti anni: ora il nostro governo ha stanziato una somma per ripararlo. Così i turchi lasciarono la città al buio, e noi già pensiamo all’illuminazione. Già fu qui il direttore d’un’officina veronese d’illuminazione ad acetilene, e fece i suoi studii. C’era a Rodi sotto il dominio turco un piccolo ospedale ridotto a canile, e noi l’abbiamo ripulito e rifornito.
Ogni isola ha, come ho detto, un presidio di soldati e di carabinieri, ogni isola ha il suo ufficio postale. L’isola di Rodi ha tredici stazioni di carabinieri ed ha, novità sommamente benefica, un servizio di posta fatto da undici corrieri indigeni, della gendarmeria indigena. Prima il servizio postale era soltanto costiero, ma siccome la navigazione anche costiera era rara, gli scambi epistolari da un punto a un altro erano quasi nulli, e nulli addirittura erano quelli dalle coste all’interno. I villaggetti dell’interno che stanno appollaiati sulle montagne e tra le selve di pini, ignoravano, come raccontai altra volta, lo sbarco degli italiani a Kalitea, quando già gli italiani avevano catturati i turchi a Psithos. E allorchè, portate da qualche pastore errante, le prime notizie vaghe della presenza d’un nuovo conquistatore nell’isola giunsero a quei villaggetti, la gente si radunò, scelse qualcuno de’ suoi notabili e per piccola mercede lo mandò alle città della costa ad appurare le dicerie e a raccogliere i fatti. Lassù si vive solitarii davvero nel mondo, segregati nell’isola che è pure una spanna, di padre in padre e di secolo in secolo ignari del cammino che altrove fa la vita; tanto ignari che dopo l’invasione de’ turchi e la cacciata de’ cavalieri altro avvenimento non si seppe sino a quello d’oggi, l’invasione degli italiani e la cacciata de’ turchi, per circa quattrocent’anni. Il tempo è stato immobile nell’intervallo. E la segregazione e l’ignoranza produssero l’inerzia secolare, e questa la miseria degli abitanti e la sterilità dell’isola. Ma ora un sistema di corrieri combinato su modelli antichi ravvicina i villaggetti delle coste e dell’interno; i gendarmi indigeni dandosi il turno percorrono continuamente l’isola per dritto e per traverso, sicché gli scambi epistolari possono essere frequenti. E questi svilupperanno il commercio e l’agricoltura.
A Rodi già si hanno in mira le altre novità anche di maggior valore, quelle d’indole morale, le scuole. Scuole italiane debbono fondarsi; l’insegnamento dell’italiano deve introdursi nelle scuole indigene ed europee. Un fatto non sfugge a noi italiani che sbarchiamo qui, ed è la frequenza con cui si sente parlar francese. Si sente comunemente parlar francese per le strade, non solo a Neokorio, la città delle piccole ville, ma anche dentro la cinta delle mura de’ cavalieri ed ai mercati; i rodioti benestanti parlano francese; molti di loro hanno avuto la loro educazione in Francia; c’è un’esigua classe colta da cui si prendono gli agenti consolari e simili (e anche noi avevamo preso il nostro), che è addirittura di fabbrica francese. Quel po’ di civiltà occidentale che insomma giunse sino a Rodi, è francese. La Francia mantiene qui un ordine religioso scolastico, i Pères français, molto zelanti, ed anche l’Alliance israélite vi ha scuole, sicchè molta gioventù del popolo ebreo di Rodi, insieme col suo vecchio spagnuolo guasto (gli ebrei vennero qui di Spagna) parla anche il francese. Preme che si apprenda loro anche il terzo e maggiore dei linguaggi neolatini: l’italiano.
Le isole dell’Egeo non sono nella stessa condizione di Tripoli, perchè questo è nostro, su quelle pende incerto l’avvenire. Le abbiamo occupate e sono nostre, ma nessun italiano serio dimentica le potenze europee. Ciò non ostante, si lavora come se discussioni a guerra finita non dovessero sorgere e questo è nostro dovere ed è buona politica. Oltre i già indicati agirono prontamente i seguenti ufficii: dogana, capitaneria del porto, sanità marittima, municipio, igiene, finanza, ufficio agricolo-forestale, tribunali. Dall’undici per cento ad valorem si ridussero al cinque per cento i dazii doganali sui generi di prima necessità. Si ridusse l’imposta sui prodotti del suolo e, quel che è meglio, se ne tolse la riscossione ai vecchi appaltatori turchi che taglieggiavano, e si dette ai sindaci. Rispettando vecchi privilegii, o meglio vecchi abusi di contrabbando su cui i turchi chiudevano gli occhi, si abolì la regia de’ tabacchi nelle isole minori, in tutte, cioè, tranne Rodi e Kos. È saggia massima nostra che il nostro dominio pesi il meno possibile sopra i soggetti: che il meno possibile tolga, il più possibile dia, il più possibile promuova e sviluppi. Ho visto in questi giorni gli incassi doganali delle isole minori, di Leros, per esempio, e di Patmos. Cacciata d’ogni parte la frode, poste in sua vece l’onestà e la sollecitudine, da per tutto i piccoli redditi pubblici aumentano. Il municipio di Rodi fu trovato da noi con due lire in cassa; posto sotto la tutela d’un buon commissario, i primi giorni di questo mese, non ostante le maggiori uscite per i maggiori servizii della città, aveva poco meno di duemila lire.
È superfluo tirare la conseguenza: che, cioè, gli indigeni, siano questi i greci, siano gli ebrei, siano gli stessi turchi (i quali, del resto, sono altrettanto buoni come sudditi quanto sono cattivi come politicanti e governanti, perchè sotto leggi dure s’addomesticarono e ora sono docili, senza servilità, anzi con dignità, appartati dagli altri), vengono sempre più a noi. In principio nessuno si presentava per i lavori, e gli stessi scarichi del porto dovevano esser fatti dai nostri soldati; oggi l’offerta di braccia è abbondante. In principio gli stessi greci liberati si peritavano perfino di vendere agli italiani; oggi quale fiducia! D’un solo loro atto dovevamo dolerci, non loro, bensì di pochi capoccia delle isole, altrettanto goffo per se stesso, quanto villano verso di noi: alludo al convegno di Patmos da cui uscì il noto appello alle potenze; ma redarguiti a tempo dal generale Ameglio si pentirono, confessarono il loro pentimento, a Kalimno, quando il generale Ameglio vi andò in visita, e il pentimento e la confessione cancellarono la villana goffaggine. Oggi l’unione, ossequiosa da parte de’ soggetti, benevola da parte nostra, è perfetta. Quei di Rodi e delle altre isole gustano i vantaggi del cambiamento di padrone, e non è come i primi giorni la generica riconoscenza per la liberazione che li stringeva in festa e in esultanza intorno ai nostri soldati calanti dopo Kalitea dalle alture di Koskino e di Asguro, o marcianti verso Psithos; è il riconoscimento che un’amministrazione pubblica operosa e diritta è succeduta all’altra obliqua e inerte. Quei di Rodi e di Kos, di Kalimno e di Scarpanto, di Simi e di Patmos, avvertono già che qualcosa si muove e qualcosa li muove; avvertono che gli italiani, gli italiani spianatori di strade e istitutori di poste, sarebbero capaci di congiungerli con la vita organica del mondo. E alcuni di loro, gli intelligentissimi greci dei villaggi alpestri, quasi a sanzionare quell’avvenire che sarebbe equo, già, dopo sì breve tempo dallo sbarco di Kalitea, hanno incominciato a parlucchiare il linguaggio de’ nuovi dominatori.
A Tripoli, nei primi mesi della guerra, osservai più i militari che i civili; ma a Rodi, ogni operazione di guerra essendo finita, non ho trascurato di rendermi conto anche delle amministrazioni civili; e ho trovato che una profonda concordia regna fra tutti, fra i civili e i militari, mirabile fatto, sotto un capo che riunisce in sè l’istinto di gran soldato, un buon senso realistico negli affari e un gran cuore d’uomo: il generale Ameglio. Ma ho trovato che se qualche non discordia, sibbene discussione d’idee fra di loro nasce, questo è soltanto perchè ogni direttore d’ufficio vuole dare la massima espansione alle cose sue, non per ambizione, sibbene per uno zelo di attività che mostra lo stato presente di ottima sanità morale del popolo italiano. Bisogna far bene avvertenza alla distinzione fra quello zelo di attività e di ufficio che è frequente nei popoli i quali incominciano a costruire, e quella ambizione individuale che è più frequente nei popoli già avviati verso la decadenza. Noi nella Libia e nell’Egeo non abbiamo certamente numerose aquile; novizii colonizzatori, non possiamo avere numerosi pratici coloniali, ma abbiamo numerosissimi valentuomi e galantuomi, uomini di buona volontà. Il popolo italiano appare oggi, grazie a Dio, fuori dei confini un popolo di galantuomini; e la vita nazionale italiana appare in un perfetto stato di galantomismo, vale a dire, di coordinazione e di subordinazione perfette di ognuno e di tutti agli ordini costituiti. La macchina va. E i congegni di questa macchina che va, si vedono netti non tanto in Italia quanto a Tripoli e a Rodi. Noi, per mandarli a Rodi e a Tripoli, non facciamo la scelta de’ pochi uomini migliori; mandiamo senza dubbio quelli che ci sembrano adatti, ma non facciamo la scelta de’ migliori in uno scarso personale. Ebbene, tutti o quasi fanno buona prova, se non altro per lo zelo con cui lavorano. E questo, lo ripeto, avviene per le condizioni generali del popolo italiano; ed anche perchè, bisogna ricordarlo, la conquista e la colonizzazione, la guerra e l’ordinamento dei nuovi possedimenti esprimono i maggiori e migliori valori d’un popolo e de’ suoi uomini, sviluppano valori, sviluppano ingegno, volontà di fare. La novità stessa dell’atto energico della conquista suscita energie, ed ho visto questo a Rodi, l’avevo visto prima a Tripoli, con i miei proprii occhi. Ingannerei i lettori miei connazionali, se dicessi che abbiamo in Libia e nell’Egeo tanti professori di sistemazioni coloniali; abbiamo gente che laggiù e qui ha manifestato subito, proprio come un corpo reagisce ad un altro corpo, le prime qualità che sono necessarie per colonizzare. Prima è l’energia. Uomini come il Corner, ispettore superiore del ministero delle finanze, mandato qui, come già in Libia, a impiantare i monopolii di stato; come il Brizzi, commissario del municipio di Rodi; come il Moro, direttore della dogana, come altri, erano attivi anche in Italia; ma qui un nuovo zelo si aggiunse alla loro attività. Uno debbo nominarne sugli altri qui che è direttore dei servizii civili e fu già console d’Italia a Salonicco e fece allo scoppio della guerra un magnifico atto di bravura: il commendator Macchioro. Questo giovane è malato da qualche giorno, anche per eccesso di lavoro. Lo vidi ieri, consunto, e mi disse: — Mi dispiace che ho dovuto interrompere e forse non potrò più dare l’opera mia alla mia patria! — Aveva gli occhi velati di tristezza. Ora l’ufficio del Macchioro è tenuto da un altro giovane, già console anche esso, in America, dall’America passato a Rodi, il Lodi Fè, mente aperta, con la più raccolta serietà.
Fra tutti e su tutti, promotore d’operosità e cementatore di concordia, sta il generale Ameglio.